Nella Striscia di Gaza si spara ancora
Cinque palestinesi sono stati uccisi negli attacchi aerei israeliani: intanto i negoziati al Cairo sono a un punto morto e ci sono tensioni anche in Cisgiordania
Venerdì 8 agosto, alla fine di una tregua umanitaria di 72 ore, i miliziani palestinesi della Striscia di Gaza e l’esercito israeliano hanno ricominciato a spararsi, anche se con frequenza e forza minori rispetto ai giorni scorsi. Fin dalla mattinata di venerdì una cinquantina di razzi sono stati lanciati verso città israeliane del sud, ferendo una persona e un soldato a Sderot. Israele ha condotto per tutto il giorno – e anche nel corso della notte tra venerdì e sabato – una serie di attacchi aerei contro circa cinquanta obiettivi, in cui sono morte cinque persone, tra cui tre bambini. In uno degli attacchi, quello nel quartiere di Sheikh Radwan che ha distrutto una moschea in fase di costruzione, è morto un bambino di dieci anni, Ibrahim Dawawsa, che era uscito a giocare fuori casa per pochi minuti: è stato il primo morto dalla fine della tregua di 72 ore.
Gli attacchi reciproci sono ricominciati al termine di una serie di colloqui, portati avanti giovedì, in cui i leader di Hamas hanno detto che avrebbero ripreso a combattere se Israele non avesse rivisto le sue politiche, innanzitutto quelle sul controllo delle merci in ingresso nella Striscia. Israele ha invece abbandonato le trattative, dicendo che avrebbe risposto al fuoco. “Entrambi hanno mantenuto la parola”, ha sintetizzato il New York Times. Intanto ci sono stati anche delle forti tensioni in Cisgiordania, il territorio governato dall’Autorità Palestinese guidata dal presidente Mahmoud Abbas. Un palestinese è stato ucciso da un proiettile durante alcuni scontri con i soldati israeliani nella città di Hebron. Poco prima i militari israeliani avevano confermato di avere ucciso un palestinese venerdì, in una protesta a un insediamento ebraico fuori dalla città di Ramallah.
Non è chiaro quando e se riprenderanno al Cairo i colloqui per concordare nuove tregue tra Israele e Hamas: diversi commentatori ritengono che Hamas non abbia sostanzialmente niente da perdere, e che pertanto intenda proseguire eventuali trattative solo a patto di ottenere risultati positivi immediati alle sue richieste. In pratica Hamas chiede un allentamento delle politiche di embargo da parte di Israele, la costruzione di un porto sul Mediterraneo e la scarcerazione di alcuni militanti del gruppo, tutte richieste ritenute sostanzialmente inaccettabili da parte di Israele. Il problema più grosso per Hamas sembra essere la posizione dell’Egitto, il paese che al momento è considerato il mediatore principale tra le due parti in guerra: il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha manifestato in maniera molto evidente nelle ultime settimane la sua totale avversione per Hamas e il suo appoggio verso le attuali politiche israeliane nella Striscia di Gaza.
Mkhaimer Abusaada, docente di scienze politiche all’Università palestinese Al-Azhar di Gaza, ha detto che «Hamas sta cercando di mandare un messaggio da bullo ai palestinesi – del tipo ‘abbiamo portato Israele al tavolo dei negoziati e continuiamo anche a lanciare razzi’. Il problema è che Hamas si sta comportando come una superpotenza mentre sappiamo che la superpotenza è Israele, e Hamas può soltanto dare noie a Israele». Abusaada ha anche aggiunto che Hamas «non è nella posizione di mettere pressione a Israele per ottenere concessioni».