Le nuove ipotesi su Pantani non reggono
Lo spiega un giornalista che ha seguito il caso dall’inizio e ci ha scritto un libro, smontandole una per una
di Andrea Rossini
La procura di Rimini ha accolto un esposto della famiglia del ciclista italiano Marco Pantani, morto a 34 anni il 14 febbraio 2004: secondo le nuove ipotesi presentate nell’esposto, Pantani non sarebbe morto accidentalmente per overdose – nella sua camera d’albergo al residence “Le Rose” di Rimini – ma sarebbe stato ucciso, costretto a bere della cocaina diluita in acqua. La notizia ha trovato grande visibilità sulla Gazzetta dello Sport di sabato 2 agosto. Secondo l’esposto, nuove testimonianze e una nuova perizia medico-legale hanno permesso di ipotizzare un’“alterazione del cadavere e dei luoghi” nel monolocale D5 del complesso Mimosa, all’interno del residence dove Pantani alloggiava.
La nuova ipotesi – che poi tanto nuova non è – è che Pantani non fosse solo al momento della sua morte, che «avrebbe aperto la porta al suo assassino» e che una «lite verbale» sarebbe diventata un’aggressione e un omicidio. «Pantani potrebbe essere rimasto ferito in più punti del corpo, prima di soccombere». Secondo quanto riportato dalla Gazzetta riguardo la nuova perizia, «la quantità di droga trovata su Pantani equivarrebbe a diverse decine di grammi, tale da essere paragonabile ai pacchetti ingeriti dai corriere per eludere i controlli», e sarebbe «impossibile per qualunque persona mangiare o inalare una dose simile». Inoltre «ci sarebbero evidenti segni di trascinamento del cadavere» nella stanza. Queste nuove ipotesi sono state molto lette e discusse – Pantani è stato uno degli sportivi italiani più amati di sempre – ma non stanno in piedi, come ha ricostruito Andrea Rossini, giornalista che ha seguito il caso dall’inizio e ci ha scritto un libro.
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L’autopsia sul cadavere di Marco Pantani – effettuata circa due giorni dopo il ritrovamento – colloca la morte tra le 11.30 e le 12.30 del 14 febbraio 2004, preceduta da un vero e proprio delirio da cocaina: una fase in cui i poteri critici della mente si offuscano.
L’esame ha concluso che Pantani morì per un’“intossicazione acuta da cocaina agevolata, nel suo estrinsecarsi a livello cardiaco e successivamente polmonare, dalle preesistenze patologiche miocardiche indotte da un prolungato abuso della stessa sostanza”. L’omicidio venne escluso fin dalla prima ispezione del cadavere, dai due medici legali intervenuti sul posto: la porta, secondo la testimonianza del portiere, era chiusa dall’interno, in una stanza al quinto piano con le finestre serrate. Peraltro il portiere dovette spingere perché c’erano degli oggetti che ostruivano l’ingresso: Pantani si era “barricato” altre volte allo stesso modo, quando stava male e si drogava, per esempio nella casa di Saturnia. Questo indirizzò gli investigatori della Squadra mobile verso la pista dell’overdose, confermata dall’individuazione degli spacciatori (una cosa non scontata), che hanno confessato, e dalla ricostruzione delle abitudini dell’ultimo Pantani, quelle di un tossicodipendente (circostanza fino ad allora conosciuta solo dai suoi familiari e dal suo entourage).
Nessuno dei dipendenti della struttura ha riferito di avere sentito voci, litigi, discussioni provenire dalla camera la mattina del 14 febbraio. «Pantani lamentava la presenza di estranei che nessuno ha visto e le cui voci nessuno ha sentito – la percezione allucinata rientra del resto, tipicamente, nelle distorsioni sensoriali innescate dall’abuso di cocaina – e il grave disordine nel quale versava la camera, è del tutto compatibile con l’aggressività, il delirio paranoide, la rabbia estrema provocati dall’uso smodato di cocaina nella sua fase acuta». Sembra la risposta alle cose di cui si parla oggi, ma è stata scritta ben sei anni fa.
La cameriera nella tarda mattina prova ad aprire con il passepartout ma sente la voce del cliente e chiude. Pantani prende il telefono (non aveva con sé il cellulare) e chiama la hall, dicendo confusamente che c’è qualcuno che lo disturba e di chiamare i carabinieri; poi richiama e dice che non c’è bisogno (naturalmente, in caso di pericolo reale, Pantani avrebbe potuto chiamare direttamente i carabinieri dal telefono della camera). La stanza era a soqquadro ma era un disordine particolare: lenzuola annodate sul corrimano delle scale, filo dell’antenna tv legato al soppalco, impianto di condizionamento divelto, materasso del divano estratto dalla fodera, i componenti del bagno accatastati sul water. Un disordine riconducibile più al delirio di una persona che a una lotta con un individuo reale: non c’è una sola sedia capovolta. E d’altra parte, se degli assassini avessero voluto far pensare all’overdose, non avrebbero avuto bisogno di simulare alcun disordine. La posizione del corpo rilevata dalla Scientifica – altro punto ripreso nella nuova inchiesta – non è quella originaria, è vero, ma il motivo è abbastanza evidente: il personale del 118 lo spostò per praticare la defibrillazione, e si spiegano così le tracce di trascinamento.
Il corpo di Pantani sul collo aveva due piccoli segni all’altezza della giugulare, come se qualcuno avesse premuto con le dita proprio in quel punto: erano però soltanto macchie cadaveriche. Le lesioni erano undici in tutto, superficiali, quasi tutte al volto (la fuoriuscita di sangue dalla testa si deve alla caduta dell’ultimo malore), attribuite alla sua agitazione psicomotoria. Non ci sono lesioni da difesa, attiva o passiva. Le uniche due ferite di un certo rilievo – una di forma triangolare nella regione parietale sinistra e un ematoma in corrispondenza del naso, senza fratture ossee – furono dovute a urti accidentali non avvenuti nello stesso momento. Ma Pantani non aveva neppure un segno sulla bocca, sulle labbra, sulle gengive, riconducibile a una somministrazione forzata di cibo, acqua o altre sostanze.
C’era invece accanto al cadavere un bolo di cibo, soprattutto pane, misto a cocaina. Gli investigatori esclusero che fosse stato piazzato lì: era succhiato e presentava segni di masticazione. Testimoni vicini a Pantani, inoltre, riferirono che oltre a sniffarla e assumerla sotto forma di crack, Pantani negli ultimi tempi ingeriva direttamente la cocaina. Costringerlo a farlo senza scatenare una colluttazione sarebbe stato impossibile. È vero che Pantani assunse una quantità enorme di droga, più dei dei 30 grammi “confessati” dallo spacciatore – che però aveva tutto l’interesse, per non peggiorare la sua posizione, a minimizzare la quantità dell’ultima “fornitura”: era accusato di omicidio colposo come conseguenza non dovuta dello spaccio.
Per la morte di Pantani si era già svolto un lungo processo che si era concluso in 9 novembre 2011 con una sentenza della Cassazione che prosciolse uno dei tre spacciatori accusati di omicidio colposo per aver fornito a Pantani la dose letale di cocaina: gli altri due patteggiarono le loro pene (uno 4 anni e 10 mesi, l’altro 3 anni a 10 mesi). Una delle due persone condannate, come detto, confessò di aver fornito a Pantani la dose di cocaina la sera del 9 febbraio durante un incontro al Residence Le Rose.
L’indagine non fu frettolosa né superficiale: mai erano stati messi in campo tanti uomini e mezzi (soprattutto tecnologia telefonica) a Rimini per un caso di overdose. L’arresto dei responsabili dopo 55 giorni fu semmai una prova di efficienza. A posteriori si possono trovare vuoti investigativi, come in qualsiasi caso giudiziario. Di fatto, però, i responsabili confessarono. I processi confermarono che Pantani comprò cocaina per l’ultima volta proprio sulla soglia del residence. «Non sono poi emersi elementi», si legge nella sentenza del processo di primo grado, «che possano far ritenere che nell’appartamento si sia svolta una colluttazione e che Pantani sia stato indotto a forza ad assumere cocaina». Quest’ipotesi, alla luce di quanto emerso, non è affatto praticabile.
Foto: AP Photo/Peter Dejong