Il Golfo del Messico, 4 anni dopo il disastro
Il 4 agosto 2010 venne finalmente arrestata la perdita di petrolio che causò il più grave disastro ambientale nella storia americana: i danni sono maggiori di quanto si credesse
Quattro anni fa, oggi, nel Golfo del Messico fu finalmente arrestato – dopo numerosi tentativi falliti – uno sversamento di petrolio cominciato 106 giorni prima, e che determinò quello che a oggi viene unanimemente ritenuto il più grave disastro ambientale nella storia degli Stati Uniti. Quattro anni dopo, i danni causati dal petrolio ai fondali e a migliaia di specie marine sono ancora per buona parte incalcolabili, anche se nuovi studi stanno cercando di approfondire la questione. Intanto la società petrolifera proprietaria della piattaforma che esplose ha pagato quasi 20 miliardi di dollari tra multe, risarcimenti e costi per ripulire le aree interessate.
Lo sversamento era stato causato il 20 aprile 2010 da un’esplosione sulla piattaforma Deepwater Horizon della società petrolifera British Petroleum (BP), durante la realizzazione di un pozzo a 1.500 metri di profondità. Nell’incidente morirono 11 persone che stavano lavorando sulla piattaforma. Il 4 agosto la falla fu dichiarata completamente chiusa, grazie a ripetute iniezioni di fango e cemento. In più di tre mesi furono riversati in mare circa 780 milioni di litri di greggio: il disastro ebbe un impatto mediatico enorme grazie anche alla diffusione di una serie di video che mostrarono in diretta – tutto il giorno, per mesi – la continua e rovinosa fuoriuscita di petrolio da uno degli squarci della struttura sottomarina.
Nei primi giorni, nel tentativo di contrastare la perdita, furono utilizzate innanzitutto alcune sostanze chimiche in acqua per disperdere il petrolio e semplificare le operazioni di rimozione, ma diversi analisti dissero che la sostanza – chiamata Corexit – avrebbe disperso le molecole di petrolio rendendolo meno visibile in acqua ma senza sostanzialmente migliorare la situazione ambientale (anzi peggiorandola, secondo alcuni).
Le coste di Louisiana, Alabama, Mississippi e Florida furono raggiunte dall’enorme chiazza di petrolio – grande circa tre volte la Sicilia – prodotta dall’esplosione e dalla perdita, che galleggiò per settimane nel Golfo del Messico, causando danni tuttora non del tutto calcolabili ai fondali e alle migliaia di specie marine, oltre che notevoli disagi e rilevanti perdite economiche ai pescatori che per mesi non poterono uscire in mare per la pesca. Nuove ricerche indicano che la fuoriuscita ha danneggiato un’area del golfo più vasta, e a maggiore profondità, rispetto a quella che si riteneva essere stata direttamente investita dal disastro, e i danni riguardano pesci, granchi e intere colonie di coralli.
Charles Fisher, professore di biologia dell’Università della Pennsylvania, si è a lungo occupato del disastro della Deepwater Horizon e ha da poco pubblicato uno studio sull’impatto della fuoriuscita di petrolio sui coralli del fondale sottomarino. Fisher ha spiegato che alcune formazioni anomale di colore scuro, dovute agli effetti dell’inquinamento da petrolio, sono state osservate su alcune colonie di coralli distanti fino a 22 chilometri dal luogo della falla, e fino a una profondità di 1.800 metri, e ha anche spiegato che questo tipo di formazioni – prodotte dai coralli stessi come forma di protezione da un agente esterno dannoso – vengono solitamente interpretate come segno di una contaminazione tossica dell’intero ecosistema marino.
A luglio scorso Steven Murawski, un professore di scienze marine al South Florida’s College di Tampa, in Florida, aveva detto a Reuters che certe tracce di petrolio ritrovate nel fegato di alcuni pesci malati, che presentavano diverse anomalie sui loro tessuti, erano compatibili con quello liberato dalla falla della Deepwater Horizon. La BP si era difesa dalle accuse screditando la ricerca di Murawski e dicendo che “non è possibile stabilire accuratamente l’origine del petrolio basandosi sulle tracce chimiche ritrovate nei tessuti o nei fegati dei pesci”. Peraltro, aggiungeva la BP in un comunicato, i pesci “metabolizzano ed eliminano molto rapidamente i composti del petrolio, e l’origine di questi composti, una volta metabolizzati, non è più recuperabile dopo pochi giorni”.
La BP fu ritenuta responsabile del disastro e ancora oggi continua a ricevere migliaia di richieste di risarcimento danni: nel 2012 fu costretta a pagare una multa concordata di circa 4,5 miliardi di dollari – anche per aver ostacolato le indagini e aver fornito al Congresso degli Stati Uniti informazioni non accurate – e incaricata di ripulire le aree costiere interessate dallo sversamento di petrolio, operazione che finora si stima sia costata complessivamente alla BP almeno tre volte la somma pagata come risarcimento danni. L’amministratore delegato della società, Tony Hayward, si era dimesso a ottobre 2010, dopo aver compiuto molte gaffe, e dicendo nel momento più difficile della crisi che avrebbe voluto “indietro la sua vita di prima”.
Foto: l’incendio “controllato” sul luogo della piattaforma, nel Golfo del Messico, il 6 maggio 2010.
(U.S. Navy photo by Mass Communication Specialist 2nd Class Justin Stumberg/Released)