In Siria c’è ancora una guerra
Esercito e ribelli continuano a combattere in tutto il paese e luglio è stato uno dei mesi più violenti: intanto l'ISIS è diventato il gruppo più forte a sfidare Assad
Da qualche giorno la stampa statunitense ha ripreso a parlare della guerra in Siria, che va avanti da più di tre anni e che ha già fatto oltre 170mila morti: giovedì un ex membro della polizia militare siriana – disertore, ora si trova negli Stati Uniti – ha testimoniato di fronte a una commissione del Congresso americano sulle torture sistematiche che il regime del presidente siriano Bashar al Assad sta portando avanti contro i suoi oppositori. Da oltre un anno i governi occidentali e diverse organizzazioni umanitarie stanno denunciando le violazioni delle più importanti norme del diritto umanitario nella guerra in Siria: alcuni episodi sono più noti – come il bombardamento con il gas sarin compiuto dall’esercito siriano nell’agosto 2013 su due quartieri di Damasco – altri sono meno conosciuti, e riguardano per esempio le torture e le violazioni sistematiche dei diritti umani di cui ha parlato il soldato disertore siriano al Congresso.
Rispetto a qualche mese fa, i rapporti delle forze in campo in Siria non hanno subìto notevoli stravolgimenti, anche se la situazione generale del Medio Oriente, e in particolare dell’Iraq, sta provocando effetti diretti sulla guerra siriana. Il governo continua a controllare le zone occidentali del paese, e le recenti uscite pubbliche di Assad sono il segno che il regime si sente piuttosto sicuro della sua posizione. L’est della Siria è controllato in buona parte dallo Stato Islamico (IS, la sigla in inglese), il gruppo estremista sunnita prima conosciuto con il nome Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS). Le altre fazioni dei ribelli si contendono – o tra di loro o con l’esercito governativo – soprattutto il nord della Siria, tra cui Aleppo e le province di Idleb e Hama. In pratica in Siria la guerra non è mai finita. Luglio 2014 è stato uno dei mesi con più morti di tutto il conflitto: in soli sette giorni sono state uccise 1.700 persone, tra cui 270 soldati governativi. Oggi sembra che il più potente avversario di Assad sia lo Stato Islamico, il gruppo più estremista e violento nella fazione dei ribelli.
Come stanno le milizie sciite che combattono a fianco di Assad
Da dicembre dello scorso anno, cioè da quando lo Stato Islamico ha preso il controllo della provincia occidentale irachena di Anbar, molti miliziani sciiti iracheni che mesi prima erano andati a combattere la guerra in Siria a fianco dell’esercito governativo di Bashar al Assad sono tornati nel loro paese. Dall’inverno scorso, infatti, diversi gruppi sunniti – tra cui lo Stato Islamico – hanno preso il controllo di alcune città dell’Iraq nord-occidentale, fino a imporsi su circa un terzo del territorio nazionale: hanno indebolito il governo centrale di Baghdad guidato dallo sciita Nuri al-Maliki e hanno creato di fatto uno stato nello stato. Lo spostamento di miliziani sciiti dalla Siria all’Iraq ha quindi indebolito il fronte sciita che combatte da oltre tre anni contro i ribelli al regime di Assad.
Uno dei gruppi che è rimasto coinvolto in questo processo è stato il movimento libanese sciita Hezbollah, che dopo le vittorie militari riportate lo scorso anno attorno alla capitale Damasco e ad altre città di grande importanza strategica nell’ovest della Siria ha cominciato a soffrire una significativa limitatezza delle risorse. Alcuni dei miliziani che combattevano a fianco di Hezbollah, ha spiegato il giornalista Sam Dagher sul Wall Street Journal, sono sciiti iracheni, e come molti altri iracheni in Siria da dicembre dello scorso anno sono tornati in Iraq. Inoltre, molti dei migliori leader militari di Hezbollah sono rimasti uccisi negli ultimi mesi di combattimenti: per esempio nel maggio scorso è stato ucciso appena fuori Damasco il comandante Mustafa Ayoub, conosciuto anche con il nome di battaglia Abu Turab, considerato da alcuni come il “migliore cecchino di tutto il Medio Oriente”. Gli ultimi miliziani di Hezbollah che sono arrivati in Siria non hanno ricevuto l’addestramento militare al livello dei primi, non sono stati equipaggiati a sufficienza e sono stati spesso reclutati senza alcuna esperienza di guerriglia alle spalle.
Per sopperire in qualche modo a questa mancanza, l’Iran – paese a maggioranza sciita e forte alleato della Siria e di Hezbollah – ha cominciato a reclutare i profughi afghani per mandarli a combattere in Siria, pagandoli 500 dollari al mese e dandogli una casa. Queste informazioni, messe insieme da Farnaz Fassihi sul Wall Street Journal, sono state confermate da un membro dell’ala dell’esercito incaricata del reclutamento e dalla maggiore autorità religiosa afghana nella città iraniana di Qom, oltre che da funzionari afghani e occidentali. Nonostante l’indebolimento generale delle milizie sciite in Siria, le forze di Assad sono riuscite a mantenere il controllo di buona parte dell’ovest del paese: il governo siriano ha sfruttato soprattutto le divisioni esistenti tra i diversi gruppi ribelli, i quali sono arrivati a scontrarsi violentemente tra loro in alcune città siriane.
Lo Stato Islamico, cosa controlla e chi combatte
Nel mese di luglio lo Stato Islamico ha preso il controllo di una serie di città lungo l’Eufrate dopo diverse battaglie con altre fazioni di ribelli: ha conquistato per esempio Deir Ezzor, sesta città siriana per numero di abitanti, e ora controlla circa l’80 per cento dell’omonima provincia siriana. Nelle ultime settimane sembra che l’IS abbia cominciato a combattere con più intensità anche il governo di Bashar al Assad. Tra i due schieramenti finora c’era stata un’animosità sul campo di battaglia piuttosto limitata, che aveva fatto parlare alcuni di una specie di accordo fatto appositamente per sconfiggere le altre fazioni ribelli: il 25 luglio l’IS ha catturato la Divisione 17, una base militare a Raqqa che da molto tempo era contesa tra i due eserciti. Il giorno successivo ha conquistato una seconda base nella provincia nord-orientale di Hasaka. Come risposta, l’aviazione siriana ha compiuto diversi attacchi aerei su obiettivi dell’IS.
In un articolo del 23 luglio scorso, il New York Times ha raccontato come lo Stato Islamico stia governando Raqqa, di fatto la capitale dell’esteso territorio che l’IS controlla sia in Siria che in Iraq. Da quando è finita sotto il controllo dell’IS, Raqqa è cambiata molto. La sala del municipio è diventata la Commissione dei servizi islamici. Quello che prima era l’ufficio del ministro delle Finanze ora è occupato dalla polizia criminale e da un tribunale che basa le proprie decisioni sulla sharia. L’impressione, hanno raccontato alcuni abitanti di Raqqa sentiti dal New York Times, è quella di avere a che fare per certi versi con uno “stato rispettabile”, con alcuni lati però molto oscuri:
«Nella città di Raqqa, i vigili urbani mantengono gli incroci ordinati, il crimine è raro e le tasse vengono pagate. Ma alcune statue come i leoni del parco al Rasheed sono state distrutte perché considerate blasfeme. Gli spazi pubblici come piazza al Amasy, dove i giovani uomini e le donne una volta uscivano e flirtavano la sera, sono stati circondati da imponenti recinzioni metalliche da cui sventolano le bandiere dell’ISIS. Le persone accusate di furto hanno perso le mani nelle amputazioni pubbliche.»
All’arrivo dell’ISIS le tre chiese cattoliche di Raqqa sono state tutte immediatamente chiuse, e i pochi cristiani che ancora non se ne sono andati sono stati costretti a seguire le regole religiose imposte dal gruppo, come la chiusura dei negozi durante le preghiere. Sono state imposte altre restrizioni: la polizia religiosa ha vietato di fumare in pubblico – una decisione che ha stroncato la vita sociale della città e ha costretto diversi caffè a chiudere – e ha imposto alle donne di coprirsi i capelli e la faccia in pubblico.
La prima testimonianza pubblica di “Caesar”
Giovedì 31 luglio si è tenuta di fronte a una commissione della Camera del Congresso americano, a Washington, la prima udienza pubblica di “Caesar”, disertore dell’esercito siriano fedele al presidente Bashar al Assad. “Caesar”, la cui identità per ragioni di sicurezza non è mai stata rivelata, ha portato fuori dal suo paese migliaia di fotografie e documenti sulla guerra in Siria, che sembrano mostrare l’esistenza di un piano sistematico di torture contro gli oppositori al regime di Damasco. L’intenzione del Congresso americano è quella di avviare una procedura interna – quindi possibile solo nel caso in cui siano coinvolti dei cittadini americani – per perseguire i crimini di guerra compiuti dalle forze governative siriane, visto che la Russia e la Cina hanno bloccato una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per avviare un processo al Tribunale Penale Internazionale.
“Caesar” è un ex fotografo della polizia militare siriana, e prima di fuggire dal suo paese si occupava di fotografare migliaia di corpi di persone morte all’ospedale di Damasco, molti dei quali mutilati o con segni di tortura. Le fotografie di “Caesar”, inizialmente consegnate a un team internazionale di importanti giudici, avvocati, antropologi, esperti in immagini e patologi forensi, sono state considerate autentiche sia dall’FBI che da altre agenzie di polizia occidentali. Le foto sono circa 50mila, e sono impressionanti: mostrano corpi con segni di denutrizione, violente contusioni, strangolamenti e altre forme di tortura. Le informazioni consegnate da “Caesar” verranno integrate con quelle legate alle indagini su “altre strutture detentive” siriane che gli Stati Uniti stanno portando avanti per individuare i responsabili e l’estensione delle torture.
Gli Stati Uniti e altri stati occidentali stanno conducendo diverse indagini da oltre due anni per verificare l’estensione dei crimini compiuti nella guerra siriana. Il regime di Bashar al Assad intanto ha definito le fotografie di “Caesar” una montatura, dicendo che le persone ritratte morte e ferite sono in realtà sono state bersaglio dei ribelli, e non delle forze governative.