La pornografia è pericolosa?
I video porno contengono un imprescindibile elemento di violenza? E quella violenza finta produce una qualche forma di violenza anche nella vita reale?
Patrick A. Trueman è un avvocato, ex direttore della “Child Exploitation and Obscenity Section”, una sezione del dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti che si occupa di far rispettare le leggi penali federali relative allo sfruttamento dei bambini e alle “oscenità”. Trueman è anche presidente della “Morality in Media“, un’organizzazione fondata nel 1962 che si oppone alla pornografia e al traffico sessuale: il suo impegno è in bilico tra una concreta dedizione a combattere le violenze sessuali e un’attenzione che può suonare persino bacchettona a come viene comunicato il sesso e il ruolo della donna nella cultura popolare. Nei giorni scorsi, per esempio, la sua organizzazione ha diffuso questa nota sul nuovo trailer di “50 sfumature di grigio” in cui sembrano mescolarsi preoccupazioni fondate e intransigenze eccessive. Suggerendo riflessioni altrettanto contraddittorie, la settimana scorsa durante la conferenza annuale che si è tenuta a Miami su questo tema, Trueman è intervenuto con una relazione intitolata: “Il porno crea la domanda per il commercio a sfondo sessuale degli esseri umani”.
La discussione riaperta da Trueman è interessante perché si riferisce a una questione molto attuale e ricca di contraddizioni e fragilità: se buona parte della pornografia – ma prima ancora la sessualità stessa rappresentata dalla pornografia – contenga o no un elemento di “violenza” e prevaricazione; e se questo elemento produca eventualmente qualche forma di “violenza” anche nella vita reale e nei rapporti sociali in generale, conservandola nella cultura popolare. Il dibattito è quindi molto complesso: ha a che fare con la censura; con la convivenza tra una società e una cultura basate sul rispetto delle persone e della loro libertà e una società e una cultura che hanno sdoganato, in nome di quella stessa libertà, un elemento che invece potrebbe contraddirle; ha a che fare con un aspetto degli esseri umani, quello sessuale e sessuato, che precede la cultura del rispetto, e con il rapporto, infine, tra rappresentazione e vita reale: come cioè un certo tipo di rappresentazione possa produrre, rafforzare, normare e normalizzare la vita reale.
Pornografia e traffico di esseri umani
Patrick A. Trueman dice che mentre il traffico e lo sfruttamento di esseri umani a fini sessuali sono quasi universalmente riconosciuti come qualche cosa di negativo e perseguibile, non ugualmente condiviso è il concetto che la produzione e la distribuzione di materiale pornografico siano direttamente collegati a questo sfruttamento: e invece secondo lui dovrebbe. «La pornografia è un potente stimolante che può effettivamente alterare i modelli cerebrali, creando dipendenza. Viene prodotta principalmente per gli uomini e comincia a plasmare le loro aspettative e i loro desideri sessuali già dalla pre-adolescenza».
Trueman sostiene che la rappresentazione stereotipata delle donne nella pornografia – ma non solo – abbia conseguenze non soltanto sugli uomini ma anche sulle donne. «Campagne pubblicitarie di massa rivolte a giovani ragazze sembrano imporre loro che devono vestirsi e comportarsi come prostitute per essere tenute in considerazione». E cita una ricerca dell’American Psychological Association (l’associazione di categoria che rappresenta gli psicologi americani) che ha rilevato come si stia sempre più diffondendo tra le ragazze un processo di “auto-oggettivazione sessuale”, che consisterebbe nell’auto-percezione di sé come oggetti sessuali.
Trueman cita anche un recente studio sui video porno più venduti in America, da cui risulta che l’88 per cento delle scene contengono una qualche forma di violenza fisica o violenza verbale: i maschi sono rappresentati come predatori e le donne come prede da attaccare. «Queste immagini condizionano gli uomini nel vedere le donne come oggetti per il loro piacere, e desensibilizzano al dolore reale causato dallo sfruttamento sessuale». Il consumo di pornografia, secondo Trueman, ha come diretta conseguenza l’aumento della domanda di traffico di esseri umani legato al sesso, in quanto crea una disposizione e un’abitudine ad acquistare e “oggettivare” le donne, soprattutto tra i giovani che creano oggi attraverso la pornografia una parte della loro educazione al sesso rilevante come non è stata mai (il rischio è meno credibile per gli adulti soddisfatti e consapevoli).
Trueman conclude dicendo che andrebbero usati tutti i mezzi che si hanno a disposizione per fermare questa domanda, frenando la distribuzione di materiale pornografico e facendo rispettare le leggi in materia (il riferimento americano è al Trafficking Victims Protection Act del 2000 contro il traffico di esseri umani presente anche nel settore del porno mainstream).
Il dibattito sul porno
Un dibattito intorno alla pornografia si sviluppò soprattutto a partire dal 1972 (anno di uscita del film Gola profonda), si svolse soprattutto in ambito statunitense e inizialmente coinvolse personalità accademiche e intellettuali del movimento femminista. Le critiche principali – recepite anche nella discussione più generale che ha superato i confini del femminismo – erano legate al fatto che il porno mainstream rappresentasse non tanto il sesso, ma un certo tipo di sessualità e di modelli (sia maschili che femminili) stereotipati: assenza di storie e di volti, corpi spalancati ridotti a orifizi, rappresentazione delle donne come oggetti sessuali (e non sessuati) creati per il piacere e il controllo maschile, e rappresentazione di dinamiche sessuali costruite dagli uomini per uno sguardo esclusivamente maschile.
Tutti questi argomenti erano legati a una critica precedente, più ampia e generale, della sessualità così come era stata “costruita” e si era consolidata nell’immaginario collettivo (e che si può definire come “fallocentrica”): mito della penetrazione e dell’orgasmo maschile, assegnazione di un ruolo attivo e passivo a seconda del sesso, modello di sessualità legata esclusivamente alla procreazione e non al piacere per le donne, modello di sessualità legata alla conquista e al piacere per gli uomini.
A sostenere questa posizione furono ad esempio Catharine McKinnon e Andrea Dworkin che scrissero come la pornografia e varie pratiche sessuali fossero basate sulla dominazione sia dello spettatore che dell’attore e come fossero quindi di per sé ostili alle donne perché legate a una mercificazione dei loro corpi. Di opinione diversa, invece, Nadine Strossen che difese la legittimità del porno dicendo che preservare in ogni sua forma la libertà di parola o di espressione fosse un compito che andava di pari passo con la battaglia per la libertà d’azione e d’espressione delle donne.
Che fosse o no per la libertà delle donne, si può affermare che la nostra cultura e la nostra società sono andate in quest’ultima direzione e hanno via via accettato sempre di più la pornografia come parte di un processo di liberazione e accettazione di relazioni, desideri e sentimenti. Trueman sostiene però che la pornografia abbia fatto l’esatto contrario: abbia cioè alimentato le prevaricazioni. Citando Catharine Mackinon, una delle protagoniste del dibattitto sul porno, dice che il consumo di pornografia di per sé è «un’esperienza di sesso a pagamento e quindi crea il desiderio di continuare ad acquistare e oggettivare. La pornografia è la pubblicità per il traffico a sfondo sessuale e non solo in generale, ma anche nel senso che i trafficanti e gli sfruttatori utilizzano le immagini pornografiche delle loro vittime come specifica pubblicità per i loro “prodotti”».
Un altro genere di pornografia
Contro chi chiedeva e chiede ancora oggi un’azione di censura contro la pornografia e a partire, invece, dalle posizioni di chi, fin dall’inizio, ne difendeva la legittimità, si è sviluppato il movimento del post-porno o della cosiddetta “pornografia femminista”.
Si tratta di un genere che si rivolge sia alle donne che agli uomini e che ha come principale obiettivo quello di criticare dall’interno il sistema della pornografia tradizionale, rappresentando le donne, la sessualità e le relazioni sessuali in modo differente e libero da qualsiasi sistema di violenza e dominazione. La regista Tristan Taormino scrive per esempio in The Feminist Porn book: «Voglio sfidare la nostra concezione di cosa sia il sesso, quello che si ritiene il sesso tra virgolette ‘normale’». Dal 2006 esiste un festival con relativo premio (Feminist Porn Awards) dedicato a questa particolare declinazione di film porno ed esistono dei manifesti che ne contengono regole e principi:
«Ci hanno nutrite del cliché culturale per cui le donne sessualmente attive e indipendenti sono o pazze, o lesbiche e quindi pazze. Vogliamo vedere e fare film in cui Betty Blue, Ophelia e Thelma & Louise alla fine non devono morire».
«La censura non può liberare la sessualità. Fintanto che le immagini sessuali sono tabù, l’immagine della sessualità delle donne non potrà cambiare. Non attaccate le donne perché mostrano il sesso. Attaccate il sessismo che cerca di controllare la nostra sessualità»
«L’erotismo è buono e ne abbiamo bisogno»,
«Godi, decidi o lascia perdere. Dì NO quando ti pare, per essere in grado di dire Sì quando vuoi TU».
Un esempio di film post-porno è Sluts and Goddesses: How to Be a Sex Goddess, del 1998, in cui la regista Annie Sprinkle spiega alle donne una serie di esercizi per diventare consapevoli del loro corpo; in Anatomie de l’Enfer del 2004, Catherine Breillat critica invece gli stereotipi maschili facendo interpretare al celebre attore porno Rocco Siffredi il ruolo di un gigolò gay pagato da una donna per farsi guardare nuda; in The Elegant Spanking del 1995 Maria Beatty mostra pratiche sadomaso tra donne; il movimento Puzzy Power propone film in cui gli attori usano il preservativo o in cui sono assenti alcune pratiche sessuali ritenute offensive per le donne.
Piuttosto noto è, infine, il caso di Dirty Diaries, un progetto collettivo che consiste in 12 corti pornografici girati su telefonino da altrettante registe e diretti da Mia Engberg, che è uscito nel 2009 e che è stato finanziato con 500 mila corone (50 mila euro) dallo Svenska Filminstituten, l’organizzazione che distribuisce finanziamenti statali per la produzione, distribuzione e proiezione pubblica dei film svedesi.