L’Argentina a poche ore dalla bancarotta
Entro la mezzanotte di domani il governo deve trovare un accordo con i fondi speculativi statunitensi che deve rimborsare, altrimenti farà di nuovo default (e forse gli conviene)
Se entro la mezzanotte di domani, mercoledì 30 luglio, il governo dell’Argentina non raggiungerà un accordo con i rappresentanti dei due fondi di investimento statunitensi a cui, in base a una recente sentenza, deve versare 1,33 miliardi di dollari, il governo dovrà dichiarare default: la bancarotta. Si tratterebbe del secondo fallimento dell’Argentina negli ultimi tredici anni.
Finora le trattative non hanno portato ad alcun accordo. Oggi, martedì 29 luglio, è previsto un nuovo e probabilmente definitivo incontro a New York tra i delegati del governo argentino (guidati dal ministro delle Finanze, Pablo Lopez) e i rappresentanti dei fondi statunitensi attraverso il mediatore nominato dal tribunale di New York, Daniel Pollack. Secondo diversi analisti, probabilmente non si concluderà nulla: anche perché al governo argentino un nuovo default potrebbe in qualche modo andar bene.
Come si è arrivati a questo punto
Durante la crisi economica e finanziaria del 2001, l’Argentina dichiarò default su circa 100 miliardi di dollari di debito: disse insomma che non era in grado di pagare il proprio debito, restituendo il denaro con gli interessi a chi aveva comprato i suoi titoli di stato. Per affrontare la crisi vennero avviate trattative per arrivare alla cosiddetta “ristrutturazione del debito”: nel 2005 e nel 2010 vennero emessi nuovi titoli di stato “scontati” – cioè con rendimenti inferiori e con scadenza più lunga, trentennale – offrendoli ai creditori. Pur di limitare le perdite, lo scambio (swap) fu accettato dal 92,4 per cento degli investitori, mentre il 7,6 degli obbligazionisti si rifiutò. Questi creditori “ribelli” – tra cui anche il fondo di investimenti speculativo NML, controllato dalla Elliot Management di proprietà del miliardario statunitense Paul Singer – ricorsero allora alla giustizia statunitense.
Lo scorso mese la Corte suprema degli Stati Uniti ha dato loro ragione, rifiutando l’appello del governo argentino e confermando delle sentenze precedenti: ha dunque deciso in via definitiva che quei possessori di titoli di stato argentini che non avevano accettato la ristrutturazione del debito successiva al default del 2001 devono essere rimborsati al cento per cento. La cifra da pagare corrisponde a 1,33 miliardi di dollari e la scadenza per il pagamento è la mezzanotte di domani. Se l’Argentina non rimborserà questi fondi, non potrà nemmeno effettuare i pagamenti sul debito ristrutturato, quelli “ridotti”. Questo è un punto fondamentale: lo scorso 26 giugno l’Argentina aveva depositato più di 800 milioni di dollari per pagare chi aveva accettato lo scambio. Ma il giudice della Corte suprema aveva «ordinato alla Banca di New York e alle società di servizi di compensazione di non pagare».
Perché è così difficile trovare una soluzione?
Finora il governo argentino ha fortemente criticato la sentenza della Corte Suprema americana, rifiutando di pagare e definendo i fondi statunitensi “fondi avvoltoio”. Secondo diversi analisti, probabilmente non si arriverà a nessun accordo perché al governo argentino un default potrebbe in qualche modo convenire. In caso di rimborso totale ai fondi statunitensi, il governo rischierebbe infatti rivendicazioni giuridiche anche da parte degli altri titolari di obbligazioni (quelli che hanno accettato lo scambio). Cosa questa che potrebbe costare al governo centinaia di miliardi di dollari.
Nell’accordo previsto dalla ristrutturazione del debito è stata infatti inserita la clausola Rufo (Rights upon future options) che, semplificando, concede ai titolari di bond di chiedere pagamenti maggiori se l’Argentina dovesse accordarsi con chi non ha accettato lo scambio. In teoria l’Argentina ha i mezzi per rimborsare i 1,33 miliardi di dollari di cui è stata oggetto la sentenza, ma non le richieste che potrebbero arrivare grazie alla clausola Rufo – che scade in dicembre – da parte degli altri titolari di obbligazioni che avevano accettato lo scambio.
Ovviamente, anche una bancarotta non sarebbe comunque senza conseguenze per un’economia già piuttosto in crisi: dal 2001, a causa della sua inaffidabilità finanziaria, il paese non si può finanziare sui mercati internazionali (non può vendere titoli di stato all’estero, insomma); negli ultimi mesi l’inflazione è cresciuta moltissimo, il potere di acquisto è bassissimo e i prezzi sono aumentati notevolmente. I fornitori stranieri sono sempre più preoccupati che le imprese argentine non riescano a effettuare i pagamenti, ma al momento non c’è, rispetto al 2001, alcun segno di protesta o panico tra la popolazione argentina.
Un sondaggio diffuso la settimana scorsa ha mostrato che il 47 per cento degli argentini crede che il governo abbia gestito in modo “positivo” la recente crisi e le trattative con i fondi speculativi statunitensi. Il governo, attraverso le dichiarazioni della presidente Cristina Kirchner, dei vari ministri e anche attraverso comunicati ufficiali pubblicati su pagine a pagamento di diversi giornali nazionali e internazionali (anche italiani), ha spiegato che l’Argentina vuole pagare il suo debito, ma che la sentenza statunitense e alcuni “fondi avvoltoio” stanno bloccando i pagamenti (la colpa, insomma, non sarebbe del governo stesso). E ha preparato un piano di emergenza in caso di default: prezzi bloccati per alcuni prodotti, concessione di crediti facilitati per acquisto di immobili e auto, finanziamenti a piccoli imprenditori.