Nadine Gordimer, che raccontò l’apartheid da bianca
È morta domenica a Johannesburg a 90 anni, aveva vinto il premio Nobel nel 1991
di Stephanie Hanes - Washington Post
Nadine Gordimer, la scrittrice sudafricana vincitrice del premio Nobel la cui prosa intensa e intima ha aiutato a mostrare l’apartheid ai lettori di tutto il mondo, e che ha continuato a illuminare la bellezza e brutalità del suo paese ancora dopo la caduta del governo razzista, è morta il 13 luglio nella sua casa di Johannesburg. Aveva 90 anni. La sua famiglia ha annunciato la morte senza rivelarne le cause.
Gordimer, che era bianca, fu una precoce e attiva militante del partito dell’African National Congress, ma non partecipò alla scrittura dei suoi documenti politici. Il suo ruolo da autrice, diceva, era solo “scrivere a mio modo più onestamente che posso e profondamente quanto riesco della vita intorno a me”.
I suoi personaggi dai nobili ideali avevamo spesso limiti personali; gli uomini d’affari razzisti e indifferenti avevano la stessa complessità e profondità dei combattenti per la libertà. “Il conservatore”, che vinse il Booker Prize nel 1994, racconta uno dei personaggi meglio definiti di Gordimer, un industriale bianco che ha acquistato una grande fattoria fuori Johannesburg, anche per usarlo come sede di appuntamenti con la sua amante sposata e politicamente radicale.
Un altro romanzo famoso, “La figlia di Burger”, pubblicato nel 1979, segue le fatiche personali e politiche di Rosa Burger, figlia di un medico carismatico e attivista anti-apartheid afrikaner che morì in carcere. In un paese definito dalla propria intensità politica, Rosa conclude che “il vero significato della parola solitudine” è “vivere senza responsabilità sociali”.
Il romanzo del 1981 “Luglio” racconta la storia di una famiglia bianca liberal che scappa da un’immaginaria rivoluzione violenta contro l’apartheid e finisce nel villaggio del suo ex servitore, Luglio.
Dal romanzo del 1958 “Un mondo di stranieri”, che descrive i futili tentativi di un giovane uomo d’affari inglesi di conservare dei legami tra i bianchi e i neri in Sudafrica, a “Ora o mai più” del 2012, che segue una coppia interrazziale che cerca di affrontare la problematica società post-apartheid, Nadine Gordimer ha sempre scritto senza risparmiarsi di razza, identità e luoghi, e di come sistemi politici repressivi incidono sulle vite e sulle relazioni delle persone.
«Sa rendere visibili le condizioni di vita terribilmente disumane ed estremamente complicate in un sistema di segregazione razziale», disse il segretario dell’Accademia Svedese Sture Allen nel consegnare a Gordimer il premio Nobel per la letteratura nel 1991. «In questo modo, si fondono arte ed etica». Stephen Clingman, professore all’università del Massachusets ed esperto del lavoro di Gordimer, spiega che per Gordimer “la politica è carattere psicologico”. «Sapeva che se vuoi capire qualunque personaggio, bianco o nero, devi saper comprendere il modo in cui la politica entra nell’individuo».
Il governo segregazionista, che imponeva censure molto capricciose, vietò quattro dei suoi romanzi con differenti accuse di sovversione. Nel suo discorso per il Nobel Gordimer disse: «Questa nostra impresa estetica diventa sovversiva quando i vergognosi segreti del nostro tempo sono esplorati in profondità, con l’integrità ribelle dell’artista nei confronti della vita attorno a sé. E allora i temi e personaggi dell’autore sono inevitabilmente formati dalle pressioni e distorsioni della società, così come la vita del pescatore è determinata dalla potenza del mare».
Nadine Gordimer era stata la fondatrice del Congress of South African Writers, a maggioranza nera, e aveva tra i suoi più intimi amici intellettuali come Edward Said e Susan Sontag. Per quanto leale amica e maestra di coloro che riteneva meritevoli della sua attenzione, era anche nota per la sua impazienza con chi trovava noioso. Era insofferente delle prudenti sensibilità dei “bianchi liberal” e preferiva definirsi una “radicale”, mostrandosi infastidita dalle ansiose attenzioni alle fatiche dei bianchi nel Sudafrica post-apartheid. Si era rifiutata di trasferirsi in un quartiere protetto di Johannesburg – anche dopo essere stata derubata con la forza del suo anello di nozze e chiusa in un ripostiglio durante una rapina nella sua casa nel 2006. Dopo ciò riconobbe la gravità del problema della criminalità nella sua città, ma espresse anche comprensione per i rapinatori. «Penso che dobbiamo guardare le ragioni del crimine», disse al Guardian: «Ci sono giovani che vivono in miseria e senza prospettive. Hanno bisogno di istruzione, formazione e lavoro».
Gordimer era alta un metro e cinquantacinque ma aveva quella che qualcuno definì “la fierezza attentamente curata di chi è fragile”. Malgrado la sua piccola statura, sapeva infliggere uno sguardo pungente e intimidatorio a chi suggeriva che i suoi libri parlassero di persone o eventi reali, ripetendo che le sue storie erano pura finzione, e che secondo lei proprio questo rendeva la sua scrittura più “vera”. Le storie, spiegava, danno sguardi più chiari sulle politiche e le scelte, e sul loro duraturo impatto sulle vite delle persone: più delle biografie o dei saggi giornalistici. «Ci faceva vedere cose della politica che la politica non avrebbe saputo descrivere», dice Clingman.
Nadine Gordimer era nata il 20 novembre 1923 fuori Johannesburg, nella città mineraria di Springs, un posto di “praterie bruciate, discariche minerarie e colline di carbone”, nelle sue parole. «Non un luogo romantico», disse durante una presentazione a Cape Town nel 1977 intitolata “Cosa è per me il Sudafrica”. «Non un panorama che gli europei riconoscerebbero come Africa. Ma è Africa. Per quanto lo trovi duro e brutto, e per quanto l’Africa per me sia diventata molte altre cose, quello è il mio primo impatto con la vita; tutto quello che ho visto e conosciuto dopo è cresciuto da lì».
I suoi genitori erano immigrati ebrei – sua madre inglese, suo padre lituano – non praticanti e, diceva lei, terribilmente borghesi. Da bambina prese lezioni di danza, frequentò la scuola di un convento e fu avvisata di stare attenta alle baracche dove vivevano i minatori neri, quando attraversava la prateria per andare a scuola. A 11 anni le fu scoperto quello che più tardi risultò un problema al cuore non grave. Ma sua madre – che lei descrisse come una donna energica ma annoiata dalla sua vita – la tolse da scuola e dalle sue amate lezioni di danza, e assunse un tutore tenendola “a riposo” per anni. «Di questo misterioso male ora posso parlare», disse in un’intervista del 1976: «Dopo essere cresciuta capii che aveva a che fare con l’atteggiamento di mia madre nei miei confronti, che lei allevò quello che probabilmente era una cosa passeggera e ne fece una lunga malattia, per tenermi a casa, per tenermi con sé».
Fu in questa strano isolamento forzato – sempre con gli adulti e passando i pomeriggi a leggere con sua madre – che Gordimer cominciò a scrivere. Pubblicò racconti nella sezione per ragazzi di un giornale locale e a 15 anni scrisse il suo primo articolo per un pubblico adulto. Catturata dall’idea di diventare una scrittrice, Gordimer si trasferì a Johannesburg. Frequentò corsi all’università per circa un anno ma imparò di più frequentando la scena artistica del multirazziale quartiere di Sophiantown. Antony Sampson, direttore della rivista per neri Drum, diventò uno dei suoi più stretti e fidati amici.
C’è una seconda nascita che poteva accadere ai sudafricani, disse una volta Gordimer parlando all’università di Cape Town: la presa di coscienza che l’apartheid non è un ordine del mondo di natura divina, fisso e immutabile. Spiegò diversi momenti attraverso i quali lei aveva iniziato ad aprire gli occhi sulla terribile natura dell’apartheid: i disumani raid nell’alloggio della sua tata nera, dietro casa dei suoi genitori, e di fronte ai quali loro rimanevano impassibili e silenti; la scoperta che i minatori neri che frequentavano negozi gestiti da persone come suo padre non erano autorizzati neanche a toccare la merce prima di averla comperata; la sua amicizia con diversi scrittori neri, che lei considerava più bravi ma che non avevano le sue stesse possibilità di intraprendere la carriera da scrittori.
Gordimer pubblicò la sua prima collezione di storie brevi, “Faccia a Faccia”, nel 1949. Poco dopo cominciò a collaborare con la sezione di narrativa del New Yorker. Il suo primo romanzo, “I giorni della menzogna”, fu pubblicato nel 1953 e racconta di Helen Shaw, figlia di genitori bianchi e borghesi che vivono in una città di miniere d’oro, che comincia a realizzare le condizioni di vita dei neri intorno a lei.
Col suo paese nei problemi del post-apartheid del nuovo millennio, le fu chiesto se la democrazia avrebbe tolto ispirazione alla letteratura sudafricana. «Al contrario», rispose: «siamo pieni di problemi». A chi le criticava un’esistenza privilegiata, accusandola di avere usato come musa le sofferenze del suo paese guardandole dal suo comodo quartiere bianco senza patirne le conseguenze, rispose dicendo che non capivano il suo lavoro: «La tensione tra assistere ed essere completamente coinvolti, è ciò che fa uno scrittore».