I Cristi di Roma
È uscito un nuovo libro di Marco Lodoli sui luoghi romani meno noti, che spiega anche chi era Lucina di "San Lorenzo in Lucina"
Einaudi ha pubblicato il libro Nuove isole. Guida vagabonda di Roma di Marco Lodoli, scrittore e insegnante di lettere in una scuola superiore romana. Il libro, nove anni dopo l’uscita di Isole, raccoglie i nuovi testi scritti per la rubrica pubblicata sulla cronaca romana del quotidiano Repubblica in cui Lodoli dà indicazioni insolite sugli angoli minori ma sorprendenti di Roma, meno conosciuti sia ai turisti che agli abitanti di Roma.
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Ancora oggi, sebbene più raramente, si sente dire che un certo ragazzo «è proprio un cristo», cioè un pezzo d’uomo, un fustacchione, una vagonata di muscoli. La potenza fisica del palestrato è paragonata alla figura di Cristo sulla croce, l’unico luogo dove si disvela terribilmente la sua fisicità. Solo ai romani poteva venire in mente questa spericolata unione dei contrari, per cui un uomo inchiodato al legno, sofferente, agonizzante, viene preso come massimo esempio della potenza atletica. Davanti all’immagine del crocifisso, mille volte rappresentata nei quadri, il romano non vuole vedere lo spasmo crudele, lo sguardo moribondo rivolto al cielo, ma i pettorali e gli addominali, le cosce robuste, e più in generale una forza superiore, che mai si confonde con la mediocrità del mondo. La vita e la morte si sposano in uno sguardo solo che comprende tutto e scavalca le differenze apparenti con un sorriso beffardo, sapiente.
Uno dei Cristi più belli, sconfitto ma trionfante, addolorato eppure già distante dal dolore, lo possiamo vedere passando per piazza San Lorenzo in Lucina, luogo prediletto dall’aristocrazia romana: siccome la chiesa non ha scalini, l’occhio vola oltre la porta, attraversa la navata centrale e incontra laggiù in fondo il Crocifisso di Guido Reni, piazzato tra le colonne nere dell’altare progettato da Carlo Rainaldi.
È un’opera del 1640, uno degli ultimi capolavori del pittore bolognese, perfetta sintesi tra ardimenti seicenteschi e moderazione classicista. Il Cristo ha la luce dolente di chi morendo toglie i peccati dal mondo e il corpo scolpito degli olimpionici, potente eppure leggero, con le braccia aperte sulla croce, quasi pronte al volo. Pesa e non pesa, soffre e non soffre: tutti i tormenti che ha subito lo uccidono, eppure sembrano non aver offeso minimamente quel corpo meraviglioso. Dietro c’è una campagna desolata, un cielo fosco: e su quella croce, come diceva un vecchio romano, Cristo è proprio un cristo.
A tutti sarà capitato di rigirarsi tra le mani la pianta del nuovo appartamento, o quella del vecchio da ridefinire al meglio: l’architetto, sempre un po’ troppo creativo, prova a spiegarci la disposizione degli spazi, la cucina che diventa bagno, il salotto che si trasforma in camera da letto, il muro divisorio che verrà abbattuto per dare luce agli ambienti, e qui ci saranno tre gradini e lì lo sgabuzzino, e qui ci piazziamo l’angolo cottura e là ci inventiamo uno studiolo. Noi osserviamo quella carta millimetrata e non capiamo neppure dove sarà l’ingresso e dove andremo a dormire, ma non osiamo rivelare il nostro sbigottimento di fronte ai quadratini.
Qualcosa del genere accade anche in un quadro unico al mondo, sistemato nella prima navata a destra della chiesa di San Lorenzo in Lucina. È un’opera di Sigismondo Rosa, pittore di secondo piano del Settecento, ed è inevitabilmente un’opera modesta per qualità artistica, ma presenta un’invenzione davvero sorprendente.
Lucina, la matrona romana che ospitò a casa propria il culto cristiano, mostra al povero san Lorenzo, appena sceso dalla graticola che lo ha abbrustolito, la pianta della nuova chiesa. Due angioletti la srotolano tra le mani, mentre la pia Lucina indica, e forse spiega, dove andrà l’altare e come saranno sistemate le cappelle laterali, la soluzione a una sola navata, l’abside e il pronao. È tutto ben disegnato sul foglio, e san Lorenzo dall’alto, con gli occhi semichiusi e l’aria un po’ stordita, sembra pensare a quello che pensiamo noi in situazioni analoghe: non ci si capisce niente, speriamo bene, chissà quanto verrà a costare.
Insomma, un quadro che presenta al santo la sua nuova casa in un gioco di rimandi. Lui stringe in una mano la palma, simbolo del martirio, o forse – proprio come facciamo noi – modesta proposta all’architetto per abbellire il pianerottolo: sempre sdegnosamente rifiutata.
Gli affreschi di Piero della Francesca nella chiesa di San Francesco ad Arezzo sono uno dei vertici del Rinascimento: geometria e sensibilità, spazio e luce trovano un equilibrio perfetto in un dinamismo immobile che ha del miracoloso. Il tema del ciclo pittorico è tratto dalla Leggenda della vera croce, narrata dal frate domenicano Jacopo da Varagine nel XIII secolo: è una storia assai complicata, che parte da un albero del paradiso cresciuto sulla salma di Adamo e prosegue con re Salomone, la regina di Saba, l’imperatore Costantino e sua madre Elena, persiani e bizantini in guerra, in una serie di episodi misteriosissimi nei quali si perde e si ritrova il sacro legno da cui fu ricavata la croce di Gesù. È una leggenda che attraversa i millenni, una sorta di celestiale caccia al tesoro piena di enigmi e sorprese, di sogni rivelatori e duelli all’ultimo sangue.
Ebbene, anche a Roma c’è un meraviglioso ciclo di affreschi ispirato a questa vicenda, un capolavoro quasi ignoto che si trova nell’Oratorio del Crocifisso, poco distante dalla Fontana di Trevi. Migliaia di persone si ammassano ogni giorno davanti alla fontana, lanciano monetine speranzose e scattano fotografie a raffica, ma quasi nessuno scantona per spingersi fino a questa chiesetta che fu la prima opera di Giacomo della Porta, quasi nessuno entra per ammirare nella penombra umida il capolavoro dell’arte manierista romana. Il ciclo è stato realizzato da alcuni pittori della seconda metà del Cinquecento, Giovanni De Vecchi, il Pomarancio, Cesare Nebbia, artisti meno celebri dei geni che li hanno preceduti e seguiti, ma che su queste pareti hanno dato forma perfetta a un viaggio favoloso, a una fantasia mistica.
L’arte celebra se stessa come sempre accade nel Manierismo, trova colori e scorci spericolati, reinventa il mondo inseguendo una croce che si nasconde nel tempo infinito dell’immaginazione.
Non è la crocifissione il momento più doloroso della storia di Gesù: gli artisti, rappresentando il Cristo in croce, hanno sempre compreso che in quello strazio c’è la gloria infinita dell’uomo dio, che quel feroce patibolo è anche un trono per un trionfo. Gesù soffre per riscattare gli uomini dal peccato, muore per amore; e nel suo volto rigato dal sangue i pittori hanno visto la potenza di un destino sovrannaturale che si compie. Il dolore, poi, è la premessa della resurrezione, la fine è l’atto che precede l’inizio: e questa è una fine eroica, sublime, poetica.
Ben più tragica è la deposizione. Nel corpo di Gesù non c’è più dolore perché non c’è più vita, è solo un cadavere calato da una croce, che sbanda e crolla da ogni lato: non c’è spirito, non c’è lotta, l’apoteosi è alle spalle. C’è soltanto un servizio funebre da compiere.
Per ammirare una Deposizione bellissima nella sua mestizia, basta entrare a Santa Maria dell’Anima e puntare l’ultima cappella della navata di sinistra. È un colpo agli occhi e al cuore, questo capolavoro di Francesco Salviati, manierista fiorentino che molto lavorò a Roma, dove morì nel 1563.
Il Cristo è sorretto da ogni lato, ma il suo corpo immenso, michelangiolesco, si sfascia, svuotato com’è dal respiro vitale. Ha il collo abbandonato e ritorto in una posizione innaturale, quasi da tacchino scannato. Un braccio è sollevato, la mano sembra muoversi, ma è tenuta da un ragazzo, e il corpo è come una marionetta che sta per tornare nella scatola. Per questo morto ammazzato presto ci sarà la resurrezione, ma ora è solo fiato spento, vita fuggita, carne rotta e tristezza. Ora è solo un povero cristo.
Del crescente pessimismo del nostro tempo, il romano offre la variante più sorridente, ma non per questo meno preoccupata: semplicemente non crede che le cose possano migliorare, non ci ha mai creduto. È cresciuto troppo vicino ai palazzi del potere, alle rovine, al viavai delle mode per convincersi che qualcosa cambi davvero. A volte finge di crederci un po’, ma solo per poter ripetere alla fine: «Che t’avevo detto? Nun bisogna sognà, è sempre ’a solita storia».
Oggi però è Pasqua, Gesù risorge dal sepolcro, la primavera mette gemme sui rami, la vita promette dolci giornate, e allora voglio segnalare un luogo che pareva cadavere ed è tornato tra noi più bello che mai. È la Fonte dell’Acqua Acetosa, con lo spiazzo che ha attorno, un punto amato da Goethe e da Ludovico I di Baviera che, sotto questi olmi, accanto al fruscio dell’acqua, veniva a parlare d’amore con la sua donna romana. Per tanti anni attribuita addirittura al Bernini, fu voluta da molti papi, prima solo come cannella dissetante in mezzo alla campagna, poi come vero e proprio monumento.
Purtroppo questo capolavoro barocco era diventato una mezza discarica: la scalinata che cala fino all’esedra e alle tre vasche era piena di cartacce e preservativi; qui i trans aspettavano i clienti, tutto degradava cupamente. Ma grazie ai soldi stanziati dal Circolo Aniene e a qualche contributo delle banche, la fontana è rinata a nuova vita. Una cancellata la difende dalle incursioni notturne, gli alberi sono curati, il travertino è ripulito, l’acqua sgorga limpida.
Insomma, qualcosa rinasce, anche se c’è sempre chi si lamenta: «C’era un bel chioschetto, qui, panini buoni. Mo’ dimme tu perché me l’hanno tolto».