Tra Israele e Gaza non è la solita crisi
Lucio Caracciolo spiega perché i lanci di missili di questi giorni sono diversi dal passato e più pericolosi: nel frattempo il «Grande Medio Oriente si sta disintegrando»
Dalla fine della scorsa settimana Israele sta compiendo diversi attacchi aerei sulla Striscia di Gaza, come risposta al lancio di razzi in territorio israeliano da parte di Hamas, gruppo palestinese che di fatto governa i territori della Striscia. Hamas aveva deciso di avviare l’offensiva contro Israele dopo il ritrovamento del corpo di Mohammed Abu Khedair, ragazzo sedicenne palestinese rapito a Gerusalemme est e «bruciato vivo» da un gruppo di ebrei, forse per ritorsione di altre tre uccisioni di cui si è parlato molto nelle ultime settimane: il 30 giugno erano stati ritrovati i corpi dei tre ragazzi israeliani scomparsi due settimane prima a Hebron, in Cisgiordania, in una zona in cui il clima era parecchio teso da tempo. Negli ultimi giorni in molti sostengono che sia “sempre la solita storia”, gli stessi litigi tra Israele e Palestina che vanno avanti da più di cinquant’anni, come quello del dicembre del 2008.
Lucio Caracciolo, direttore della rivista di geopolitica Limes ed esperto di cose mediorientali, ha scritto su Repubblica che i reciproci lanci di missili tra israeliani e palestinesi non sono la stessa cosa del passato, perché nel frattempo il «Grande Medio Oriente [cioè l’area che si estende fino all’Afghanistan e al Pakistan, ndr] si sta disintegrando»: in Iraq c’è l’ISIS, gruppo estremista che recentemente è stato disconosciuto anche da al Qaida e che controlla un terzo del territorio nazionale, praticamente tutto il nord-ovest del paese fino quasi alla capitale Baghdad; in Siria c’è una guerra “tutti contro tutti” che non sembra potersi risolvere nel breve periodo, e che ha già fatto un numero impressionante di morti e milioni di profughi; l’Iran sciita e l’Arabia Saudita sunnita, due paesi stabili al loro interno, hanno rafforzato il loro intervento – fatto di programmi di intelligence, e forniture di armi e uomini – nei paesi vicini e instabili, soprattutto l’Iraq, per cercare di guadagnare potere e influenza nell’area. Nel frattempo, come scrive Caracciolo, la sensazione è che Hamas abbia perso la capacità di controllare altri piccoli gruppi di estremisti e jihadisti che operano per loro conto o per conto di altri nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania. In pratica negli ultimi mesi in Medio Oriente si è sviluppato un caos senza precedenti, e «trovare qualcosa che assomigli a uno Stato o anche solo a un numero di telefono contro cui vomitare minacce o con il quale tessere compromessi è impresa assai ardua». Anche per queste ragioni la crisi degli ultimi giorni è diversa dal passato, e più pericolosa.
Parrebbe la solita storia. Hamas provoca, Israele risponde. Fitti lanci di razzi palestinesi da Gaza dapprima contro località israeliane di confine, poi verso le principali città, Gerusalemme e Tel Aviv incluse; aerei con la stella di Davide a sganciare missili “intelligenti” su Gaza, che producono decine di vittime civili; segue spedizione punitiva di Tsahal, stivali per terra nella Striscia. Salvo rientro alle basi entro un paio di settimane. Tutti pronti a ricominciare dopo congruo intervallo.
Ma lo scontro in corso è davvero una replica del tragico refrain scritto dai protagonisti fin dalla crisi del dicembre 2008? Non proprio. È cambiato il contesto. E stanno rapidamente mutando i rapporti di forza all’interno delle élite dirigenti (si fa per dire) palestinesi e della leadership israeliana.
Il contesto prima di tutto. Il Grande Medio Oriente si sta disintegrando. Dal Nordafrica al Levante e all’Afghanistan, trovare qualcosa che assomigli a uno Stato o anche solo a un numero di telefono contro cui vomitare minacce o con il quale tessere compromessi è impresa assai ardua. Le “primavere arabe” e le controrivoluzioni di marca saudita non hanno finora prodotto nuovi equilibri, ma guerre, miseria, precarietà. Valgano da paradigmi di questa Caoslandia il golpe egiziano con tentativo tuttora in corso di annegare nel sangue la Fratellanza musulmana; la disintegrazione della Libia; il massacro permanente sulle macerie della Siria; la mai spenta guerra civile in Iraq che in ultimo ha visto riemergere le tribù sunnite e i vedovi di Saddam, insieme ai jihadisti dell’Isis, inventori dell’improbabile “califfato” di Abu Bakr al-Baghdadi. Sullo sfondo il rischio che anche la Giordania, battuta da cotante onde sismiche, finisca per crollare.
Infine i tre massimi punti interrogativi: quanto e come potrà tenere l’Arabia Saudita, che stenta a riprendere il controllo dei “suoi” jihadisti e altri agenti scagliati contro il regime di al-Assad e gli sciiti iracheni di al-Maliki – oltre che dediti a liquidare i Fratelli musulmani dovunque siano – alla vigilia di una delicatissima successione al trono? Quale fine farà il disegno dell’Iran – o di parte dei suoi leader – di rientrare a pieno titolo nella partita internazionale sacrificando le proprie ambizioni nucleari sull’altare di un accordo con gli Stati Uniti? Per conseguenza: Obama vorrà portare fino in fondo il suo ritiro dal Medio Oriente, o sarà costretto a smentirsi per non perdere quel che resta della credibilità americana nella regione e nel mondo?
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