«Una civiltà in rovina»
I paesi arabi hanno fallito miseramente nel creare democrazia, felicità e benessere, scrive l'Economist (e uno dei problemi più grandi riguarda l'islam)
Negli ultimi cinque secoli quasi tutti i paesi arabi non hanno goduto di molta autonomia. Quasi tutti quelli che affacciano sul Mar Mediterraneo sono stati dominati, in un modo o nell’altro, dall’Impero ottomano. Dopo i turchi sono arrivati gli europei, che per decenni – più di un secolo in alcuni casi – li hanno amministrati come possedimenti coloniali. Nel corso degli ultimi cinquant’anni i paesi arabi hanno finalmente ottenuto l’indipendenza, ma le cose non sono migliorate molto. Ai governi coloniali si sono sostituiti quasi ovunque dittature militari o monarchie più o meno assolute che hanno governato reprimendo il dissenso, con l’aiuto di imponenti apparati di sicurezza e sfruttando divisioni tribali o religiose. Mentre nel resto del mondo i regimi più spietati si aprivano lentamente alla democrazia e l’economia cominciava a crescere sempre più rapidamente, nei paese arabi i dittatori hanno dimostrato una considerevole capacità di rimanere al potere, mentre l’economia ha continuato a languire.
Nel 2011 la cosiddetta “primavera araba”, una serie di rivolte e manifestazioni di piazza che si sono sviluppate in diversi paesi del Nord Africa e Medio Oriente, hanno fatto sperare ai sostenitori dei regimi democratici nella possibilità che qualcosa, nel mondo arabo, potesse cambiare. Tre anni dopo queste speranze non si sono realizzate. Oggi Siria ed Iraq sono Stati falliti divisi da una guerra civile e da profonde divisioni etniche e religiose. La Libia è nell’anarchia più completa, divisa tra moltissime potenti milizie rivali. L’Egitto è ritornato sotto un regime militare, mentre le oligarchie di Algeria, Arabia Saudita e paesi del Golfo sono riuscite a rimanere al potere, sfruttando principalmente i proventi del petrolio e del gas naturale (anche se probabilmente i loro regimi sono più fragili di quanto può sembrare). Tra tutti i paesi arabi, soltanto la Tunisia sembra essersi avviata verso la democrazia e la crescita economica, anche se per diversi mesi nel 2013 una serie di violenze e omicidi politici ha fatto pensare anche qui a un collasso del sistema statale.
A questa complicata situazione è dedicata la copertina del settimanale britannico The Economist di questa settimana, titolata: “La tragedia degli arabi. La civiltà che un tempo guidava il mondo è in rovina, e soltanto gli arabi possono ricostruirla”. Il settimanale cerca di rispondere ad una domanda:
Una delle grandi domande dei nostri tempi è: perché gli arabi hanno fallito in maniera così clamorosa nel creare democrazia, felicità e (a parte per i proventi del petrolio) benessere per i loro 350 milioni di abitanti? Cosa rende le società arabe così vulnerabili ai regimi tirannici e ai fanatici che cercano di distruggerle, insieme a quelli che percepiscono come i loro alleati occidentali? Nessuno pensa che gli arabi in quanto tali non abbiano le abilità necessarie o soffrano di una specie di antipatia patologica per la democrazia. Ma perché gli arabi si sveglino da questo incubo e perché il mondo si senta più sicuro parecchie cose devono cambiare.
Secondo il settimanale uno dei principali problemi è la religione islamica. O, più precisamente, la moderna interpretazione della religione islamica diffusa in numerosi paesi arabi: l’unione di autorità spirituale e temporale e l’assenza di una chiara separazione tra stato e religione hanno impedito lo sviluppo di moderne istituzioni politiche indipendenti. Accanto a questa visione, largamente diffusa nei paesi arabi, alcuni militanti cercano una legittimazione predicando una versione ancora più estrema e fanatica dell’islam. Turchia e Indonesia sono democrazie piuttosto efficienti (a paragone di Egitto e Libia, ad esempio), anche se sono paesi a maggioranza musulmana, segno che il problema causato dall’islam deriva da come la religione viene declinata, piuttosto che dall’islam in sé.
A differenza di Indonesia e Turchia, però, nei paesi arabi non esiste una lunga tradizione statuale: i paesi arabi, come l’Iraq ad esempio, sono entità nuovissime, create disegnando confini astratti dopo la caduta dell’impero ottomano. In questo breve lasso di storia, quasi tutti i paesi arabi hanno fallito nel creare i prerequisiti per una democrazia funzionante, come una pluralità di partiti politici, l’emancipazione delle donne, una stampa libera e un potere giudiziario indipendente.
Secondo l’Economist, accanto alla mancanza di uno stato liberale è mancata anche un’economia libera. Negli ultimi anni gli stati arabi si sono ispirati più all’esperienza dell’Unione Sovietica – che in molti casi aiutava economicamente questi paesi – che a quella dei paesi occidentali. Le economie dei paesi arabi sono nate e cresciute in un clima ostile al libero mercato e favorevole alla regolazione, ai monopoli pubblici, ai sussidi e alla pianificazione centralizzata (in particolare in quei paesi che esportano grandi quantità di petrolio). Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, molte politiche di impronta socialista sono state abbandonate, ma non sono state sostituite da un mercato aperto e concorrenziale. Nell’Egitto di Hosni Mubarak, ad esempio, gli ultimi anni furono caratterizzati da un capitalismo clientelare, in cui prosperavano un pugno di imprese appartenenti a grandi famiglie legate al regime. Nei decenni trascorsi dall’indipendenza, quasi nessuna multinazionale di livello mondiale è nata in un paese arabo e gli abitanti di quei paesi che volevano esercitare i loro talenti erano costretti a emigrare in Europa o negli Stati Uniti.
La stagnazione economica ha prodotto insoddisfazione e una popolazione sempre più numerosa di giovani disoccupati e senza prospettive. Spesso nei paesi oppressi da regimi dittatoriali l’unico luogo dove potersi riunire, discutere e ascoltare discorsi è la moschea. Una generazione di giovani arabi si è radicalizzata ascoltando le prediche nelle moschee e insieme ai propri regimi tirannici ha cominciato a odiare anche i paesi occidentali. Grazie ai mezzi di comunicazione di massa, questi giovani hanno avuto la coscienza di non essere soli nel Medio Oriente e che in altri paesi le prospettive per i giovani come loro erano molto migliori. Secondo l’Economist la sorpresa non è che sia arrivata la primavera araba, ma che non sia arrivata prima di quando in effetti si è diffusa e sviluppata.
L’esperienza dell’invasione in Iraq del 2003 e le conseguenze che questa ha provocato negli undici anni successivi dimostrano che prosperità e democrazia non possono essere semplicemente esportate con le armi. Ma la soluzione non può nemmeno essere quella di mantenere artificialmente in vita regime autoritari e repressivi: anche se la primavera araba è terminata (del tutto o quasi: in Bahrein si continua a protestare per esempio, anche se a intensità minori rispetto al passato), i motivi che l’hanno causata sono ancora presenti e potrebbero causare una nuova ondata di rivoluzioni. Come è accaduto in Siria e come sta accadendo in Iraq, queste nuove rivoluzioni rischiano di finire in mano ai fanatici, che però finiscono con il «divorare sé stessi», scrive l’Economist.
La maggioranza degli arabi moderati che credono nei valori secolari dovrebbero cercare di guadagnarsi più spazio nelle politiche nazionali. Quando arriverà il momento, dice l’Economist, dovranno battersi per quei valori che un tempo fecero del mondo arabo la parte più avanzata del mondo: si tratta del pluralismo e dalla tolleranza per esempio, ma comprendono anche l’apertura all’educazione e al libero mercato. Oggi questi valori possono sembrare lontani e irraggiungibili, ma per gli arabi possono rappresentare ancora la visione di un futuro migliore.