L’uomo che per mestiere guarda i video delle decapitazioni in Iraq
Un ex analista della CIA spiega perché l'ISIS pubblica sui social network foto e video di esecuzioni sempre più violente
di Aki Peritz - Washington Post
Tra le molte altre cose, l’ISIS – lo “Stato islamico dell’Iraq e del Levante”, uno dei gruppi islamici sunniti più estremisti in circolazione, che nell’ultimo mese ha conquistato un terzo dell’Iraq – è una grande potenza dei social media. I militanti sfruttano abilmente piattaforme come Facebook e Instagram per diffondere immagini e video da voltastomaco sulla loro guerra contro gli sciiti e il governo iracheno in generale. Per esempio le foto con cui il gruppo sostiene di aver ucciso 1.700 soldati iracheni fatti prigionieri, oppure un video in cui si vedono alcuni militanti decapitare un poliziotto. Poi hanno twittato la foto, accompagnato dal commento: “Questa è la nostra palla. È fatta di pelle. #WorldCup”
Per quanto spaventose, queste storie non sono niente di nuovo: ricalcano una prassi vecchia ormai dieci anni. Io lo so bene: durante la guerra in Iraq uno dei miei compiti era intercettare e studiare tutti i contenuti diffusi online da al Qaida per conto della CIA. Queste sono le cose che ho imparato:
Sfrutteranno qualsiasi tattica gli permetta di ottenere la maggiore attenzione dai media. Nel 2005 Ayman al-Zawahiri, all’epoca vice di Osama bin Laden, disse al capo di Al Qaida in Iraq, al Zarkawi: «siamo in battaglia, e il grosso di questa battaglia non si combatte qui ma sui media». Zarkawi, il cui gruppo a un certo punto è diventato l’ISIS, lo sapeva bene: le sue gesta brutali gli hanno concesso per anni una grande e gratuita copertura da parte dei media, e attraverso quella copertura mediatica ha ottenuto reclute, ha fatto conoscere le sue idee e ha terrorizzato i suoi nemici.
Il problema è che anche le cose più orribili smettono di essere efficaci, quando diventano normali. Quando il gruppo di al Zarkawi catturò e decapitò Nicholas Berg, nel 2004, e diffuse online il video dell’esecuzione, la storia restò sulle prime pagine occidentali per una settimana. Le successive decapitazioni di Kim Sun-il, Eugene Armstrong, Jack Hensley, Kenneth Bigley e altri non ebbero lo stesso impatto. Lo stesso vale per i video delle dozzine di iracheni uccisi da al Zarkawi nei mesi successivi. Dopo un po’, il gruppo di al Zarkawi concluse che questi video non erano più abbastanza scioccanti, e non ne produssero più (o comunque non più con quella frequenza e costanza).
Certo, altri gruppi estremisti nel frattempo hanno girato centinaia di video di propaganda – molti di questi sono ancora in giro online. Per esempio, il gruppo jihadista Ansar al-Sunnah ha registrato la sua operazione del 2004 nella base Marez vicino a Mosul, quando uccisero 22 soldati e contractors americani. C’è tutto un genere sui video che mostrano veicoli americani fatti saltare in aria con gli IED, le bombe che si nascondono sotto il terreno. Questi gruppi adorano pubblicare dichiarazioni e contenuti online. C’è persino un video sul leggendario “Juba il cecchino”, un militante che sparava ai soldati americani da lontanissimo col suo fucile Dragunov. Ma il gruppo di al Zarqawi è stato il più influente, efficace e violento diffusore di propaganda jihadista, perché si è ispirato al vecchio adagio valido ancora oggi in ogni redazione: “If it bleeds, it leads”. Se c’è il sangue, va in prima pagina.
I video sono presto diventati molto sofisticati. Ho guardato decine di video rivoltanti e all’inizio erano girati in modo rozzo e amatoriale. Il gruppo di al Zarqawi però ha imparato presto le regole del gioco, e nel giro di poco tempo ha adeguato i suoi video agli standard patinati delle moderne produzioni multimediali.
Per esempio, chi registrò e diffuse il video dell’esecuzione di Berg non si preoccupò nemmeno di mettere la videocamera su un cavalletto. Il risultato fu un video – oltre che orribile – tremolante e sgranato. Il video dei quattro diplomatici russi uccisi nel 2006 era un prodotto superiore, con un montaggio agile, computer grafica e sottofondo audio. Un altro video più o meno dello stesso periodo mostra l’esecuzione di una dozzina di poliziotti iracheni; il gruppo di al Zarqawi la registrò con tre telecamere diverse e in post-produzione mostrarono la loro terribile opera approfittando di tutte le angolazioni disponibili. Quelle persone erano evidentemente state uccise per le telecamere.
Ai terroristi piace uccidere la gente. Nonostante ognuno di questi video sia ricco di giustificazioni e motivi che sostengono di spiegare gli omicidi, gli assassini sembrano divertirsi ad ammazzare le persone. Guardate un po’ di questi video e noterete che i terroristi – sia gli esecutori materiali sia gli altri inquadrati – sono molto a loro agio con quello che succede. Prendono con gusto quello che fanno. Anche i cori “Allah è grande” che accompagnano le esecuzioni sono felici, a voce alta. Qualche volta vanno oltre l’esecuzione, e mutilano i cadaveri.
Che io sappia, pochissimi di questi assassini esprimono rimorso una volta catturati. I veri credenti pensano di stare facendo qualcosa di accettabile – anzi, persino essenziale – per l’avanzamento della loro causa. Molti sono già tornati a essere liberi: nel 2003 l’ISIS ha organizzato un’evasione di massa dal carcere di Abu Grahib, liberando 500 persone arrestate per terrorismo.
La passione dell’ISIS per gesti così macabri dimostra come i suoi leader governerebbero l’autoproclamato “califfato” che attraversa Iraq e Siria. Ma la loro sete di sangue è anche la loro crisi; dopo tutto, nessun’altra organizzazione o tribù sunnita condivide questo livello di fanatismo. È difficile immaginare che una situazione di equilibrio e stabilità politica possa tollerare questo genere di azioni. I sunniti alla fine si rivolteranno contro l’ISIS, come hanno già fatto in passato. Quando accadrà, però, aspettatevi ancora più bagni di sangue – e quindi ancora più video rivoltanti.