È giusto fotografare chi soffre?
Se lo è chiesto un giornalista americano mandato a fotografare una comunità dopo una sparatoria in una scuola: uno di quelli che si pongono il problema
di Gianni Barlassina – @giannadria
Il 10 giugno scorso c’è stata una sparatoria in una scuola superiore di Troutdale, in Oregon: un ragazzo ha ferito un insegnante e ha ucciso un altro studente, il quattordicenne Emilio Hoffman. A Michael Lloyd, un fotografo che lavora per l’Oregonian, un giornale locale con sede a Portland, è stato chiesto di occuparsi della storia. Ha scattato foto per alcuni giorni a Troutdale: ai familiari di Hoffman, alle persone che sono andate al funerale, ai suoi compagni di scuola poche ore dopo la sparatoria. Il servizio che ha pubblicato qualche giorno fa, tuttavia, lo ha associato a un articolo in cui si è chiesto alcune cose sul ruolo dei media in situazioni di dolore come quella che aveva appena dovuto documentare e sull’ostilità che spesso la gente ha nei confronti dei giornalisti, e sul timore diffuso che molti hanno di vedere violata la loro privacy.
Lloyd racconta che quando è arrivato alla scuola di Troutdale diverse ora dopo la sparatoria ha avvertito subito l’ostilità dei ragazzi nei confronti della stampa. Qualcuno di loro diceva cose come: «se vedo uno con una macchina fotografica in mano, giuro che..» e in generale, il personale della scuola, faceva di tutto per tenere i giornalisti lontani il più possibile da studenti e famiglie che erano congregati fuori dalla scuola. Nei giorni seguenti, durante la maggior parte degli eventi di commemorazione per la morte di Hoffman, alla stampa veniva chiesto di stare molto distante dalle persone del posto e di non parlare con loro a meno che non fosse chiara la volontà di qualcuno di essere intervistato. In alcuni casi erano stati assunti degli specialisti di relazioni con la stampa per trattare con i giornalisti.
Secondo Lloyd questo atteggiamento di diffidenza e scostanza nei confronti della stampa e dei giornalisti è aumentato costantemente negli ultimi anni e che sempre più spesso lui stesso si trova a dover affrontare situazioni di aggressività verso i giornalisti. «Chiunque faccia il mio lavoro e giri con una grossa macchina fotografica – dice Lloyd – è percepito come un possibile assillatore, pronto e determinato a derubare chiunque della sua privacy e a violare qualunque situazione per scattare una fotografia».
Lo scorso anno, sul sito della radio pubblica americana NPR, ci fu un dibattito su questo tema. A Newtown, in Connetticut, c’era stata una sparatoria in una scuola elementare ed erano stati uccisi 20 bambini e 6 adulti. Pochi giorni dopo sul sito, insieme a un articolo che si occupava della vicenda, fu pubblicata la foto di una donna che pregava, con la didascalia che genericamente parlava di «persone riunite per una preghiera».
Pubblicare una foto come questa è una cosa piuttosto normale per una redazione online, non è una di quelle immagini su cui ci si mette a discutere di questioni etiche e di rispetto di lettori e fotografati. Di immagini come questa, insomma, se ne vedono di frequente, su tutti i giornali.
Qualche giorno dopo la pubblicazione della foto, NPR fu contattata dalla donna che vedete pregare davanti alla statua della Madonna. Lei era un’insegnante di yoga e un’artista di Newtown che raccontò che nessuno le aveva chiesto il permesso di scattarle una foto e che quando si era resa conto che qualcuno la stava fotografando mentre pregava si era sentita «come un animale in uno zoo». A NPR, che sulla vicenda ha pubblicato un interessante articolo, spiegò:
«Mi ero inginocchiata lì in un momento di dolore, con le mani unite in segno di preghiera. Stavo pregando perché le persone intorno a me potessero trovare pace. Era un momento molto forte, il mio cuore era aperto e cominciai a piangere. Tutto d’un tratto cominciai a sentire “clickclickclickclickclick” da tutte le parti. E c’erano persone ovunque intorno a me, anche nei cespugli, e tutti mi facevano delle foto. Mi arrabbiai molto. Nessuno mi si avvicinò per dirmi “ciao, sono di questo giornale, ti ho scattato una foto”. Nessuno si presentò. Io mi sentì violata. E sì, riconosco che sia una foto molto bella, ma c’è un senso di privacy in un momento come quello, e non mi hanno chiesto nulla».
La donna fotografata non chiese che la foto venisse rimossa dal sito, ma disse che voleva che ci fosse una discussione sul modo appropriato di trattare situazioni di dolore e forte initimità. Il fotografo che aveva scattato la foto, Emmanuel Dunand, disse che dal suo punto di vista aveva cercato di essere il più rispettoso possibile e che non immaginava di aver invaso il dolore della donna. Era lì per raccontare la storia ma si rendeva conto, essendo anche lui padre di due bambini, dell’immenso dolore che provavano le persone e disse che se avesse potuto avrebbe preferito non occuparsi della vicenda.
Sulla questione della relazione tra i giornalisti e le persone che stanno vivendo un momento di dolore si interrogò anche public editor del quotidiano canadese The Star, che spiegò la tensione che esiste tra chi cerca di fare il suo lavoro di giornalista e chi, in uno spazio pubblico, sta vivendo un momento molto privato:
«Per un giornalista, documentare la morte e la distruzione non è mai facile. Non sappiamo mai come reagiranno le persone coinvolte nel nostro “fare il nostro lavoro”. I migliori giornalisti cercano di essere compassionevoli e rispettosi delle persone che vivono dei momenti di dolore privato in uno spazio pubblico. Ma cercano anche di documentare la notizia e raccontare la storia. Spesso questo significa avvicinarsi alle persone in alcuni dei momenti più difficili delle loro vite. Richiede sempre coraggio. La foto sul sito di NPR è stata scattata in uno spazio pubblico e non c’era obbligo legale di chiedere il permesso della donna. Ma ha sbagliato il fotografo a non chiederle il permesso?»
Interpellati, i fotografi dello Star spiegarono che non è sempre facile riuscire a parlare con le persone che si fotografano, ma che nella maggior parte dei casi quello era il loro atteggiamento. Anche Michael Lloyd, nel suo articolo, ha spiegato che nella sua esperienza si è sempre trovato a lavorare con giornalisti molto rispettosi del dolore altrui e che lui stesso cerca sempre di essere il meno invadente possibile: usa lenti che assicurano distanza tra fotografo e fotografato e adotta accorgimenti come quello di non usare il flash in situazioni come veglie o preghiere notturne. Tuttavia Lloyd riconosce che essere fotografato in un momento di dolore, cosa che gli è successa, è una cosa difficile da accettare: «quello che pensi è: lasciatemi stare. Sono in uno spazio pubblico, datemi spazio».
I giornalisti che devono documentare una storia dolorosa, conclude Michael Lloyd – almeno quelli con un’attenzione etica al loro ruolo, che non sono sempre tutti – si trovano spesso tirati da due parti, il dovere di fare il loro lavoro e la necessità di rispettare le persone che si trovano davanti. In ogni caso, quello che si fa è sempre frutto di una scelta difficile da fare e che chiede di destreggiarsi in complicate questioni etiche:
«Per i giornalisti che seguono una grande storia è una trappola pericolosa quella di lasciare che la fretta di pubblicare una breaking news li spinga a valicare quella sottile, grigia, linea di civiltà e rispetto. Mentre i media e il pubblico hanno tantissime domande aperte, in molti casi dovremo accontentarci di aspettre che il momento sia quello giusto per tutti, specialmente per quelli che provano dolore, prima di cercare le risposte».
Foto: Una veglia a Troutdale. (Natalie Behring/Getty Images)
– Il Post sulle fotografie di dolore per lo tsunami in Giappone