7 anni di carcere per tre giornalisti in Egitto
Lavorano per Al Jazeera, il tribunale del Cairo li ha dichiarati colpevoli di aver collaborato con i Fratelli Musulmani in un processo che secondo molti è stato una farsa
I giudici del tribunale del Cairo, in Egitto, hanno condannato a sette anni di carcere tre giornalisti di Al Jazeera, arrestati lo scorso dicembre con l’accusa di aver favorito il terrorismo e di aver messo in pericolo la sicurezza nazionale del paese con le loro attività. I tre sono Mohamed Fahmy, capo dell’ufficio di corrispondenza del canale in lingua inglese di Al Jazeera, di origini egiziane e canadesi; il produttore televisivo Baher Mohamed; il loro collega australiano Peter Greste. Tutti e tre hanno già trascorso sei mesi nelle prigioni egiziane, avendo rare occasioni di uscire dal carcere per seguire le udienze del processo. Altri tre giornalisti sono stati condannati in contumacia. Al Jazeera ha detto che la sentenza «sfida la logica, il buon senso e la giustizia».
Il loro caso era discusso da tempo soprattuto all’estero, dove diversi paesi – a cominciare dagli Stati Uniti – avevano fatto pressioni più o meno indirette sul governo egiziano per evitare che fosse emessa una condanna. Durante il processo era emerso che le accuse nei confronti dei tre giornalisti, e di altre sei persone coinvolte, fossero alquanto inconsistenti, ma negli ultimi mesi in Egitto ci sono state diverse altre sentenze di colpevolezza basate su pochi elementi, soprattutto nei confronti di persone appartenenti o legate al movimento dei Fratelli Musulmani, dichiarato illegittimo e vicino al terrorismo. L’esercito accusa da mesi Al Jazeera, network di proprietà degli emiri del Qatar, di favorire i Fratelli Musulmani.
A causa di un trauma procuratosi prima dell’arresto e che non è stato curato in prigione, Fahmy ha perso quasi completamente l’uso del braccio destro, e non è chiaro se terapie alla spalla dopo la sua eventuale scarcerazione gli permetteranno di tornare a muoverlo. Un quarto giornalista arrestato, Abdullah Elshamy, è stato rilasciato pochi giorni fa a causa del deterioramento delle sue condizioni di salute, dopo l’inizio di uno sciopero della fame.
Oltre ai tre giornalisti di Al Jazeera, a processo c’erano altre sei persone: cinque studenti che parteciparono ad alcune manifestazioni organizzate dagli islamisti ai tempi delle grandi proteste contro il regime egiziano e il responsabile di una organizzazione caritatevole islamica. Secondo l’accusa, il gruppo si sarebbe dato da fare per tramare contro il governo per conto dei Fratelli Musulmani. La loro vicenda è stata raccontata più volte dai media egiziani controllati dallo stato, a scopo di propaganda, talvolta con versioni creative del loro caso giudiziario. Sia i giornalisti sia gli studenti avevano dichiarato durante il processo di non essersi mai incontrati e di essersi visti per la prima volta durante l’udienza di febbraio, nell’aula del tribunale.
Mohamed Lotfy, responsabile della Commissione per i diritti e le libertà in Egitto, che ha seguito il processo per conto di Amnesty International, aveva spiegato al Guardian che “tecnicamente non vedo come la corte possa condannare anche solo un accusato sulla base delle prove che ho visto”. Secondo Lotfy, una eventuale condanna sarebbe stata la dimostrazione che in Egitto oggi non è possibile diffondere punti di vista diversi da quelli che vuole il governo, e si tratterebbe di un “attacco alla libertà di espressione”.
Durante il processo l’accusa ha mostrato alcuni filmati realizzati dai tre giornalisti per dimostrare le sue tesi, ma i video trattavano spesso argomenti molto distanti dalla politica e dalla cosiddetta Rivoluzione egiziana. Alcuni filmati non erano stati nemmeno realizzati da Al Jazeera, ma da BBC, emittente per la quale lavorava in precedenza l’australiano Peter Greste.
Oltre ai giornalisti di Al Jazeera, in Egitto ci sono almeno altre 12 persone che lavorano per la stampa in attesa di giudizio. Il governo egiziano ha accusato a lungo Al Jazeera di essere marcatamente dalla parte dei Fratelli Musulmani e di essere uno strumento politico dell’emiro del Qatar che, secondo i critici, userebbe il trattamento delle notizie per contrattare vantaggi e favori politici da parte di altri stati del Medio Oriente e degli Stati Uniti.