16 canzoni dei Pearl Jam

Un ripasso per chi va a sentirli stasera a Milano, o domenica a Trieste e per tutti gli altri che hanno voglia di riascoltarli

Pearl Jam performs at the "Made In America" music festival on Sunday Sept. 2, 2012, in Philadelphia. (Photo by Drew Gurian/Invision/AP)
Pearl Jam performs at the "Made In America" music festival on Sunday Sept. 2, 2012, in Philadelphia. (Photo by Drew Gurian/Invision/AP)

Stasera, venerdì 20 giugno, i Pearl Jam suoneranno a Milano,allo Stadio di San Siro per una delle tappe europee del loro tour, e domenica 22 giugno saranno a Trieste, allo stadio Nereo Rocco. Per chi va a sentire il loro concerto, e per chi vuole soltanto riascoltarli, queste sono le canzoni che che Luca Sofri, il peraltro direttore del Post, scelse per il libro Playlist, la musica è cambiata.

Pearl Jam
(1990, Seattle, Washington)
La più grande rock band dura e incazzata degli ultimi vent’anni, animata da uno che ha una voce da ibernare per la posterità. A volte fanno un frastuono inascoltabile, ma alla prima svolta melodica gli si perdona tutto. Sono di Seattle, e i primi tempi furono spacciati come rivali perdenti dei Nirvana, poi andò come andò e stravinsero per ritiro.

Black
(Ten, 1991)
La canzone più amata del primo disco dei Pearl Jam, malgrado la band non abbia voluto farne un singolo sostenendo che ne sarebbe stata rovinata.
“I know someday you’ll have a beautiful life, I know you’ll be a star in somebody else’s sky, but why, why, why can’t it be, oh, can’t it be mine?” 
E insomma, salvo il cantare assai più tormentato e tenebroso, è ancora lo stesso guaio di Baglioni in “E tu come stai?”.

Dissident
(Vs., 1993)
Poi dice che nelle canzoni ormai le storie sono sempre le stesse. Io non mi ricordo di nessun altro caso in cui sia stato messo in musica il dramma di una donna che si risolve a consegnare alle autorità un dissidente a cui aveva dato asilo.

Daughter
(Vs., 1993)
C’è questa ragazza che soffre molto di qualcosa che si tiene dentro e che non riesce a spiegare a sua madre, e sua madre non riesce a capirla. Una violenza familiare? Una malattia? Una precoce gravidanza?

Immortality

(Vitalogy, 1994)
Eddie Vedder ha smentito che parli di Kurt Cobain, come alcuni avevano sostenuto.

Smile
(No code, 1996)
Grande. Pochissimi versi: “non ti viene da ridere, quando il sole non sorge?”. Ma c’è poco da ridere: “I miss you already, I miss you always”. Mi manchi già, mi manchi sempre. Grande.

Present tense
(No code, 1996)
Quasi un pezzo dei Doors, tra il notturno e lo strafatto, borbottato. Bisognerebbe imparare dagli alberi, dice, imparare come si sforzano di avvicinare i rami al sole. Bisognerebbe vivere nel presente, piuttosto che rimuginare sui propri rimpianti. Il giro di chitarra finale, che parte un po’ U2, è stupendo.

All those yesterdays
(Yield, 1998)
Somiglia un po’ a “Smile”, ma suggerisce di lasciar perdere il passato e riposarsi un po’. O scappare. “Tutti i nostri ieri” è il titolo di un libro di Natalia Ginzburg.

Last kiss

(No boundaries: a benefit for the Kosovar refugees, 1999)
Quando la versione dei Pearl Jam fu inserita in una raccolta a favore dei profughi kosovari, aveva quarant’anni. È una vecchia canzone di Wayne Cochran in cui il narratore è andato a sbattere con la macchina e la sua ragazza è morta nell’incidente.

Light years
(Binaural, 2000)
“Eravamo pietre, la tua luce ci ha resi stelle”. Ma lei se n’è andata, lontana anni luce, e non è giusto.

Soon forget
(Binaural, 2000)
La più spiritosa e limpida invenzione della carriera dei Pearl Jam: c’è solo la voce di Vedder e un ukulele, ma ha un ritmo e un suono formidabile. Sentitela con le cuffie (il titolo del disco è un termine tecnico che si riferisce a una tecnica di registrazione sonora). L’idea venne da “Blue, red and grey”, una canzone degli Who, per cui Vedder ringrazia Pete Townshend nelle note.

Thin air

(Binaural, 2000)
Ancora storie di ragazze luminose: “C’è una luce, quando la mia bambina è tra le mie braccia”. Poi occhio al cambio di tono dopo “take it on, on, on, on, on”.

I am mine
(Riot act, 2002)
Tutta una tirata sulla sua indipendenza da regole, schemi e ingabbiamenti. Come parte il refrain è meraviglioso: “And the feeling, it gets past behind”.

Thumbing my way

(Riot act, 2002)
Bellissimo racconto di lucido e sereno disincanto verso il mondo e misurata speranza per il futuro: “no matter how cold the winter, there’s a springtime ahead”. E una distinzione che può non voler dire nulla, oppure qualcosa: “there’s no wrong or right, but I’m sure there’s good and bad”.

Man of the hour
(Big fish, 2003)
Fu incisa per la colonna sonora di Big fish, il film di Tim Burton, e poi inserita in una raccolta dei Pearl Jam, Rearview mirror. “L’uomo del momento” è il padre a cui il protagonista della canzone dice addio (c’è un altro famosissimo “man of the hour” nella storia del rock, in “Family snapshot” di Peter Gabriel). In concerto, Eddie Vedder di solito la dedica a Johnny Ramone, alla memoria.

Come back
(Pearl Jam, 2006)
Un bel ritmo da ballata soul, e un testo conseguente: lei lo ha lasciato e lui le chiede “torna”. Oppure, lui è Johnny Ramone, e Vedder gli chiede “torna”.

Guaranteed
(Into the wild, 2007)
Sean Penn chiese a Eddie Vedder – un bel paio di estremisti di sinistra americani – di scrivere le canzoni per il suo film su un giovane e sventato idealista americano: musiche per grandi spazi e lontani orizzonti. Vedder fece un gran bel lavoro, e una canzone dolce e meravigliosa che vinse il Golden Globe per la miglior canzone da film: nel disco è seguita da una versione mugolata, altrettanto bella.