Il librone su J.D. Salinger
Lo sbarco in Normandia del soldato Salinger, un estratto dalla voluminosa e discussa biografia tradotta e pubblicata ora anche in Italia
Isbn Edizioni ha pubblicato Salinger. La guerra privata di uno scrittore, dello scrittore David Shields e dello sceneggiatore e regista Shane Salerno, tradotto da Lorenzo Bertolucci e Paolo Caredda. Il libro – pubblicato l’anno scorso negli Stati Uniti – raccoglie nove anni di ricerche e interviste degli autori a più di duecento persone che hanno avuto legami diversi con l’autore del Giovane Holden, raccoglie queste testimonianze, altre già pubblicate in precedenti biografie di Salinger, suoi scritti inediti, fotografie, diari e lettere.
Il lavoro racconta la famiglia, l’adolescenza, i primi contatti con il mondo letterario newyorkese, la seconda guerra mondiale e la partecipazione allo sbarco in Normandia di Salinger, la sua adesione alla religione vedānta, con molte informazioni sulla sua vita, rimasta sempre protetta dall’isolamento in cui Salinger si era rinchiuso a partire dagli anni ’60 ritirandosi a vivere nella campagna del New Hampshire, a Cornish, fino alla sua morte nel 2010.
Con il libro è stato realizzato anche il documentario Salinger. Il mistero del Giovane Holden, sempre con la regia di Shane Salerno, uscito nei cinema italiani per un solo giorno il 20 maggio scorso e che dovrebbe essere pubblicato in autunno in dvd.
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Il Dodicesimo reggimento fanteria, di cui Salinger fa parte, sbarca a Utah Beach nel D-Day, il 6 giugno 1944, con poco meno di 3100 soldati; alla fine di giugno ne avrà persi circa 2500. Salinger si ritrova per la prima volta faccia a faccia con l’oblio, sia a livello collettivo, sia a quello più intimo della sua unità.
J.D. SALINGER: Sono sbarcato a Utah Beach nel D-Day con la Quarta divisione.
MARGARET SALINGER (figlia di Salinger): «Sai, io ho fatto lo sbarco del D-Day» mi diceva con tono cupo, quasi da soldato a soldato, come se io potessi capire tutte le implicazioni di quella frase.
EDWARD G. MILLER (ex soldato): Di tutti i giorni in cui un soldato può avere il suo battesimo del fuoco, quello di Jerome David Salinger fu il D-Day.
MARINAIO SCELTO KEN OAKLEY: La sera prima degli sbarchi del D-Day, l’ufficiale superiore ci fece un discorso, e non dimenticherò mai le sue ultime parole. «Non preoccupatevi se quelli di voi della prima ondata verranno uccisi» disse. «Passeremo sopra i vostri cadaveri con tanti altri uomini.» Un pensiero molto rassicurante prima di andare a dormire.
SHANE SALERNO: Salinger era un venticinquenne privilegiato che faceva la bella vita a Park Avenue e pensava che la guerra sarebbe stata un’avventura, affascinante e romantica. Si immaginava come il protagonista di un romanzo di Jack London e sperava che il servizio militare avrebbe fatto scoppiare la bolla in cui era cresciuto. Salinger scrisse: «Ho la testa piena di cravattini neri. Appena li trovo cerco subito di buttarli fuori, ma ne rimarrà sempre qualcuno». Temeva di non avere in sé il dolore necessario per diventare uno scrittore. Voleva che la guerra lo rafforzasse, rendendolo un uomo e uno scrittore più profondo. L’anno successivo lo avrebbe cambiato per sempre.
DAVID SHIELDS: A Whit Burnett (suo professore di scrittura alla Columbia University e editor della rivista Story), Salinger rivelò che durante lo sbarco del D-Day aveva portato con sé sei capitoli del Giovane Holden: aveva bisogno di quelle pagine non solo come amuleto portafortuna, ma anche per avere un motivo per cui sopravvivere.
WERNER KLEEMAN (commilitone di Salinger): All’epoca Jerry era solo un ragazzino gentile. Era piuttosto tranquillo. Ma avevo capito che era un tipo un po’ strambo. Era diverso. Non si allacciava le cinghie dell’elmetto. Faceva quello che gli andava di fare.
ALEX KERSHAW (studioso della Seconda guerra mondiale): Il numero identificativo di Salinger era 32325200, lo stesso numero che molti anni dopo avrebbe assegnato al suo personaggio Babe Gladwaller in «Last Day of the Last Furlough» (L’ultimo giorno dell’ultima licenza, n.d.T.).
SHANE SALERNO: John Keenan era un commilitone di Salinger nei Corpi di controspionaggio (Cic). Salinger, Keenan, Jack Altaras e Paul Fitzgerald rimasero sempre insieme durante la guerra, e si erano ribattezzati i «Quattro moschettieri»; rimasero grandi amici per tutta la vita. Altaras e Fitzgerald non erano mai stati identificati prima.
JOHN KEENAN (compagno di Salinger nei Corpi di controspionaggio): Direi che verso le tre del mattino partirono gli uomini rana [unità di demolizione in combattimento navale]. Non riuscivamo a chiudere occhio, tutti sapevamo che cosa stava succedendo. Si chiacchierava di cose futili, e alcuni facevano gli spavaldi per farsi coraggio. Nessuno, io credo, viveva quella situazione come una grande avventura. Grazie a Dio fecero tutti ritorno. Verso le cinque partì la fanteria. Era la prima ondata.
EBERHARD ALSEN (professore di inglese alla State University di New York): Salinger era stato assegnato al Dodicesimo reggimento fanteria. Credo sia sbarcato con il reggimento verso le 10.30, quasi quattro ore dopo la H-Hour. Ma l’edizione ufficiale della Storia dei Corpi di controspionaggio dell’esercito americano dichiara che «il Quarto distaccamento dei Cic si unì alla Quarta divisione fanteria nell’approdo a Utah Beach alle 6.45». Ciò significa che il distaccamento dei Cic di Salinger sbarcò a quell’ora assieme all’Ottavo reggimento, che servì da avancorpo per lo sbarco della Quarta divisione.
DAVID SHIELDS: Un testimone oculare, Werner Kleeman, che ricopriva il ruolo di interprete per il Dodicesimo fanteria ed era amico di Salinger, afferma che Salinger sbarcò con la seconda ondata dell’assalto del D-Day.
ALEX KERSHAW: Nel D-Day, Salinger era su una lancia da sbarco e si avvicinava a Utah Beach, stipato tra i suoi amici e commilitoni, molti dei quali sarebbero morti di lì a poco.
WERNER KLEEMAN: I proiettili ci sfrecciavano sopra la testa. Continuavano a spararci con le armi di piccolo calibro. Ci sparavano con l’artiglieria.
EDWARD G. MILLER: Quei ragazzi avevano quasi tutti diciannove, venti, ventun anni. Salinger ne aveva venticinque, era vecchio.
PAUL FITZGERALD (compagno di Salinger nei Corpi di controspionaggio; estratto da una poesia inedita): Non c’era fascino, non c’era spavalderia in tutto questo. La spiaggia era proprio di fronte a noi. Galleggiava nella marea, la vidi: la mia prima vittima.
JOHN KEENAN: Le corazzate facevano fuoco contro la costa, mirando alle casematte [strutture di cemento fortificate da cui i soldati tedeschi sparavano con le mitragliatrici].
STEPHEN E. AMBROSE (studioso della Seconda guerra mondiale): Le onde sballottavano le lance da sbarco, scavalcavano i parapetti e schiaffeggiavano le truppe in pieno volto; la situazione era così insostenibile che molti soldati pregavano di arrivare il prima possibile.
SOLDATO SEMPLICE RALPH DELLA-VOLPE: Le imbarcazioni si accalcavano come insetti, quasi facessero a gara a chi arrivava prima. Io avevo fatto una colazione molto molto abbondante, sperando che mi avrebbe aiutato, ma vomitai tutto.
STEPHEN E. AMBROSE: Capitò a molti. Il marinaio Marvin Perrett, un guardacoste diciottenne di New Orleans, era timoniere su una Higgins fabbricata a New Orleans. Stava trasportando a riva trenta membri del Dodicesimo reggimento della Quarta divisione, che si erano voltati verso di lui per evitare gli schizzi delle onde. Il ragazzo vedeva la paura e la preoccupazione sui loro volti. Proprio di fronte a lui c’era un cappellano. Perrett era impegnato a mantenere la sua posizione lungo la linea di avanzamento. Il cappellano rigurgitò la colazione a favore di vento, e Perrett (come tutti gli altri sulla barca) si ritrovò coperto di uova mal digerite, caffè e pezzi di bacon.
SERGENTE MAGGIORE DAVID RODERICK: La spiaggia di Utah Beach era leggermente in salita. Cogliemmo di sorpresa i tedeschi sbarcando con la bassa marea, quando gli ostacoli erano in secca. Certo, in questo modo i nostri soldati si trovarono a dover percorrere più di 100 metri di spiaggia trovandosi completamente esposti al fuoco nemico, in aggiunta ai precedenti 100 metri di mare. Le truppe della Quarta divisione fanteria sbarcarono in un’acqua profonda da 1 a 2 metri e dovettero avanzare per circa 200 metri, fino alla barriera costiera. La barriera era alta da 1 a 2,5 metri, e alle sue spalle si alzavano dune di sabbia alte fino a 3 metri. Le fortificazioni lungo la costa tenevano sotto tiro quest’area con armi di piccolo calibro, mitragliatrici e artiglieria.
Io credo che Salinger, al pari di tutti noi, avesse in testa una sola domanda: «Ce la farò? Riuscirò ad arrivare alla spiaggia?». Io ero particolarmente preoccupato, perché non sapevo nuotare molto bene. Ti davano solo un salvagente, una specie di larga fascia da metterti intorno alla vita, ma dovevi anche portare tutto quel pesantissimo equipaggiamento sulle spalle. Se non facevi attenzione, cadendo in acqua e gonfiando quell’affare rischiavi di ribaltarti a testa in giù e annegare.
SOLDATO SEMPLICE ALBERT SOHL: «Tutti pronti!» gridò il timoniere tentando di farsi sentire sopra il rombo del motore. Manovrò con abilità la nostra lancia attraverso il viavai di imbarcazioni. Di tanto in tanto, un’esplosione dell’artiglieria di terra marciava sul pelo dell’acqua con invisibili stivali delle sette leghe. Il mio cuore martellava sempre più forte, ma sulla riva non riuscivo ancora a scorgere nessuno che assomigliasse al nemico. A circa 50 metri dalla costa, il nostro pilota invertì la rotazione delle eliche; mentre la barca stallava, spalancò di colpo la rampa anteriore. Le armi rumoreggiavano in lontananza. Gli aeroplani ci sfrecciavano sopra la testa. Schegge irregolari di fumo nero si levavano dai rapidi cacciatorpediniere e aleggiavano su tutto quel caos. «Siamo arrivati!» gridò il pilota al di sopra del frastuono. «Muovete il culo, devo tornare a prendere altri passeggeri!»
COLONNELLO GERDEN F. JOHNSON: Gli uomini sentirono i muscoli irrigidirsi quando qualcuno sussurrò che la spiaggia era in vista. Mentre correvano verso la riva, il capitano gridò che servivano altre coperte. Questo significava che sulla spiaggia c’erano feriti, e la loro vista avrebbe terrorizzato chiunque. Ciascun uomo ebbe vivido in mente il suo problema più immediato. Tutti compresero che se volevano sopravvivere a quella giornata, per prima cosa avrebbero dovuto sopravvivere a quella corsa verso la spiaggia. In quel momento nient’altro importava. Era la sola e unica questione di cui preoccuparsi. Per riuscirci, avrebbero dovuto restare vivi per quella che sembrava un’eternità, arrancando nell’acqua, dalla rampa della lancia fino alla spiaggia, frenati dal pesante equipaggiamento portato in spalla, un’eternità in cui si sarebbero sentiti inermi, nudi, esposti al fuoco assassino di un nemico che stava al di là dalla spiaggia.
GENERALE MATTHEW RIDGWAY: Per la prima volta vidi il più solitario e funesto di tutti i paesaggi, un campo di battaglia. E per la prima volta provai quella strana frenesia che attanaglia un uomo quando sa che da qualche parte, in lontananza, occhi ostili lo stanno guardando, e che da un momento all’altro, senza farsi sentire, una pallottola potrebbe colpirlo, sparata da un nemico invisibile.
CAPITANO GEORGE MAYBERRY: Mai in vita mia avevo desiderato con tanta forza di poter correre, ma non riuscivo che ad arrancare lentamente. La riva era distante un centinaio di metri e mi ci vollero due minuti a raggiungere l’acqua bassa. Furono due minuti estremamente lunghi. Neppure sulla spiaggia riuscii a correre: la mia uniforme era fradicia e appesantita, le mie gambe intorpidite e scosse dai crampi.
Le granate iniziarono a esplodere sulla spiaggia, e dall’entroterra arrivavano sporadici colpi di mortaio. Proprio di fronte a me, un soldato fu colpito in pieno e fatto a pezzi. In quello stesso istante, un piccolo oggetto mi colpì sul petto: era il pollice di quel ragazzo.
SERGENTE MAGGIORE DAVID RODERICK: Sul pelo dell’acqua vidi galleggiare equipaggiamenti, salvagenti e pezzi di legno: erano i resti di un’imbarcazione che aveva urtato una mina. A duecento metri di distanza si sentì una forte esplosione: la Batteria B, dell’artiglieria, aveva urtato una mina, e la lancia da sbarco era esplosa. Una deflagrazione terribile. Nella lancia c’erano quattro pezzi d’artiglieria e sessanta uomini. Guardammo terrorizzati i corpi e i pezzi di metallo scagliati in aria: trentanove dei sessanta soldati rimasero uccisi.
SERGENTE MAGGIORE DAVID RODERICK: Avanzammo in fretta. Avevamo tutti lo stesso obiettivo: sbarcare e raggiungere la barriera costiera il prima possibile. Eravamo esposti direttamente al fuoco nemico. Ricordo un ragazzo che partì con la prima ondata: scese dalla lancia e iniziò ad annaspare in acqua. Un tipo grande e grosso lo afferrò per il didietro dei pantaloni, lo sollevò e gli disse: «Ehi, tappetto, cerca di mettere i piedi a terra». Prima che il ragazzo potesse ringraziarlo, il suo soccorritore si beccò una pallottola in testa. I proiettili dell’artiglieria ci piovevano addosso, e i cecchini facevano fuori i miei compagni uno dopo l’altro. Ricordo il primo uomo che venne ucciso sotto il mio comando: non fece in tempo ad arrivare sulla spiaggia che un cecchino tedesco lo centrò in mezzo agli occhi. Più in là si sentiva il rumore delle mitragliatrici: un battaglione stava attaccando una fortificazione nemica.
JOHN McMANUS (professore di storia militare americana): Ricordo la foto di un soldato americano ucciso da un cecchino a Utah, subito prima di raggiungere la barriera. Il suo corpo era perfettamente composto, colpito da una singola pallottola alla testa. È rimasta una delle immagini emblematiche di Utah Beach.
WERNER KLEEMAN: Una volta arrivati sulla spiaggia vedemmo centinaia di bandierine con la scritta ACHTUNG, MINEN!, ma poi si scoprì che le mine erano fasulle. Vedemmo che alcuni soldati erano già stati uccisi. Giacevano in una fossa, di fronte alla barriera costiera.
JOSEPH BALKOSKI (storico della Maryland National Guard): L’intera prima ondata della Quarta divisione, consistente in più di 600 soldati di fanteria disposti su venti lance da sbarco, era approdata molto più a sud rispetto al punto convenuto.
[Il brigadiere generale Theodore Roosevelt Jr] fu uno dei primi a rendersi conto dell’errore. Il suo ordine («È da qui che cominceremo la guerra!») divenne uno degli elementi più emblematici dell’invasione di Utah Beach.
EDWARD G. MILLER: I punti di riferimento che Salinger era stato addestrato a riconoscere per riuscire a orientarsi una volta sbarcato non c’erano. L’unica fortuna fu che in quella zona le difese tedesche erano un po’ più deboli di quelle che lui avrebbe incontrato se la sua unità fosse approdata più a nord, sulla penisola di Cherbourg; le pallottole, però, erano esattamente le stesse. Le esplosioni, l’artiglieria, la sabbia soffocante, le onde, la confusione, la pioggia, il fumo, il mal di mare.
Salinger, come del resto i suoi commilitoni, ebbe un battesimo del fuoco, per il quale non era affatto preparato. Il giorno dello sbarco, per Salinger, sarebbe stato un giorno di puro terrore. La fretta di correre verso la riva, conquistare posizioni, proteggere se stesso, proteggere gli altri soldati. Fuoco, fumo, grida. Nessun addestramento poteva prepararlo a una simile situazione. Fu un’esperienza brutale e improvvisa, scioccante. Rimase marchiata a fuoco nella sua anima, per sempre.
DAVID SHIELDS: L’unico racconto di Salinger che rievochi direttamente la guerra, «The Magic Foxhole» (La trincea magica, n.d.T.), fu scritto poco dopo il D-Day ed è chiaramente basato su quell’esperienza. Non fu mai pubblicato. Con un atteggiamento cinico verso l’idea stessa della guerra, la storia descrive i traumi subiti da due soldati, uno dei quali (Garrity) racconta la sua esperienza in un monologo dal ritmo serrato. Nella scena iniziale, un cappellano che sta cercando i suoi occhiali tra i cadaveri ammassati su una spiaggia della Normandia viene ucciso dal fuoco nemico. Dio non è più soltanto cieco: è morto. Salinger passerà il resto della sua vita a cercare un rimedio per questa cecità, un sostituto per questo Dio ucciso.
J.D. SALINGER, «The Magic Foxhole» (inedito):
Arriviamo venti minuti prima della H-Hour, nel D-Day. Sulla spiaggia non c’era niente se non i ragazzi morti delle Compagnie «A» e «B» e qualche marinaio morto e un cappellano che arrancava qua e là cercando i suoi occhiali nella sabbia. Era l’unica cosa che si muoveva, e le granate da 88 millimetri gli scoppiavano tutt’intorno, e lui stava lì ad arrancare a quattro zampe cercando i suoi occhiali. Lo fecero fuori… ecco com’era la spiaggia quando arrivai io.
EBERHARD ALSEN: Molti passaggi di «The Magic Foxhole» sono autobiografici e descrivono esattamente ciò che Salinger vide. Un resoconto simile è stato fornito anche dal soldato Ray A. Mann, sbarcato a Utah Beach con l’Ottavo reggimento.
SOLDATO SEMPLICE RAY A. MANN: La nostra squadra schizzò fuori dalla lancia e si diresse verso la spiaggia, a piccoli gruppi. [Di colpo,] dopo 15 o 20 metri, iniziarono a piovere le granate. Le prime colpirono un gruppo che stava proprio di fronte a me. Fino a quel momento mi ero sentito come durante le esercitazioni in Florida, o a Slapton Sands. Ma quando vidi i miei commilitoni agonizzanti, quando sentii le loro grida, capii che stavolta si faceva sul serio. Una seconda scarica di granate cadde vicino al mio gruppo, ed evidentemente colpì il nostro sergente maggiore, perché non lo rividi più. Anche il segretario del reggimento fu colpito. […] Finalmente raggiunsi la barriera costiera e le casematte tedesche, e mi fermai per riprendere fiato e cercare di orientarmi. Anche nel breve lasso di tempo che intercorse tra il mio sbarco e l’arrivo alla barriera, era impressionante vedere quanti soldati continuavano ad arrivare, e il numero di feriti sparpagliati sulla spiaggia. Qua e là vedevo un cappellano che pregava per i morti.
ALEX KERSHAW: Solo la guerra può insegnarti gli effetti della paura sul corpo e sulla mente di un uomo. Salinger desiderava una sola cosa: restare vivo.
JOHN McMANUS: Quando li ho intervistati, i veterani del D-Day mi hanno detto che all’inizio pensavano: «Non vedo l’ora di sparare a qualcuno», e poi, un istante dopo: «Non voglio sparare a nessuno».
SERGENTE MAGGIORE DAVID RODERICK: La nostra artiglieria in uscita emetteva un sibilo. Di sicuro Salinger deve avere imparato molto presto la differenza tra posta in arrivo [l’artiglieria tedesca] e posta in uscita [l’artiglieria americana]. La nostra artiglieria in uscita emetteva un sibilo. La posta in arrivo… be’, tendi i muscoli e ti metti al riparo. Di certo Salinger avrà imparato in fretta a distinguere i diversi suoni, soprattutto quello dell’88 millimetri tedesco, il miglior pezzo d’artiglieria della guerra; sparava come un fucile. Non passava molto tempo tra quando lo sentivi partire e quando arrivava. Boom, e te lo trovavi subito addosso. Un’ottima arma per i tedeschi. Loro avevano anche quelli che chiamavamo «Screaming Meemies», dei razzi che prima di ricadere al suolo salivano molto in alto. Sentivi quel fischio terribile che ti gelava il sangue nelle vene. Non avevano alcun bossolo, e quindi in aria non ruotavano come le granate; di conseguenza il suono era diverso da quello che fa l’artiglieria normale – più inquietante. Il secondo giorno, gli Screaming Meemies fecero fuori otto dei miei uomini.
ALEX KERSHAW: Salinger sapeva quali erano le armi che rischiavano di ucciderlo: shrapnel, mitragliatrici, granate d’artiglieria. E il modo migliore per restare vivo era tenere la testa bassa, possibilmente sotto il livello del suolo; se non sottoterra, almeno il più vicino possibile al terreno.
JOHN CLARK (soldato dell’Ottavo reggimento aviazione): Ho visto cose terribili: pezzi di cadaveri sparsi sulla spiaggia, ragazzi fatti a brandelli. Ma la cosa che mi ha turbato di più è stata un carro armato con una specie di pala che liberava la strada sospingendo i cadaveri in una fossa scavata a lato, in modo che non venissero schiacciati dai camion e dagli altri carri che seguivano.
EDWARD G. MILLER: Dopo lo sbarco, il primo obiettivo per Salinger e il resto del suo reggimento fu quello di organizzare e mettere al sicuro la testa di ponte sulla spiaggia. I combattimenti più sanguinosi, però, non avvennero sulla costa; quella fu conquistata in poche ore. Il vero massacro, l’inferno del combattimento di fanteria, iniziò non appena la spiaggia fu liberata.
ALEX KERSHAW: Utah Beach non fu il teatro delle battaglie più sanguinose del D-Day. a Utah, la Quarta divisione della fanteria subì circa duecento perdite, tutti uomini che Salinger conosceva e con i quali si era addestrato. Il problema di Utah Beach non furono le vittime del D-Day, ma quelle dei giorni immediatamente successivi. Dato che a Utah la battaglia non era stata particolarmente sanguinosa, gli uomini della Quarta divisione – tra cui di certo Salinger e i suoi compagni – iniziarono a guardare al futuro con un falso senso di sicurezza.