In difesa del colpo di stato
L'ex vice primo ministro della Thailandia scrive che è stato necessario per fermare le violenze nel paese, e che l'Occidente dovrebbe riconoscerlo
La scorsa settimana, in un articolo pubblicato sul quotidiano thailandese Bangkok Post, l’ex vice primo ministro ed ex ministro degli Esteri della Thailandia, Surakiart Sathirathai, ha parlato del colpo di stato compiuto dai militari thailandesi lo scorso maggio, prendendo una posizione molto inusuale. Sathirathai ha difeso l’esercito, sostenendo che il colpo di stato ha permesso di fermare «le uccisioni e la violenza, e ha evitato la guerra civile». Sathirathai ha scritto anche che l’Occidente non dovrebbe giudicare quel che è accaduto in Thailandia in modo frettoloso, impulsivo o semplicemente basandosi sui miti della democrazia e dei diritti umani, ma dovrebbe sostenere un processo che secondo lui sarà vantaggioso per tutti.
Intorno al colpo di stato
Della legittimità o meno di un colpo di stato o di che cosa sia esattamente si discute da tempo, e soprattutto nelle occasioni in cui elezioni solo apparentemente democratiche danno il potere a regimi liberticidi e autoritari, che vengono deposti da colpi di stato militari. L’Atlantic, riportando uno studio realizzato da alcuni ricercatori delle università di Chicago e della Virginia, ha spiegato che diverse Costituzioni garantiscono ai cittadini il diritto di agire contro le autorità che quella stessa Costituzione istituisce. La Costituzione della Thailandia è una di queste: nella sezione 69 c’è scritto infatti che ogni thailandese «ha il diritto di resistere pacificamente ad ogni atto o persona che mira a ottenere potere all’interno del paese tramite mezzi che non sono in accordo con il modus operandi previsto dalla Costituzione».
La discussione riguarda anche l’uso dell’espressione “colpo di stato” o “rivoluzione”, nella consapevolezza che non si tratta di una disputa accademica o semplicemente semantica ma di qualche cosa che ha che fare con scelte politiche (giudicate positivamente o negativamente a seconda della parola), con quello che potrebbe accadere in futuro e anche con le possibili reazioni da parte degli altri paesi. Per esempio nel luglio dello scorso anno, quando in Egitto su iniziativa dell’esercito la Costituzione veniva sospesa e il presidente democraticamente eletto Mohammed Morsi veniva deposto e arrestato dall’esercito – Lucio Caracciolo su Repubblica spiegava: «Se il generale Abdel Fattah al-Sisi [ex comandante dell’esercito egiziano che lo scorso 8 giugno ha giurato come nuovo presidente dell’Egitto, ndr] fosse battezzato golpista dagli Stati Uniti – suo paese di formazione professionale – si dovrebbe rinunciare al miliardo e mezzo di dollari che dal 1987 Washington trasferisce ogni anno alle Forze armate egiziane a garanzia della sicurezza di Israele e a beneficio della propria industria degli armamenti». La riluttanza dell’amministrazione americana a chiamare quello che era successo in Egitto “colpo di stato” si poteva spiegare in altri termini con la volontà di continuare a mantenere dei rapporti con il governo egiziano, nonostante la deposizione di un presidente democraticamente eletto.
Per descrivere quello che è accaduto a maggio in Thailandia, Surakiart Sathirathai sceglie comunque l’espressione “colpo di stato”, sostenendone sia la necessità che la legittimità. Parlare di “colpo di stato” in Thailandia non è comunque così inusuale: dalla fine della monarchia assoluta, 82 anni fa, nel paese ci sono stati 12 colpi di stato e sette tentativi falliti. La Thailandia è insomma lo stato con più colpi di stato al mondo nella storia contemporanea.
Che cosa è successo in Thailandia, in breve
In Thailandia da mesi si stavano scontrando le “camicie rosse” – che appoggiavano la fazione dell’ex primo ministro Yingluck Shinawatra e di suo fratello Thaksin – e le “camicie gialle”, rappresentanti della borghesia urbana di Bangkok e del sud del paese, e appoggiate dai militari (chi ha bisogno di un ripasso può trovare le cose essenziali qui). La crisi politica era iniziata nel novembre 2013, quando il principale partito di opposizione thailandese aveva cominciato a organizzare enormi manifestazioni a Bangkok per protestare contro una legge sull’amnistia presentata dal governo, che secondo le opposizioni era stata fatta per far cadere le accuse a carico di Thaksin Shinawatra.
Da quel momento era successo un po’ di tutto: c’erano state delle elezioni poi annullate, la rimozione del primo ministro Yingluck Shinawatra per abuso di potere e una legge marziale imposta dall’esercito. Lo scorso 22 maggio il capo dell’esercito thailandese aveva infine annunciato in diretta televisiva che i militari avevano preso il controllo del governo, per «riportare l’ordine e condurre il paese verso le riforme politiche». Attualmente c’è dunque al potere una giunta militare che si fa chiamare “Consiglio per il mantenimento dell’ordine e della pace nazionale”, che non ha ancora chiarito se e quando ci saranno nuove elezioni.
Oltre gli standard occidentali
Surakiart Sathirathai inizia il suo articolo spiegando che «un colpo di stato non è mai facile da giustificare» soprattutto perché gli standard occidentali della politica e della gestione di un governo «con la loro enfasi sulla democrazia e sui diritti umani» ritengono che per qualsiasi paese ci sia «una naturale evoluzione» della storia «a prescindere dalle circostanze»: «Questo atteggiamento ha generato quasi un rifiuto istintivo e una condanna automatica di qualsiasi coinvolgimento militare in politica», portando a dare giudizi frettolosi e impulsivi e a non fare, invece, un’analisi reale ed equilibrata delle ragioni che hanno causato questo stesso coinvolgimento. Surakiart Sathirathai si chiede: «Perché non provare a riconoscere che questa volta il colpo di stato permetterà al paese di costruire una base più forte per un governo democratico, che renderà anche la collaborazione e le alleanze tra noi e gli altri paesi reciprocamente più vantaggiose?».
Surakiart Sathirathai spiega che prima del colpo di stato, il tipo di governo che c’era in Thailandia non era «né quello che i thailandesi si meritavano né quello che si aspettavano». Lo descrive come «una democrazia disfunzionale» o meglio, come una forma di governo che ignorava alcuni dei principi fondamentali di ogni vera democrazia, come il rispetto della legge o l’uguaglianza davanti alla legge: «Non venivano pagati i coltivatori di riso per i loro raccolti come promesso dal governo (…), alcuni hanno contratto forti debiti e altri sono stati spinti al suicidio dalla disperazione». O ancora: «Eravamo nella situazione in cui i manifestanti anti-governativi venivano attaccati quasi ogni notte: decine di persone sono state uccise e centinaia sono state ferite». Era sempre più difficile e complicato mantenere l’ordine e il conflitto non si sarebbe risolto nemmeno con nuove elezioni: «Nonostante i molti sforzi di riconciliazione fatti da un gran numero di persone ben intenzionate – imprenditori, studiosi, tecnocrati e altri – i politici si sono rifiutati di trovare un compromesso o di offrire una via d’uscita». Una soluzione pacifica sembrava insomma ormai irraggiungibile e la guerra civile sempre più reale: «Oggi, la violenza e le uccisioni si sono fermate e la minaccia di una guerra civile è stata scongiurata».
L’ex primo ministro spiega che la sua non intende essere un’apologia dell’azione da parte dei militari, ma del riconoscimento «che ora e che solo in quel modo» la Thailandia è uscita «da una situazione di stallo terribile che aveva disastrosamente paralizzato il paese per più di sei mesi». Pertanto, spiega, «ora è il momento di guardare al futuro: avere una forma di governo migliore – con «una maggiore trasparenza, con un maggior rispetto della legge, con un’adeguata punizione dei colpevoli, con un decentramento della burocrazia statale, con una piena partecipazione di tutti i livelli della società» – è un processo complicato che non si risolve solo stabilendo una data per delle nuove elezioni. Con il colpo di stato si è creata quindi «la preziosa opportunità» di azzerare tutto e di lavorare per poter garantire un futuro migliore «per tutti i thailandesi».
Chiarito tutto questo, Surakiart Sathirathai spiega come la Thailandia sia un paese che ha «fatto la sua parte nella promozione della pace, della sicurezza e del progresso». E che nonostante il recente colpo di stato, i paesi che con la Thailandia hanno relazioni politiche o economiche non dovrebbero interromperle o comprometterle. Surakiart Sathirathai dice ad esempio che la Thailandia è da molto tempo un buon partner per tutte le grandi potenze nel sud-est asiatico. Ha avuto un ruolo fondamentale nel fondare l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN) e partecipa attivamente all’APEC (Cooperazione Economica Asiatico-Pacifica), cioè all’organismo nato nel 1989 per favorire la crescita economica dei paesi nell’area asiatico-pacifica e che collabora con paesi vicini e lontani su molti fronti. Sathirathai assicura che il paese continuerà a cercare di svolgere un ruolo positivo nella comunità internazionale, così come la comunità internazionale dovrebbe cercare di capire quello che è accaduto in Thailandia, favorirlo e sostenerlo.