La versione di Tony Blair sull’Iraq
Secondo un suo articolo molto commentato e discusso, la situazione attuale non si deve all'invasione del 2003; e le cose sono molto più complicate di come ce le raccontiamo
L’ex primo ministro inglese Tony Blair ha pubblicato sul suo sito un lungo articolo per spiegare il suo punto di vista su quello che sta accadendo in Iraq in questi giorni e sulla situazione che sta attraversando il Medio Oriente in questi ultimi anni. L’articolo è stato ripreso e commentato da moltissimi siti, politici e analisti (il Guardian, per esempio, ne parla qui). Blair, infatti, insieme al presidente degli Stati Uniti George W. Bush, decise l’invasione dell’Iraq che portò alla caduta del dittatore Saddam Hussein. Secondo molti commentatori è stata proprio quell’invasione a causare l’attuale situazione di guerra civile nel paese e forse, addirittura, a causare l’instabilità che ha colpito l’intera regione negli ultimi anni.
Nel suo lungo articolo, Blair parte proprio da questa critica: «Proviamo a immaginare cosa sarebbe accaduto se nel 2003 avessimo lasciato Saddam al governo dell’Iraq». La prima critica di cui si occupa è quella relativa al casus belli che portò alla guerra: l’accusa, cioè che Saddam fosse in possesso di armi di distruzione di massa. Nel 2003 Saddam si era liberato del suo arsenale, scrive Blair, ma aveva conservato le conoscenze e le capacità di costruirne uno nuovo. È difficile dire cosa avrebbe fatto se fosse rimasto al potere anche dopo il 2003, ma le possibilità che tornasse a costruirsi un arsenale di armi chimiche, scrive Blair, sono almeno pari alla possibilità che rinunciasse per sempre ad averne uno.
Il secondo appunto è per Blair ancora più importante: senza l’intervento anglo-americano, l’Iraq ora sarebbe un paese in pace? O addirittura, l’intero Medio Oriente sarebbe una zona del mondo più tranquilla? La prima cosa da considerare, scrive Blair, è il prezzo che si sarebbe dovuto pagare per questa stabilità. Il regime di Saddam era brutale e oppressivo e l’ordine nel paese era mantenuto da un imponente apparato di polizia e dal sistematico massacro degli oppositori politici. In ogni caso, secondo Blair, è improbabile che il regime di Saddam sarebbe potuto passare immune alla Primavera araba. Nel giro di pochi mesi del 2011 i governi di Tunisia, Libia, Egitto, Siria, Yemen e Bahrein hanno tutti affrontato movimenti di rivolta che spesso hanno avuto successo nel rovesciare i regimi in carica. È difficile pensare, scrive Blair, che quello di Saddam, uno dei regimi più brutali, sarebbe potuto passare indenne da quegli sconvolgimenti.
Secondo Blair, se Saddam e i suoi figli fossero stati ancora al governo nel 2011 la situazione oggi potrebbe essere ancora peggiore. Basta pensare, scrive, a cosa sta succedendo al vicino dell’Iraq: la Siria. In Siria un regime che rappresenta una minoranza religiosa vicina agli sciiti è in lotta contro la maggioranza della popolazione sunnita, e quella lotta è diventata una delle guerre più letali e sanguinose degli ultimi decenni. Ora proviamo a immaginare che mentre in Siria è in corso questo scontro religioso, in Iraq cominci una seconda rivoluzione. Il regime di Saddam rappresentava la minoranza sunnita e opprimeva una maggioranza sciita. Non è difficile pensare che in questa situazione a scontrarsi non sarebbero state soltanto bande di miliziani ma gli stessi eserciti regolari di Siria e Iraq. Un simile scontro avrebbe avuto probabilmente conseguenze peggiori in termini di distruzione, di perdita di vite umane e di instabilità per il resto della regione.
Ma non può essere che sia stato proprio l’intervento in Iraq a causare la catena di eventi che ha portato alla Primavera Araba? Blair rifiuta nettamente questa possibilità (in realtà proposta negli scorsi anni da altri sostenitori della guerra in Iraq): «Dobbiamo liberarci dell’idea che noi abbiamo causato tutto questo. Possiamo interrogarci sul fatto che le nostre politiche lo abbiano aiutato o meno; possiamo domandarci quale sia la scelta migliore tra il fare qualcosa e il non fare niente», ma il punto, secondo Blair, resta che la situazione nel Medio Oriente è frutto soprattutto di fattori interni allo stesso Medio Oriente:
I problemi del Medio Oriente sono il prodotto di una serie di pessimi sistemi politici uniti a un abuso della religione che risale a molto tempo fa. Cattiva amministrazione, istituzioni deboli, governi oppressivi e un fallimento da parte di alcuni settori dell’Islam nel trovare una relazione equilibrata tra stato e religione si sono combinati per creare paesi che sono semplicemente impreparati ad affrontare il mondo moderno. A questa situazione aggiungiamo una popolazione giovane e senza opportunità di lavoro, un sistema educativo che non soddisfa le necessità dell’economia ed ecco che abbiamo una miscela che porterà sempre – ripeto: sempre – a una rivoluzione.
Il risultato di queste rivoluzioni, inoltre, è tutto meno che scontato, scrive Blair. Ci piacerebbe pensare che al crollo di ogni regime debba per forza fare seguito la nascita di una democrazia funzionante, ma non è così. Secondo Blair ci sono troppi fattori che interagiscono insieme e la rimozione del dittatore rappresenta soltanto il primo passo di un cammino molto lungo e difficile. Una delle sfide che questi paesi si trovano ad affrontare dopo una rivoluzione, per esempio, è quella dell’estremismo islamico. Accade spesso che in questi paesi l’unica vera opposizione organizzata ai regimi dittatoriali sia rappresentata da organizzazioni religiosi più o meno estremiste. Questi gruppi, non appena i regimi cadono, spesso riescono a imporsi come nuova classe dirigente o comunque riescono a destabilizzare il processo democratico. Sono loro, gli estremisti, secondo Blair, il vero nemico che va combattuto.
Non è un gran progresso per un paese passare da una dittatura laica a un qualche regime in mano a dei fondamentalisti islamici, dice Blair (anche se questo non significa che si possano tollerare i dittatori). Ma non è scritto da nessuna parte che tutte le rivoluzioni debbano finire con un passaggio di poteri dai dittatori agli imam. Secondo Blair, l’Iraq ha avuto una possibilità di percorrere una strada diversa: quattro anni fa al Qaida era stata praticamente sconfitta e le tensioni etniche degli anni precedenti si erano considerevolmente raffreddate (Blair parla del periodo successivo al cosiddetto surge del generale Petraeus, quando effettivamente le cose in Iraq sembravano essersi messe relativamente bene). A quel punto sarebbe stato possibile intraprendere una serie di politiche di unità nazionale e utilizzare i proventi del petrolio per modernizzare il paese. Secondo Blair sono state le scelte del governo di Nuri al-Maliki che hanno pregiudicato questo cammino (una tesi condivisa da molti commentatori). Maliki ha governato in maniera settaria, favorendo la maggioranza sciita e alienandosi la minoranza sunnita e questo ha portato parte della popolazione ad appoggiare un movimento fanatico ed estremista come l’ISIS.
La storia dell’Iraq racconta anche come quello dei gruppi di estremisti religiosi sia soltanto uno dei problemi che deve affrontare il Medio Oriente. Il percorso verso la democrazia, la stabilità e la crescita economica è complicato anche dalle divisioni tribali ed etniche e da quelle religiose. L’importante, dice Blair, è analizzare tutti questi fattori e capire qual è la strategia migliore da applicare in Medio Oriente, piuttosto che continuare all’infinito il dibattito sull’intervento in Iraq del 2003: «Indipendentemente da quello che abbiamo fatto o da quello che non abbiamo fatto, oggi ci troviamo ad affrontare una sfida impegnativa».
Abbiamo esempi davanti che ci possono guidare verso la strada migliore, scrive Blair. In Iraq l’Occidente ha chiesto un cambio di regime e successivamente l’ha messo in atto con le armi. L’intervento si è rivelato più difficile del previsto e nonostante il governo sia stato massicciamente aiutato, anche con la presenza di truppe occidentali per molti anni, oggi il paese è ancora molto instabile. In Libia l’Occidente ha appoggiato un cambio di regime con una guerra aerea, ma non ha inviato truppe sul campo per appoggiare il nuovo governo e aiutare la ricostruzione. Il risultato è che la Libia è ancora più instabile dell’Iraq e ha esportato parte della sua instabilità nei paesi confinanti. Infine c’è la Siria, dove l’Occidente ha chiesto un cambio di regime, ma non ha fatto molto per metterlo in atto (a parte le sanzioni). Il risultato è che al momento la Siria è il paese in condizioni peggiori di tutto il Medio Oriente. Insomma, nessuno può dire di sapere con certezza quale sia la ricetta vincente e quale non lo sia.
Il primo passo per cominciare a capire la situazione è accettare il fatto che è tutto estremamente complesso. Questo è un problema che va avanti da generazioni. Non è una “guerra” che puoi vincere o perdere in modo chiaro e univoco. Non ci sono soluzioni facili o indolori. Intervenire è complicato. Intervenire poco è complicato. Non intervenire è complicato.
Secondo Blair, però, l’inazione è sempre la scelta peggiore. Questo non significa che sia un’idea migliore inviare truppe in ogni teatro di crisi e sostituire in fretta e furia tutti regimi non democratici.
L’Iraq fa parte di un quadro più grande. Possiamo discutere in ogni modo della saggezza delle decisioni che prendemmo nel 2003. Ma sono le decisioni di oggi quelle che contano. Le scelte che abbiamo, è vero, sono tutte piuttosto spiacevoli. Ma sono le decisioni che ora faranno la differenza. Per tre anni siamo rimasti a guardare la Siria discendere nell’abisso e mentre scendeva ci portava lentamente con sé. Dobbiamo mettere da parte le differenze del passato e agire ora per salvare il futuro.