Giocare a calcio con qualcosa in meno
Che sia un braccio, o una gamba, o un pezzo di una delle due: da dove comincia la storia che porterà un ragazzino disabile dentro un esoscheletro a tirare il calcio d'inizio dei Mondiali
di Simone Conte (@SimonteCone) e Mattia Della Rocca (@damiel)
La sera del 12 giugno 2014, con l’apertura dei Mondiali di calcio in Brasile, non si scriverà soltanto una pagina importante della storia di questo gioco. Il fischio iniziale e l’erba dell’Arena Corinthians, che dopo la cerimonia di inaugurazione vedrà i padroni di casa sfidare la Croazia, rimarranno impressi anche nella storia delle scienze della vita. Come è stato reso noto, tra qualche incertezza e qualche critica tecnica da parte degli addetti ai lavori, sarà un ragazzo affetto da disabilità agli arti inferiori a tirare il calcio d’inizio di questa edizione della più grande competizione organizzata dalla FIFA. Un calcio a un pallone, dopo una vita passata in un’immobilità coatta, che quel ragazzino tirerà grazie a un esoscheletro robotico controllato dai suoi stessi impulsi nervosi: uno dei più recenti e all’avanguardia tra i ritrovati delle neuroscienze contemporanee, che potrebbe offrirgli anche la possibilità di sentire il terreno di gioco sotto di sé.
La protesi neurale porterà il nome di Miguel Nicolelis, il medico e bioingegnere che ha pensato e coordinato lo sviluppo di quest’opera. Eppure il suo non sarà l’unico nome da raccontare, in questa intersezione tra storia della cultura sportiva e storia della medicina. Tra scienze del cervello e gioco del calcio ci sono più punti di contatto di quanto si possa immaginare. Li si trova racchiusi nelle storie dei suoi protagonisti e nelle strade che hanno percorso, spesso tracciandole per primi, per aggirare gli ostacoli che si sono trovati davanti. Se quello che accadrà il 12 giugno sarà percepito come il futuro – in un immaginario collettivo di interazione uomo-macchina forgiato da visioni cinematografiche che vanno da Blade Runner a Elysium, passando per Robocop, The Matrix, Iron Man, Pacific Rim e molti altri – per comprendere meglio cosa succederà può essere utile fare un passo indietro nella storia.
1917
In un giorno del maggio 1917 un pezzo della famiglia Castro, gente di Galizia trapiantata a Montevideo, sta lavorando insieme. Héctor ha 13 anni, ma suo padre (come quasi tutti i padri del mondo, in quegli anni) valuta che non sia troppo giovane per un lavoro potenzialmente pericoloso: prima impara, meglio è. La sega elettrica che recide l’avambraccio del ragazzo dà torto alle valutazioni di papà, ma contemporaneamente fa sì che dopo quasi un secolo si parli ancora di questo ragazzo. Perché Hector è un gran giocatore di calcio, ma quanti grandi giocatori di calcio uruguaiani di inizio secolo ricordate? Appunto. La storia di Castro ci arriva e ci interessa perché ha qualcosa in più rispetto a quella dei suoi colleghi, o meglio qualcosa in meno: un braccio. Perché Castro, nonostante la menomazione, semplicemente continua a giocare a calcio, e dopo soli quattro anni dal suo incidente esordisce nella massima serie uruguagia col Lito de Montevideo, e poi a suon di gol si guadagna dopo altri tre anni il tesseramento con l’ancora più prestigioso Nacional. Sembra già un sogno per un ragazzo nella sua condizione. Ma il meglio deve ancora venire, e arriva presto: la chiamata della Nazionale di calcio dell’Uruguay. Nel 1926, alla sua prima partecipazione in un campionato continentale, è tra i protagonisti del Campeonato Sudamericano de Football: segna in quasi tutte le partite, e quattro dei suoi sei gol complessivi arrivano durante la finale vinta per 6-1 contro il Paraguay. Ma è con il Mondiale del 1930 – il primo di sempre, giocato proprio in Uruguay – che a Castro tocca il destino di chi fa innamorare un popolo e diventare istantaneamente una leggenda. Con prestazioni di altissimo livello e con un gol nella prima partita e uno nell’ultima, quella che vale la Coppa, nasce el divino Manco.
(Héctor Castro, al centro, in una foto di squadra scattata durante i Mondiali del 1930)
Ma l’incidente che, in prospettiva, dona a Castro un posto nella storia, dovette portargli in regalo anche intensi periodi di dolore a causa dell’”arto fantasma”, un curioso e beffardo disturbo che spesso colpisce chi è vittima di menomazione. A distanza anche di molti anni dalla perdita delle appendici, infatti, l’amputato “sente” ancora la sua mano, il suo braccio, la sua gamba: la percepisce ancora come se fosse al suo posto, reagendo in maniera allucinatoria a stimoli che colpiscono là dove l’arto dovrebbe essere ma non è. Spesso chi è colpito da questa sindrome è costretto a interrompere il proprio sonno e le attività quotidiane per improvvise e ingiustificate fitte di dolore, accusate in punti del proprio corpo di cui si può avere solo memoria, perché ormai manca la sensazione diretta. Eppure Castro, come ogni altra persona costretta a vivere con una parte del corpo in meno, conosceva bene quell’ironia della sorte per cui è proprio questa crudele condizione ad aiutare chi ne soffre a ricostruire la propria vita.
L’arto fantasma, ogni neurologo sulla terra lo sa bene, è il primo alleato del paziente per conquistare un corpo nuovo, attraverso la ricalibrazione dello spazio personale e l’utilizzo di protesi. Il cervello, in questo senso, è più ostinato di un attaccante all’ultimo minuto di un match senza speranza in cui si è rimasti in 9 in campo. Elabora nuovi schemi, tenta nuove connessioni, simula la presenza dei compagni mancanti sfruttando gli elementi che ha a disposizione. Sa che nessuno gli ridarà la totalità della squadra com’era all’inizio della partita ma alla fine, magari riesce a segnare lo stesso. Castro non gioca bene nonostante l’arto fantasma: Castro gioca bene anche grazie all’arto fantasma.
2012
In una notte del marzo 2012, decenni dopo e a migliaia di chilometri di distanza da Castro, Martin Hofbauer ha paura, dubbi e una sola certezza: lui che milita nell’UFC Miesenbach, nel campionato dilettanti della Stiria, e ha 19 anni, i gol non li segnerà più. Il giorno dopo avrà una gamba sola. Il dolore al piede che si porta dietro da anni non è di quelli che passano con l’ibuprofene o altri prodigi farmaceutici, e neanche a lungo andare con la fisioterapia. La diagnosi ha il peso dell’inevitabile, dell’irrisolvibile: tumore osseo, tredici centimetri. La medicina fa la parte di lavoro che è in grado di fare attraverso diversi cicli di chemioterapia, e nella trincea che è il piede di Martin conquista, un millimetro alla volta, otto centimetri. Ma non bastano. L’osteosarcoma ha poca incidenza nella popolazione generale, ma dove terminano le statistiche e iniziano i racconti di medici e pazienti si colloca tra le neoplasie più aggressive e maligne possibili. E infatti, nonostante la somministrazione prolungata di trattamenti, il tumore di Martin è ancora lì, più piccolo ma non abbastanza, e la sua presenza comporta una prognosi che è una sentenza: amputazione.
Da quando esistono l’uomo, il tumore e l’amputazione chirurgica, questi tre elementi combinati hanno avuto migliaia di esiti e conseguenze diverse tra loro, tante quante sono quelle tra le possibilità mediche dell’epoca, le capacità economiche di chi deve sottoporsi all’intervento e la reazione psicofisica a un evento così traumatico. Ma nessuna di queste combinazioni ha mai dato come risultato il ritornare a giocare a calcio in un campionato di normodotati, fino al 2013. «È una parte di me», dice Martin ai giornalisti che gli domandano cosa voglia dire giocare con una protesi. «È una parte di me» è anche ciò che il suo sistema nervoso impara, col tempo, ogni volta che i muscoli, l’osso, la pelle di ciò che resta della sua gamba interagiscono con la lega metallica dell’arto artificiale. Per lo stesso meccanismo neurale che anche Castro aveva messo in moto, il corpo di Hofbauer identifica sempre di più quel sostituto meccanico come parte di sé. Lo controlla, lo percepisce, lo integra. Miracoli di quel fenomeno noto come plasticità nervosa, che lungo il corso della vita di ciascuno di noi opera per adattarci al meglio alle sfide dell’ambiente circostante. E la sfida che si trova davanti Martin Hofbauer e i medici che ne seguono la riabilitazione, oltre che personale e biomedica, è anche sportiva. Si può giocare in un campionato regolamentare con una protesi? La decisione non è facile, anzi. Ma Hofbauer, dopo l’avvallo della FIFA, diventa per il calcio quello che Pistorius è stato per l’atletica: il primo nel suo genere. La ricerca serve anche a questo: a trasformare l’impensabile in un precedente.
1953
In un pomeriggio del giugno 1953, Manoel Francisco dos Santos è emozionato ma non ha paura. Da qualche anno chi gli è più vicino e lo vede giocare a calcio lo spinge a sostenere provini con alcune squadre brasiliane, ma senza esiti apprezzabili. In alcuni casi si presenta senza le scarpe adatte, in altri non si presenta, in un caso un osservatore del Vasco da Gama lo definisce uno storpio. Ora ha un’occasione concreta. Ieri ha sostenuto un provino con le giovanili del Botafogo e ha fatto molto bene, gli è stato chiesto di tornare oggi e viene aggregato alla prima squadra, che si esercita in un classico allenamento di titolari contro riserve. Il titolare che si trova di fronte sulla sua fascia destra è Nilton Santos, professionista già affermato e nel giro della nazionale, e futuro capitano della prima Nazionale brasiliana campione del mondo. Esistono varie versioni del racconto di questo incontro, nel quale sicuramente l’ala destra fa impazzire il difensore che non capisce come arginarlo, lo dribbla molte volte, in un caso lo salta e lo aspetta per dribblarlo di nuovo, in alcune lo beffa con un tunnel e il campione lo rimprovera e lo minaccia fisicamente. Tutte le versioni del racconto terminano con la firma del primo contratto da professionista di Garrincha, nonostante il fatto che quella del medico sociale più che una relazione sul giocatore sembri la cartella clinica di un ricoverato: ginocchio destro ricurvo verso l’interno, ginocchio sinistro verso l’esterno, sbilanciamento del bacino, gamba sinistra più corta rispetto della destra di circa sei centimetri, leggero strabismo.
Se ai due estremi della linea temporale che traccia questo percorso ci sono Castro e Hofbauer, nomi poco conosciuti anche a chi segue e ama il calcio, può essere appropriato far passare questa retta per un punto intermedio in cui il nome ha la prerogativa opposta: Garrincha lo ha sentito nominare anche chi il pallone non lo sopporta.
Calciatore straordinario e tra i più amati di sempre, l’Alegria do Povo per tutti i suoi sostenitori, presente in tutte le classifiche dei migliori giocatori della storia, Garrincha è stato modello, riferimento e ispirazione per centinaia di altri calciatori che abbiano giocato nel ruolo di ala. Ma Garrincha è stato molto più di un’ala: il suo ruolo è stato generare meraviglia nella metà campo degli avversari. In molti si sono chiesti come sia stato possibile essere tutto questo nonostante quel corpo.
È la stessa identica domanda che molti si pongono, silenziosamente, nel momento in cui vedono una persona senza vista muoversi agilmente tra gli spazi che conosce, o la vittima di un trauma cerebrale utilizzare le potenzialità che gli rimangono per portare a termine compiti spesso così complessi ed elaborati da risultare difficili anche a quella larga fetta della popolazione che l’epidemologia classifica, con un termine da sempre spinoso, come “normodotati”. Di nuovo è la plasticità, cognitiva oltre che neurale, a dover essere chiamata in causa. Per quanto si possa essere vittime di disturbi tragici, siano essi congeniti o acquisiti, in buona parte dei casi c’è sempre un margine di retroazione del sistema mente-corpo, un’area di possibilità dell’organismo che adatti la sua struttura e le sue funzioni per garantire lo svolgimento dell’attività richiesta. Garrincha e il suo splendido gioco sono stati la prova vivente del fatto che la norma è sempre una costruzione culturale, una regola tra esseri umani che proprio le potenzialità psicofisiologiche possono ribaltare. Se Garrincha non era “normale” per la sua cartella clinica, non lo era neanche – ma in senso opposto – per gli standard del calcio del suo tempo. E se proprio di normalità si vuole parlare, vale la pena di ricordare due grandi italiani delle scienze della mente, Franca e Franco Basaglia – che per inciso, consigliavano il gioco e la visione del calcio come una fantastica terapia individuale e di massa – i quali sostennero sempre che «da vicino, nessuno è normale».
Oggi, sul sito del laboratorio che dirige, Miguel Nicolelis non indossa la giacca e la cravatta bensì la maglia del Brasile. Nato nel 1961, ha iniziato la sua carriera di medico e neuroscienziato all’università di Sao Paulo, l’ha proseguita nelle corsie ospedaliere di Philadelphia ed è arrivato al Medical Center della Duke University, più a sud sulla costa orientale degli Stati Uniti, in un laboratorio che porta il suo nome. I suoi interessi accademici si sviluppano, nel tempo e negli spazi dei suoi trasferimenti lavorativi, scivolando gradualmente dalle ricerche sulle patologie del sistema nervoso all’ingegneria biomedica. Miguel Nicolelis dedica la sua maturità scientifica agli sviluppi nel campo della neuroprostetica e delle brain machine interface, tecnologie che mettono in connessione diretta il sistema nervoso con le più avanzate protesi meccaniche. Non è solo questione di convenienza o di interesse per un filone che dagli anni Novanta è stato sempre più in voga nelle scienze della vita. Nicolelis ha un progetto personale, che diventa un Progetto di Ricerca (con le iniziali maiuscole, come è abitudine scriverlo in America quando i finanziamenti sono tanto ingenti quanto illustri) dal nome molto chiaro: “Walk Again”, camminare di nuovo. Ma “camminare” è un verbo limitante, per indicare l’azione di quei due arti che la gente comune dà quasi per scontato, quando pensa al proprio corpo. Gli arti sostengono, fanno correre e permettono di praticare uno sport, tanto per fare un esempio. Chi le gambe non le ha più, non può camminare né correre. E nelle vie più povere di Sao Paulo, chi ha perso l’uso delle gambe non solo non può più sognare una vita migliore: non può più giocare a pallone.
La dinamica nervosa sfruttata da Nicolelis per progettare e costruire il suo esoscheletro è quella neuroplasticità che quotidianamente consente agli organismi viventi di superare gli ostacoli imposti dall’ambiente, e che in casi eccezionali può permettere di superare i limiti fisici della propria disabilità. Sfruttando i recenti progressi nello studio sulle connessioni nervose, le reti neuronali del ragazzo che il 12 giugno indosserà l’avanzata neuroprotesi si interfacceranno con quelle al silicio delle strutture artificiali che la compongono, permettendo agli impulsi nervosi del suo ospite di controllarne il movimento e potenzialmente, attraverso un sistema di “corto circuito” sensoriale delle aree interessate, restituendo la sensazione di cosa significhi essere in piedi su un prato. Ma la sola conoscenza della più fine circuiteria neurale non sarebbe bastata ad arrivare al risultato che il neuroscienziato brasiliano si era prefisso: far tornare qualcuno a muoversi, sentendo il mondo sotto i piedi dopo anni di forzata insensibilità. Ci voleva una visione, un immaginario condiviso. È difficile che Nicolelis, come bioingegnere, non conosca la storia di Hofbauer e di Pistorius. È ancora più difficile che Nicolelis, come sudamericano e come tifoso, non conosca le storie di Castro e Garrincha. Chi pensa che l’impresa scientifica sia aliena alla storia personale degli uomini che vi prendono parte, chi crede che la ricerca non abbia niente a che vedere con gli amori giovanili, i sogni o le passioni musicali del ricercatore che la porta avanti, spesso sbaglia: nel caso di Miguel Nicolelis, medico con la maglietta del Brasile, sarebbe probabilmente un errore pensare che queste storie non abbiano riguardato e non si siano riflesse, in molti modi, nel suo lavoro in laboratorio.
Nella giornata storica del 12 giugno 2014, forse arriveranno critiche più o meno sensate a questo calcio d’inizio, che si aggiungeranno alle caute preoccupazioni circolate nella comunità scientifica per l’effettiva realizzabilità di un progetto molto ambizioso. Ma non c’è tecnica senza etica, e non c’è etica senza una buona filosofia alle spalle. Vujadin Boškov, che è morto poche settimane fa e del quale abbiamo ogni diritto di reclamare la canonizzazione tra i grandi filosofi del calcio, ci ha insegnato lapidariamente che «rigore è quando arbitro fischia». Che in fondo, almeno dal punto di vista della logica, equivale a dire che «gol è quando pallone entra in porta». A prescindere dalla materia che compone le gambe di chi, al termine dell’azione, quei gol li segna.
foto: STAFF/AFP/Getty Images