Perché in “Gomorra” non ci sono i buoni
Roberto Saviano risponde alla critica più diffusa all'apprezzatissima serie tv tratta dal suo libro, di cui Sky trasmette stasera l'ultima puntata
Questa sera su Sky Atlantic andrà in onda l’ultima puntata di Gomorra, la serie tv prodotta da Sky e tratta dal famoso libro di Roberto Saviano, che ha collaborato alla stesura della sceneggiatura. Gomorra è stata vista moltissimo – “la serie tv italiana più vista di sempre”, scrive Saviano – e ha ricevuto moltissimi commenti positivi e apprezzamenti; è stata venduta in più di cinquanta paesi tra cui il Regno Unito, dove sarà trasmessa da Sky, l’America Latina, dove sarà trasmessa da HBO, e gli Stati Uniti d’America, dove sarà distribuita da The Weinstein Company.
La critica più diffusa a Gomorra, invece, è stata esposta qualche giorno fa dal giornalista Marco Demarco sul Corriere della Sera: è una serie in cui mancano completamente i buoni. Non ci sono i poliziotti, non c’è il cattivo che si redime, non c’è nemmeno il cattivo un po’ meno cattivo: “mai una contaminazione con l’altra Napoli, quella che si rivolge all’avvocato prima che al killer; o che fa la coda per vedere una serigrafia di Andy Warhol. Il Male non combatte mai col Bene, secondo il più banale degli schemi, ma con un altro male, se è possibile ancora più malefico”. A questa critica ha risposto qualche giorno fa Giovanni Bianconi, giornalista che ha collaborato alla sceneggiatura di Gomorra, sul Corriere della Sera; oggi risponde su Repubblica lo stesso Saviano. Entrambi dicono che è vero, in Gomorra non ci sono i buoni; ma spiegano perché.
Ricordate in C’eravamo tanto amati di Ettore Scola la scena della proiezione di Ladri di bicicletta ? Siamo ancora tutti là, dentro quel piccolo cinema di paese, dove il professor Caprigno, disgustato dopo aver visto il film di De Sica, si alza e dichiara: «Opere siffatte offendono la grazia, la poesia, il bello». «Questi stracci e questi cessi ci diffamano di fronte al mondo. Di questi filmacci bene ha detto un giovane cattolico di grande avvenire, vicino a De Gasperi (Andreotti): i panni sporchi si lavano in famiglia». Talvolta ho l’impressione che qualcuno non sia mai uscito da quel cineforum di Nocera Inferiore.
Di professor Caprigno il nostro paese è pieno. Ne sono usciti fuori molti quando Gomorra — il libro — iniziò ad avere successo. E ancora oggi molti criticano Gomorra, la serie tv. Napoletani che si sentono umiliati, italiani che lo vedono come un modo per diffamare il paese. Eppure — con la puntata che si conclude oggi — questa è la serie italiana tv più vista di sempre, ed è già stata venduta in 50 paesi. Ma anche questo delude i professor Caprigno che lo vedono come un’onta fatta all’Italia.
Non immaginavo, quando iniziai a pensare di poter costruire una serie televisiva dalle storie scritte in Gomorra, che davvero saremmo arrivati a costruire un progetto come quello che è andato in onda su Sky. Che saremmo riusciti a condensare in uno spazio limitato il maggior numero di informazioni, dettagli.
Dettagli, di questo è fatto il racconto di Gomorra. Di dettagli reali, di dettagli presi dalle inchieste, dai verbali delle intercettazioni, dalla cronaca quotidiana. Dalla cronaca attuale e da quella che ormai appartiene alla storia. A una storia che per me, per noi, non è affatto lontana, anche se sono in molti a volerla dimenticare perché è più facile in questo modo guardare in faccia i propri fallimenti.
Ma la sfida era difficile e per questo non era scontato che alla fine ci saremmo riusciti. La sfida era raccontare il male dal suo interno, mantenendo credibilità, alleggerendo la narrazione senza suscitare mai empatia. Avevamo l’ambizione di tracciare una via italiana alternativa per le serie tv per non ricalcare le produzioni americane. Non volevamo raccontare la camorra al mondo, ma al contrario raccontare il mondo attraverso la camorra.
Il nostro punto di partenza era questo: il peggior modo di raccontare il bene è farlo in modo didascalico. Tutti cattivi? Sì, in quel mondo non ci sono personaggi positivi, il bene ne è alieno. Nessuno con cui lo spettatore può solidarizzare, nel quale si può identificare. Nessun balsamo consolatorio. Nessun respiro di sollievo. Lo spettatore, in maniera simbolica, non doveva avere tregua, come non ha tregua chi vive nei territori in guerra. Quindi la visuale doveva essere unica. Nessuna salvezza per nessuno. Polizia, società civile, sono state messe in secondo piano perché così è nella testa dei personaggi che raccontiamo. Quindi nessuna via di fuga narrativa, nessuna quota di bontà pari a quella della cattiveria. Non una serie in cui ci sono “ il cattivo irredimibile, il cattivo che si redime, un buono con delle ombre e il buono redentore”. Con la storia di sangue e la storia d’amore. Questa dialettica così classica e così scontata non serve più a un paese che è andato culturalmente oltre.