In Bielorussia torna la servitù della gleba?
Sembra di sì: il "presidente" Lukashenko ha detto che approverà un decreto per vietare ai dipendenti delle fattorie collettive di lasciare il loro lavoro
Secondo un articolo pubblicato sulla stampa russa e ripreso dal Washington Post, il presidente della Bielorussia, Alexander Lukashenko, considerato l’ultimo dittatore d’Europa, sarebbe pronto a firmare un decreto che vieta ai lavoratori delle fattorie collettive di proprietà pubblica di lasciare il loro lavoro. Non è la prima volta che nel paese vengono approvate leggi per cercare di vincolare le persone a certe occupazioni e Lukashenko non sembra nemmeno interessato a nascondere la natura della nuova legge. Secondo quanto riportato dallo stesso articolo, Lukashenko ha detto: «Parliamoci francamente: si tratta di servitù della gleba».
La servitù è un’antica istituzione giuridica medievale piuttosto diversa dalla schiavitù. Il servo della gleba non era considerato una “cosa” di proprietà del suo signore, ma era piuttosto un individuo semi-libero, vincolato al lavoro su uno specifico pezzo di terra – cioè più o meno quello che vorrebbe fare Lukashenko, obbligando i lavoratori impiegati nelle grandi fattorie collettive di proprietà pubblica a continuare a lavorarci anche se le città (o l’emigrazione) offrono prospettive migliori.
Per capire di cosa si parla conviene fare qualche passo indietro e spiegare che cos’è la Bielorussia a chi non la conosce. La Bielorussia, spesso definita “l’ultima dittatura d’Europa”, è un paese dove alle ultime “elezioni” il presidente Lukashenko ha ottenuto l’80 per cento dei voti. È dal 1991 che Lukashenko continua ad essere eletto con maggioranze di voti incredibili, mentre al parlamento il suo partito si aggiudica regolarmente 110 seggi su 110.
La Bielorussia non è soltanto un regime autoritario: è anche un paese dove sono ancora in vigore una serie di istituzioni che risalgono al suo passato comunista: ha circa 9 milioni e mezzo di abitanti e un’economia in larghissima parte controllata dallo stato che è stata più volte definita di “stampo sovietico”. Circa il 51 per cento della popolazione attiva è impiegata in imprese pubbliche. Negli ultimi anni l’economia si è lentamente liberalizzata e oggi ci sono enormi differenze tra gli impieghi in alcune grandi aziende statali e i lavori che le compagnie private offrono nelle città.
Già alcuni anni fa Lukashenko aveva approvato una legge per impedire a circa 13 mila lavoratori di nove società pubbliche impegnate nella lavorazione del legno di abbandonare il loro lavoro: per chi si arrischiava a violare la norma, la legge prevedeva l’obbligo di pagare una multa altissima che gli sarebbe stata detratta dal nuovo stipendio. Molti lavoratori hanno così deciso di emigrare nei paesi vicini, facendo perdere le proprie tracce. Da quelle poche informazioni che escono dal paese sembra però che questa legge non abbia avuto un grande successo.
Non ci sono molto indizi che fanno pensare che questa nuova legge, se definitivamente approvata, sia destinata ad avere un successo migliore. Yauheni Preiherman, direttore del centro studi “Discussion and Analytical Society Liberal Club” di Minsk, ha detto al Washington Post che «Lukashenko continua a utilizzare i metodi duri che per lui hanno funzionato bene negli anni Novanta», ma queste politiche oggi si stanno dimostrando tragicamente inefficaci. Fino alla metà degli anni 2000 la Bielorussia ha sperimentato una rapida crescita economica, ma la crisi ha colpito duramente il paese che nel 2008 è cresciuto soltanto dello 0,8 per cento, una cifra molto bassa se messa a confronto con quello dei suoi vicini, come ad esempio la Polonia (che è considerata “l’economia più dinamica dell’Europa orientale“).
Sempre secondo Preiherman, queste scelte così controverse da parte del governo bielorusso sono in realtà un segno di debolezza, come fosse necessario alzare i toni proprio perché i risultati positivi cominciano a mancare. Lukashenko è piuttosto abituato a fare dichiarazioni molto provocatorie e spesso sembra che le faccia proprio allo scopo di provocare i suoi vicini più liberali. Nel marzo del 2012 divenne piuttosto famoso il suo scambio con l’allora ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle, che da anni è dichiaratamente gay. L’incidente si verificò dopo la decisione della Germania di ritirare il suo ambasciatore in Bielorussia, una delle numerose sanzioni che hanno colpito il paese nel corso del tempo. Lukashenko rispose con un commento che sembrava indirizzato proprio a Westerwelle: «È meglio essere un dittatore che essere un gay».