Il diritto a ribellarsi
Esiste ed è previsto dalle Costituzioni di 37 paesi in tutto il mondo, tra cui Francia e Germania (e per qualcuno si tratta perfino di un "dovere")
Sembra abbastanza paradossale che una Costituzione garantisca ai cittadini di un paese il diritto a ribellarsi contro le autorità che quella stessa Costituzione istituisce. Eppure in tutto il mondo trentasette paesi diversi, circa il 20 per cento del totale, garantiscono ai propri cittadini il diritto di resistere e a volte di ribellarsi apertamente contro i loro governi. Non solo: la percentuale dei paesi che prevedono il diritto di ribellione è più che raddoppiata dal 1980 ad oggi, secondo uno studio realizzato da alcuni ricercatori delle università di Chicago e della Virginia di cui ha parlato The Altantic.
Un esempio attuale di esercizio del diritto di ribellione è la Thailandia, dove da diversi mesi si stanno scontrando le “camicie rosse” – che appoggiano la fazione dell’ex primo ministro Yingluck Shinawatra e di suo fratello Thaksin – e le “camicie gialle”, rappresentanti della borghesia urbana di Bangkok e del sud del paese (chi ha bisogno di un ripasso può trovare le cose essenziali qui). Durante gli scontri che hanno portato al colpo di stato militare dello scorso maggio, entrambe le fazioni hanno giustificato le proteste con la sezione 69 della Costituzione thailandese – recentemente sospesa dai militari – in cui è scritto che ogni thailandese «ha il diritto di resistere pacificamente ad ogni atto o persona che mira a ottenere potere all’interno del paese tramite mezzi che non sono in accordo con il modus operandi previsto dalla Costituzione».
Secondo lo studio citato da Atlantic, la maggior parte dei paesi che riconoscono ai proprio cittadini il diritto a ribellarsi si trovano nell’Europa Occidentale, nel Centro e nel Sud America. Anche diversi stati africani concedono questo diritto, che invece è quasi completamente assente in Asia (con l’eccezione della Thailandia, appunto). In Europa il diritto a resistere è sancito dalle Costituzioni di Francia, dove si parla di diritto di “resistere all’oppressione”, e Germania, dove è scritto che i cittadini hanno il diritto di “resistere” a chiunque cerchi di abolire la Costituzione, ma solo quando nessun altro mezzo per opporsi è più possibile.
La parola “resistenza” è abbastanza generica e non ha necessariamente un contenuto di violenza. In diverse Costituzioni, come quella thailandese, si arriva a specificare che la ribellione deve essere pacifica. In altri paesi il diritto di ribellione prevede anche l’esercizio della violenza. Benin, Ghana e Capo Verde, tre paesi africani, hanno Costituzioni che lasciano chiaramente intendere che è legittimo ricorrere all’uso della forza per opporsi alle violazioni della Costituzione stessa e definiscono addirittura quello della rivolta un “dovere”. L’Honduras, paese del Centro America, prevede esplicitamente il “diritto all’insurrezione”.
Gli autori dello studio notano come l’introduzione del diritto alla rivolta arrivi in genere dopo una qualche genere di ribellione contro l’ordine costituito o comunque dopo un evento particolarmente tragico. In Francia il diritto a resistere all’oppressione esiste dai tempi della Rivoluzione francese ed è sopravvissuto fino ad oggi. In Germania venne introdotto per la prima volta nella Costituzione della Germania occidentale, dopo la sconfitta del nazismo, ed è rimasto nella nuova Costituzione unitaria. Il diritto alla rivolta del Ruanda venne inserito nella Costituzione dopo il genocidio del 1994 e prevede il diritto a ribellarsi agli ordini dei propri superiori quando questi rappresentano una manifesta violazione dei diritti umani.
In Centro e Sud America, l’area dove il diritto alla ribellione è più diffuso, la storia è molto particolare. Qui il diritto alla rivolta è stato inserito nelle Costituzioni dopo rivoluzioni o colpi di stato militari che hanno portato alla caduta del regime precedente: l’inserimento nella Costituzione del diritto a far cadere un regime rappresenta quindi una sorta di legittimazione ex-post per chi ha compiuto il colpo di stato. In questi casi, però, il diritto alla ribellione può rivelarsi un’arma a doppio taglio. Nella Costituzione cubana del 1940, il dittatore Fulgencio Batista fece inserire un articolo che legittimava la rivolta contro il governo per giustificare il suo colpo di stato di alcuni anni prima. Quando nel 1953 il giovane rivoluzionario Fidel Castro venne arrestato si difese nel processo invocando proprio l’articolo che garantiva il diritto alla rivolta. Venne comunque condannato, ma ad una sentenza piuttosto lieve e il discorso con cui si difese contribuì a farlo diventare una star internazionale.
Qualcosa del genere accadde anche al presidente del venezuela Hugo Chavez, che nel 1998 arrivò al potere con mezzi costituzionali ma che inserì ugualmente nella Costituzione il diritto a ribellarsi per giustificare il suo tentativo di colpo di stato fallito sei anni prima. Nel 2002, l’opposizione scese in piazza in una serie di manifestazioni che portarono all’assedio del palazzo presidenziale. Quando una parte dell’esercito si rivoltò contro Chavez, deponendolo per alcuni giorni dalla sua carica, i generali ribelli invocarono proprio gli articoli della Costituzione che gli garantivano il diritto alla ribellione. Lo stesso hanno fatto negli ultimi mesi i membri dell’opposizione venezuelana che hanno manifestato contro Nicolas Maduro, il successore di Chavez.