Potevo essere io, Elliot Rodger
Le frustrazioni sessuali e misogine del ragazzo che ha ucciso sei persone in California riguardano tantissimi adolescenti, spiega lo scrittore Brian Levinson su Slate
Venerdì 23 maggio, sette persone sono morte e altre tredici sono state ferite a Santa Barbara, in California, in seguito a una sparatoria vicino al campus dell’università. A sparare è stato Elliot Rodger, un ragazzo di 22 anni che aveva attentamente pianificato il massacro nelle settimane precedenti e che si è ucciso durante la sparatoria. I testi e video lasciati da Rodger suelle sue motivazioni e sulla sua frustrazione nei confronti delle donne hanno aperto negli Stati Uniti un dibattito molto ricco sulla misoginia contemporanea, sulla cultura che costruisce fin dall’adolescenza una necessità di affermazione dei maschi attraverso il possesso e la conquista delle femmine, sulle frustrazioni e la rabbia conseguenti, sugli approcci violenti che questo genera: esplicitati nel peggiore dei modi nel caso di Rodger, repressi ma presenti in molti altri casi. Uno degli interventi è quello di Brian Levinson, su Slate.
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Ciascuno può trovare i propri motivi per disprezzare le 141 pagine del manifesto di Elliot Rodger, il 22enne che settimana scorsa ha ucciso sei persone e ferito altre tredici a Isla Vista, in California. Il testo è un tale miscuglio di misoginia, razzismo, autocommiserazione, arroganza che farebbe impressione anche a Patrick Bateman [il protagonista del libro American Psycho, di Bret Easton Eliis, ndr].
Anche io ho le mie ragioni per odiare quel manifesto: avrei potuto esserci io, al posto di Elliot Rodger.
Da adolescente e studente universitario, avrei potuto scriverla io, una tirata del genere. Per l’appunto, ho scritto davvero patetici racconti su ragazzotti popolari spinti giù da una scarpata da nerd rancorosi, e di tristi sfigati che si suicidano dolendosi alla vista delle coppiette che si stringono durante un lentone al ballo di fine anno. Dopo aver letto il manifesto di Rodger, ho ripensato al ragazzo che avevo smesso di essere: un tizio il cui pendolo emotivo oscillava costantemente fra rabbia e tristezza; uno che pensava che avere una ragazza avrebbe risolto tutti i propri problemi, e che provava un piacere grottesco a riversare la propria rabbia su ragazze che non avrebbe mai potuto avere e ragazzi che non avrebbe mai potuto essere.
Io e Rodger abbiamo lo stesso profilo psicologico di altri mattoidi solitari: John Hinckley, che sparò a Reagan nel tentativo di fare colpo su Jodie Foster; Dylan Klebold, quello disperato e meno psicopatico dei due responsabili del massacro della scuola di Columbine; Seung-Hui Cho, i cui macabri racconti brevi lasciavano intravedere la strage che avrebbe compiuto, quella di Virginia Tech.
Fatemi spiegare meglio.
Tutti ci sentiamo soli, ogni tanto. Ciascuno ha dei momenti in cui si sente inadeguato, invidioso, e scettico riguardo le proprie capacità. A tutti capita di arrabbiarsi e non sentirsi amati a sufficienza. Specialmente durante l’adolescenza, quando gli ormoni, una devastante pressione sociale e una nuova e inesplorata indipendenza girano all’impazzata dentro di noi come palle da biliardo.
Per la maggior parte delle persone, questi sentimenti sono come l’erbaccia. Crescono, mettono la testa al sole e poi seccano. Ma per certi giovani maschi sono come un rampicante. Crescono senza controllo dentro di te, fino a che la tua personalità è nascosta da strati e strati di questa robaccia. Diventi come una specie di piccola palletta colma di energia negativa (come mi definì un mio amico alle superiori). E tutto questo è generato da un’unica ragione: che la vita è ingiusta, e tu non puoi farci nulla.
L’infanzia procedeva su un binario preciso: obbedisci alla tua famiglia e alle maestre, e tutto andrà bene. L’adolescenza, al contrario, è una cosa completamente diversa. Nessuno ti spiega le regole di questo gioco, che quindi ti risultano incomprensibili, e al quale di conseguenza non puoi vincere. È come se avessi lasciato “Cappuccetto Rosso” per entrare nel “Signore delle Mosche”. E tu sei Piggy.
Per tutta la vita, i tuoi genitori e insegnanti continuano a ripeterti che sei unico e meraviglioso, e che puoi raggiungere qualsiasi obiettivo se ti impegni a sufficienza. Ma dopo la pubertà, quegli sforzi peggiorano le cose di molto. Più provi a integrarti con quelli popolari e più diventa ovvio che non diventerai mai loro amico. Più provi a fare colpo su una ragazza, e più assomiglierai a Ralph Winchester in quella famosa puntata dei Simpson («Quindi, ehm, ti piace… fare delle cose?»).
Dal momento che non le capisci, le regole dell’adolescenza possono trasformarti da una persona solitaria a un labirinto di contraddizioni. Odii i ragazzi di successo che ti rifiutano, ma al contempo vorresti tanto essere uno di loro. Odii te stesso per essere un mattoide solitario, ma al contempo credi di essere meglio di chiunque ti stia attorno – più intelligente, sensibile e consapevole di quanto gli altri possano immaginare. La sessualità adolescenziale è un labirinto senza fine, e tu sei come Jack Torrance in Shining, mentre urla impotente nella tempesta e si fa strada un morto dopo l’altro.
È molto facile prendere in giro la pretesa di Rodger secondo la quale «si meritava» una ragazza. Ma l’unico modo che conosceva per meritarsi qualcosa era comportarsi bene, in un sistema nel quale chi invece fa cose sbagliate riceveva una punizione. Sbriga le faccende di casa, riceverai il permesso di fare cose. Rompi la finestra di un vicino, e sarai messo in punizione. Quando nei suoi rapporti adolescenziali Rodger è stato punito per quello che lui riteneva “un modo giusto” di comportarsi, ha di conseguenza risposto con l’autocommiserazione, che ha gradualmente lasciato spazio alla rabbia.
Ma in che modo Rodger – e qualsiasi altro ragazzo solo e con problemi psicologici – avrebbe potuto comportarsi in modo diverso? Durante l’adolescenza, gli ormoni trasformano il tuo corpo in una pubblicità ambulante per il Viagra, e i tuoi pensieri in un film porno proiettato a ripetizione. Ma al contempo le ragazze ti spaventano e spiazzano. Sono semplicemente così diverse – “un equivoco di donna”, come scriveva Jeffrey Eugenides – impossibili da comprendere. Spesso, non sembrano nemmeno umane: puoi cercare di capirle solo come insieme di più parti – facce, voci, braccia e – chiaro – quegli occhi che ti lasciano inchiodato al muro, scosso.
Dal momento che non le capisci, è facile trasformare le ragazze in esseri magici, il cui amore ha lo stesso effetto taumaturgico del sangue di unicorno. La gioia che ricaverai da una relazione con loro compenserà la tua mancanza di popolarità. Legittimerà la tua intelligenza, sensibilità e gentilezza. In sintesi proverà a te e a tutti gli altri che sei un essere umano, come tutti gli altri.
Ovviamente, applicare la propria logica giovanile a cose complicate come il sesso, l’amore e le relazioni con gli altri è impossibile. Crescere vuole anche dire accettare che gran parte di queste cose siano incomprensibili. Siccome i mattoidi solitari non afferrano questo concetto, l’incessante ripetersi dei loro futili ragionamenti li spinge a un livello di disperazione sempre più profondo.
Se credi che l’amore sia la soluzione a tutti i problemi della tua vita, ma al contempo non riesci a essere amato, la violenza diventa una via di fuga affascinante. E indirizzare la tua violenza verso altre persone significa essere legittimati – seppure per pochi attimi – ad avere totale controllo di chi perde e chi vince in questo gioco incomprensibile.
Per me, la parte più inquietante del manifesto di Rodger è quella in cui lui scrive: «Dopo aver preso in mano il fucile io… ho provato una sensazione tutta nuova di potere. Chi è adesso il maschio alfa, eh, stronze?, pensavo dentro di me rispetto a tutte quelle ragazze che in passato mi avevano guardato dall’alto verso il basso»
Non so spiegarmi la ragione per cui una larga maggioranza dei ragazzi solitari, negli Stati Uniti, cresce e diventa una schiera di persone normali come me, mentre altri finiscono nella voce di WIkipedia “Folli attentatori statunitensi”. Io stesso ero conciato come Rodger, Cho e Klebold. Ero umiliato dal mio peso, più simile a quello di un obeso patologico piuttosto che a una persona normale. Mi spacciavo per un intellettuale, ma avrei scambiato volentieri una lettera di ammissione a Harvard con un bacio di una mia compagna che chiamerò Cinzia. Sono rimasto vergine fino a un anno dopo la fine dell’università.
Klebold e Rodger avevano degli amici; Cho aveva una famiglia che lo amava, palesemente. Perché questi ragazzi hanno preso in mano un fucile, mentre io no? Forse è stato merito dei miei genitori: come molti cinquantenni liberal e urbanizzati detestano l’uso delle armi. Da piccolo, non mi era permesso giocare coi fucili, o anche solo guardare G.I. Joe, che i miei amici adoravano. Forse è stato merito dell’epoca in cui vivevo, prima di Columbine, quando l’omicidio di massa non era ancora una soluzione praticabile per l’affermazione di sé.
Prima di cavarmela così facilmente, vuoto il sacco: io lo ero, violento. Non ho mai fatto male a nessuno, fisicamente, tanto meno a una ragazza. Ma dal punto di vista sentimentale ho abusato di ogni ragazza che mi ha rifiutato. Alle superiori, ho definito Cinzia «una disgustosa puttana» dopo averla vista accoccolarsi assieme al proprio ragazzo durante una gita di classe. Al college, mi sono presentato ubriaco davanti alla porta di una ragazza che aveva appena deciso di interrompere la nostra relazione di due settimane, la sera dopo che lei mi aveva mollato: bussai e urlai finché lei non minacciò di chiamare la polizia. Dopo la laurea, quando una serata coi miei colleghi finì con la ragazza per cui avevo una cotta che veniva accompagnata a casa da uno sconosciuto, urlai davanti ai miei colleghi che la mia vita sarebbe stata migliore «se solo la stronza fosse morta». I miei capi erano sconvolti; quando mi licenziarono il giorno dopo, mi diedero la notizia in uno studio psichiatrico a più di 15 chilometri di distanza; temevano che dessi improvvisamente di matto in ufficio.
Oggi le cose vanno molto meglio. Ho una fidanzata meravigliosa e faccio un lavoro che mi piace. L’età e gli antidepressivi mi hanno ammorbidito, e una dieta più salutare e un regolare esercizio fisico hanno aumentato la mia autostima. Ma come disse una volta Paul Schrader – che creò Travis Bickle, protagonista di Taxi Driver e ultimo grande mattoide solitario – «non riuscirai mai a lasciarti la tua infanzia alle spalle».
Quindi, per quanto la rabbia e la misoginia siano notevolmente calate, non sono mai sparite completamente. Negli scorsi quindici anni sono passato attraverso rotture di rapporti sentimentali che hanno implicato discorsi e azioni detestabili, e mi sono trovato a discutere con alcune colleghe in termini che mai avrei usato con degli uomini. Solo alcuni mesi fa, ho litigato ad alta voce con la moglie di mio padre, e nel farlo l’ho chiamata in modi orribili. Ciascuno di questi incidenti mi ha riempito di vergogna e rimorso. Il disprezzo che provavo verso il mio peso e la mia solitudine non si avvicinano neppure a quello che provo verso la mia crudeltà insensata e infantile.
Quindi, l’Elliot Rodger che è in me non è scomparso. Non è attivo quanto lo era un tempo, ma temo che sarà sempre lì: ad aspettare il prossimo momento in cui mostrare a tutti chi è il maschio alfa, ora, stronze.
nella foto, Elliot Rodger: ROBYN BECK/AFP/Getty Images
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