«Il peggior giorno della mia vita è diventato un’attrazione turistica»
Un giornalista che perse la sorella l'11 settembre ha raccontato che effetto gli ha fatto visitare il museo inaugurato a New York
Il 21 maggio è stato inaugurato il “National September 11 Memorial Museum”, il museo di New York sugli attentati dell’11 settembre del 2001 nel quale morirono 2753 persone. È stato costruito – al termine di una laboriosa fase di progettazione – a Ground Zero, l’area di Manhattan dove sorgevano le Torri Gemelle e dove nel 2011 era stato inaugurato il memoriale dell’11 settembre. All’interno del museo sono contenuti, fra le altre cose, una collezione di oggetti appartenuti alle persone morte durante il crollo delle Torri Gemelle e ritrovati tra le macerie, i resti dei veicoli della polizia e dei vigili del fuoco usati durante i primi soccorsi seguiti agli attentati dell’11 settembre, i resti degli aerei usati per gli attentati e alcune parti della struttura dei due grattacieli.
La sezione più discussa del museo, però, è quella che contiene i resti non identificati delle persone morte durante il crollo delle Torri: da tempo alcune famiglie dei morti si lamentano perché ritengono poco dignitoso che questi vengano esposti in un museo, piuttosto che in un cimitero. Nel museo è anche presente un negozio, anch’esso molto criticato. Alcuni giorni fa Buzzfeed ha pubblicato un lungo articolo del giornalista Steve Kandell, la cui sorella morì nel corso dell’attentato: Kandell racconta storie e impressioni del pomeriggio che ha passato al museo.
La storia di Kandell
La sorella di Kandell – Shari Kandell – all’epoca degli attentati aveva 27 anni e lavorava in una delle due Torri (nonostante l’articolo sia incentrato sulla sua morte, Kendall non parla molto di lei). Il suo corpo non è mai stato ritrovato. Di quei giorni, Kandell ricorda di essere arrivato in aereo da San Francisco e di aver fornito a una suora una vecchia spazzola appartenuta alla sorella per fornire un campione del suo DNA. Ricorda che suo padre «scrisse lettere al New York Times e al Washington Post (pubblicate da entrambi) nelle quali chiedeva ai giornalisti di smettere di definire sua figlia, che era stata uccisa in mondovisione pochi giorni prima, “un’eroina”. Gli eroi, raccontava mio padre, erano stati quelli che erano entrati dentro gli edifici; lei era solo una persona che si trovava lì dentro perché aveva iniziato a lavorare la mattina presto, e che questo era già «abbastanza orribile e complicato e faticoso senza questo aggettivo ingombrante».
Kandell, inoltre, ricorda in quei momenti di aver trovato molto difficile «separare ciò che era accaduto in generale da ciò che era accaduto a noi; e trovare un modo per declinare gli inviti a partecipare alla maggior parte delle esibizioni e cerimonie affinché potessimo riflettere sulla nuova geometria della nostra famiglia, come fanno le persone quando capita una cosa del genere». Kendell scrive di aver compreso e rispettato le persone che scelsero invece di partecipare a tutte quelle cose e reagire in modo diverso: «noi, semplicemente, scegliemmo un altro modo di fare, meno appariscente».
«Ed è per questo che l’angolo fra Greenwich e Liberty in questa luminosa domenica pomeriggio, a fianco di turisti primaverili che scattano foto alle gru muniti di cartine consumate e braghette, è l’ultimo posto dove dovrei stare. Sono stato autorizzato ad entrare al museo qualche giorno prima della sua apertura ufficiale, ma perché mai dovrei volerlo? Perché avrei dovuto accettare un invito per entrare in una cosa da 350 milioni di dollari e larga più di 10mila metri quadrati che rappresenta il rifiuto di tutto ciò che abbiamo cercato di praticare, ed è uno scintillante monumento al “ciò che era accaduto” e non al “ciò che era accaduto a noi“?»
La visita
Kandell racconta che dopo aver passato i controlli di sicurezza all’entrata, si passa per un oscuro corridoio dove vengono proiettate parole e foto delle persone morte quel giorno, mentre dagli altoparlanti una voce legge pezzi di storie delle persone coinvolte. Poi si passa in una stanza che contiene travi, detriti e altre cose trovate nelle torri (fra cui un camion dei pompieri «accartocciato in maniera apparentemente impossibile»). Si arriva quindi in una stanza in cui sono allineate foto delle persone morte, arredata con macchinari touchscreen sui quali si possono cercare i loro necrologi. In una stanzetta con alcune panchine a fianco, una voce legge a ripetizione i loro nomi. Kandell scopre che le informazioni riguardo sua sorella sono sbagliate (d’altra parte, ricorda, questi sono gli svantaggi di non aver partecipato ad alcuna iniziativa dopo gli attentati). In quel momento, peraltro, Kandell realizza di essere l’unica persona a visitare il museo da sola.
L’attrazione principale però, racconta Kandell, si trova dietro una porta girevole più avanti: Kandell la definisce «la ricreazione, minuto per minuto, di cosa successe quel giorno e da quel momento in avanti», fra video tratti da quel giorno e spiegazioni. Kandell ricorda che «come la zona precedente era “cavernosa”, questa è come una casa di fantasmi: vago fino a un angolo nascosto della stanza dove trovo una foto gigante di persone che scappano dall’edificio in fiamme e urlo – cazzo! – come se qualcuno mi avesse preso da dietro, di sorpresa: nessuno se ne stupisce. I nervi fragili, qui, sono lo standard».
Il percorso prosegue fra spiegazioni di come caddero le torri, video di discorsi dell’allora presidente George W. Bush, timeline delle azioni dei terroristi. «Non si può uscire finché non finisce il percorso, ed è tutto così stordente che il punto potrebbe essere proprio questo: la mostra inizia con una mattina splendida e inconsapevolmente tremenda e finisce per diventare come tutte le nostre vite, banale e abitudinario come fare una lavatrice, all’infinito».
«Mi vengono ora in mente tutte le gite ai posti come questo in cui sono stato, e di come il passato orribile di qualcun altro avesse consistito per me in un diversivo vacanziero; e di come magari imparassi delle cose, ma non provassi niente. Tutti quanti dovremmo avere un museo incentrato sulla peggiore giornata della propria vita e dovremmo essere costretti a visitarlo con un gruppo di turisti danesi. Le carte del divorzio messe in fila ed esposte, un’installazione interattiva riguardo all’ultimo giro di chemioterapia di tua madre che non è andato bene, magliette ricordo con sopra le ultime parole del tuo miglior amico prima di quell’incidente stradale. E dovreste vedere coi vostri occhi quanto poco il dolore interessi a una famiglia di cinque persone che deve procurarsi il cibo prima che i bambini crollino.»
C’è anche un confessionale, dove Kandell scrive di essere entrato e aver raccontato di sua sorella, e di come fu svegliato alle 6 di mattina quando ricevette la notizia, e di come abbia poi desiderato di averla vista più spesso e di ricordare più cose di lei e altre cose spiacevoli, in un bel passaggio all’incirca a metà dell’articolo.
Il negozio
Alla fine dell’esibizione c’è anche un negozio, molto criticato in questi giorni, nel quale però Kandell ricorda di «non provare l’indignazione che si era aspettato. […] Questi sono gli Stati Uniti, ciascuno può comprare ciò che vuole. La gente troverà momenti di pace o felicità venendo qui, non c’è bisogno che anche io sia fra questi. Quando mi renderò conto di non saper trovare le parole per spiegare tutto questo a mio figlio, probabilmente lo porterò qui. Può essere utile. È tutto ok. Non saprei».
A riguardo, ha spiegato il presidente della fondazione che gestisce il memoriale, il museo cercherà di collaborare di più con i rappresentanti delle famiglie dei morti che siedono nel consiglio di amministrazione della fondazione: «dobbiamo ricordarci che il livello di sensibilità sull’argomento è ancora molto alto». Alcuni giorni fa, in vendita, c’erano alcuni vassoi di ceramica a forma di Stati Uniti, nel quale alcuni cuori segnalavano il luogo dell’attentato. Sono stati rimossi.
L’ultima stanza
Separata dal resto del museo, c’è una piccola porta senza nessuna scritta sopra, che porta alla cosiddetta “stanza della riflessione”, a cui hanno accesso solo poche famiglie, e su appuntamento: è la stanza dove sono conservati i resti di persone che non sono ancora stati identificati. Un impiegato spiega a Kandell che il personale del museo non è ammesso in quello spazio, se non per fare le pulizie. Lui e la sua famiglia, invece, possono entrarci quando vogliono, seppure all’intero degli orari di apertura del museo.
Dentro la stanza, prosegue Kandell, «c’è un corridoio pieno di nicchie di legno scuro, forse palissandro o tectona, alti dal pavimento al soffitto, illuminati da fasci di luce. Dentro, ci sono i resti che dopo 13 anni dei test più rigorosi non hanno combaciato con nessuno dei DNA dei morti. Cassetti e cassetti pieni di questa… roba.».
«Non so come sentirmi a riguardo perché anche solo provare a farlo richiederebbe che tutto questo abbia almeno un minimo di senso. È stupido da parte mia, certo, ma esiste un atteggiamento meno stupido? Qual è il posto giusto per riporre una gran quantità di tessuto umano cosicché le prossime generazioni vengano a ricordarle? Non auguro nulla del genere a nessuno, ma resto in qualche modo affascinato da quanto tutto questo, ancora dopo molto tempo, non abbia davvero alcun senso».
foto: STAN HONDA/AFP/Getty Images