È tutto un complotto?
Secondo Slate gli studi più popolari sui complottisti raccontano solo una parte del fenomeno e nessuno è davvero immune alle teorie cospirazioniste
di Jesse Walker - Slate
Durante la campagna elettorale per le elezioni politiche in Italia, l’anno scorso, il Senato non approvò – ripeto: non approvò – nessuna legge che avrebbe distribuito 134 miliardi di euro ai parlamentari «perché potessero trovare un lavoro in caso di sconfitta elettorale». La norma era raccontata in un articolo di un giornale satirico: circolò molto online, ma non tutti quelli a cui passò davanti compresero che era una bufala. In un solo giorno circa 36mila persone firmarono una petizione contro la presunta nuova legge. Presto la storia circolò anche nelle manifestazioni di protesta contro il governo.
L’equivoco fu notato da cinque esperti che stavano studiando il modo con cui gli utenti italiani di Facebook avevano a che fare con differenti tipi di articolo, provenienti da fonti diverse: un famoso giornale, un sito “alternativo”, quello di un attivista politico e uno noto per far circolare bufale e materiale da troll. In marzo, la rivista del MIT Technology Review si è occupata dello studio dei cinque esperti con un articolo intitolato “Una ricerca sui dati rivela in che modo le teorie complottiste nascono su Facebook“. L’articolo descriveva la storia della finta legge italiana sui 134 miliardi ai politici e il tipo di persone che ci erano cascate, concludendo l’aneddoto con la frase: «Benvenuti nel torbido mondo del complottismo».
Fu un modo strano di etichettare la questione. La storia riguardava una finta legge che si diceva fosse passata al Senato, e non un certo piano tramato da qualche società segreta: il complottismo, in senso stretto, non c’entrava nulla. L’esteso studio riguardava la circolazione delle notizie false, a prescindere dal fatto che prevedessero o meno teorie complottiste: la parola “cospirazione” e le sue varianti lessicali compaiono solamente quattro volte in tutto lo studio. Eppure l’articolo della Technology Review non tiene conto di questa distinzione, e più avanti nel corso dell’articolo peggiora l’equivoco speculando lungamente a partire dallo studio. L’autore spiega che «le teorie complottiste sembrano circolare a partire da un processo nel quale normali commenti satirici o notizie palesemente false in qualche modo riescono a superare una certa soglia di credibilità. E questo sembra accadere a causa di gruppi di persone che si espongono volontariamente al flusso di fonti “alternative”». È evidente che quelle soglie di credibilità non siano state le sole a essere state scavalcate.
Se la definizione di “teorie complottiste” della Technology Review è troppo ampia, altri ne hanno invece accolta una eccessivamente stretta. Nel 2013 il gruppo di ricerca PublicMind Poll della Farleigh Dickinson University, del New Jersey, concluse che il 63 per cento degli elettori registrati negli Stati Uniti «crede ad almeno una teoria complottista». I media riportarono il notevole dato con precisione, sebbene non fosse accurato di per sé: il sondaggio scoprì che il 63 per cento degli elettori credeva in almeno una «delle quattro teorie complottiste presenti nelle domande del sondaggio». Il numero degli elettori che crede in almeno una teoria complottista in generale è sicuramente molto più alto.
Queste non sono state le uniche occasioni in cui ricercatori o giornalisti che si occupano dell’argomento hanno compiuto questo errore. Per decenni, gli psicologi e i sociologi hanno studiato le teorie complottiste e le persone che le sposano. Sono stati scoperti un sacco di casi interessanti, e alcune teorie notevoli sono state avanzate in seguito a questi studi. Ma spesso hanno incontrato un problema: il mondo e il contesto che studiano è differente da quello a cui credono i complottisti.
Le teorie complottiste dispongono di diverse figure notevoli. Nel libro Gli Stati Uniti della Paranoia, una mia ricerca sulla storia della cultura paranoica americana, ho diviso i presunti cospiratori in cinque categorie. C’è “il nemico che sta fuori”, una forza aliena che vive appena al confine con la comunità umana; “il nemico è fra noi” composto da persone difficilmente riconoscibili; “il nemico che sta in alto”, che cioè fa le sue cose dall’alto della scala sociale; infine, ci sono il “nemico dal basso”, quello cioè che sta tramando all’interno della classe proletaria, e il Benevolo Cospiratore (che quindi non può nemmeno essere considerato un “nemico”).
È superfluo ricordarlo, ma questo non è l’unico criterio possibile per ordinare le storie complottiste. Nella pratica questi cinque tipi si prestano spesso a una sorta di sovrapposizione: il “nemico da fuori”, per esempio, può essere accusato di tramare assieme al “nemico dal basso”, cosa che accadde quando negli anni Sessanta vari e autorevoli americani accusarono il blocco delle nazioni comuniste di fomentare le rivolte urbane. Ma almeno questa distinzione è utile, perché tiene dentro moltissimi esempi del passato.
Negli studi di questo tipo, ad ogni modo, le storie sul “nemico che sta in alto” tendono a essere la maggioranza. E questo può in qualche modo distorcere i risultati: quando i ricercatori traggono conclusioni sulla gente particolarmente incline a credere alle teorie complottiste, potrebbero intendere quelli particolarmente inclini a un certo tipo di teorie.
A volte questo errore è palesemente esplicitato. Nel 2010, il sociologo Ted Goertzel scrisse un articolo per EMBO Reports, un magazine di biologia molecolare, nel quale spiegava che la logica complottista tende a «mettere in discussione tutto ciò che è “istituzionale”, sia che si tratti di governi sia di scienziati». Come prova, adduceva il fatto che la “Rough Guide” sul complottismo della casa editrice Penguin Random House parlava di teorie riguardo «elite politiche, religiose, militari, diplomatiche ed economiche».
Ma gli stessi ambienti istituzionali hanno le proprie teorie complottiste, anche se la “Rough Guide” le ha ignorate. In momenti della storia in cui alcune vicende generano tensione sociale, la prassi dei vari governi e dei media è di dare la colpa a vari capri espiatori, spesso con un’accezione complottista (la “caccia alle streghe”), riguardo a crisi reali o immaginarie. Gli esempi vanno dalla preoccupazione di una nuova “schiavitù bianca” di un secolo fa, oppure quando si credeva che una estesa organizzazione criminale internazionale stesse arruolando migliaia di ragazze in una specie di industria della prostituzione. Oppure l’allarme riguardo il satanismo negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, quando politici, magistrati, giudici e giornalisti erano convinti che gruppi di persone che adoravano Satana stavano molestando ed uccidendo bambini. Spesso le teorie complottiste delle persone relativamente poco potenti sono bilanciate da altrettante e speculari teorie complottiste da parte di un ristretto e potente gruppo di persone. Nello stesso periodo storico in cui gli schiavi neri erano convinti che i medici bianchi stessero complottando per rapirli e dissezionarli, i latifondisti bianchi erano periodicamente afflitti dal terrore che gli schiavi stessero segretamente organizzando una rivoluzione.
Tenendo a mente tutto questo, esaminiamo la letteratura accademica riguardo chi crede alle teorie complottiste. Nel 1992 Goertzel fece un sondaggio fra 348 abitanti del New Jersey riguardo dieci teorie complottiste che circolavano all’epoca. Ben sette di queste erano sul “nemico che sta in alto” e parlavano del fatto che il governo fosse coinvolto nell’omicidio di Martin Luther King, oppure stesse diffondendo l’AIDS, oppure avesse coperto le attività di organismi extraterrestri oppure stesse danneggiando l’interesse pubblico in altri modi. Altre due – una riguardo l’omicidio di John F. Kennedy – potevano sulla carta assumere la forma del “nemico che sta in alto”, mentre una sola non era con certezza una teoria sul “nemico che sta in alto”: quella riguardo al fatto che i giapponesi stessero cospirando per distruggere l’economia americana (era una delle più popolari: ci credeva il 46 per cento degli intervistati).
Questo non vuol dire che i dati di Goertzel siano inutili o che non abbia prodotto uno studio interessante. Ma quando scrive, per esempio, che i complottisti hanno qualcosa a che fare con l’illegalità e la disoccupazione, ha davvero individuato due tratti caratteristici di queste persone? O ha semplicemente chiesto a persone che sperimentano illegalità e disoccupazione cosa ne pensavano riguardo teorie complottiste a cui hanno maggiori possibilità di credere?
Goertzel spiegava inoltre che «le persone che credono in una particolare teoria complottista sono più inclini a credere alle altre». Quest’idea è diventata una specie di stereotipo, nella letteratura: come hanno scritto Michael Wood, Karen Douglas e Robbie Sutton in uno studio del 2012 per il magazine Social Psychological and Personality Sciences, “la scoperta più notevole in uno studio sulla psicologia delle teorie complottiste è che le persone che credono in una di esse sono particolarmente inclini a credere alle altre – anche a quelle che non c’entrano nulla con la prima”. È anche diventato una componente molto frequenti degli articoli scientifici “pop” sul tema apparsi per esempio su Newsweek o su Bloomberg.
A spanne, è un’idea plausibile: tutti siamo capaci di pensieri complottisti, e alcuni individui più degli altri. Ma è vero che queste persone sono inclini a credere a tutte le teorie complottiste, o sono sensibili solo a quelle di un certo tipo?
Analizziamo uno studio del 2013 degli psicologi inglesi Robert Brother, Cristopher French e Alan Pickering. I partecipanti a un sondaggio effettuato dagli studiosi hanno detto la loro riguardo 59 teorie complottiste. La lista era stata compilata per rivelare un esteso e generico interesse nelle teorie complottiste, piuttosto che riguardo specifici eventi (l’11 settembre) o nemici (la CIA). Il numero di domande era inoltre sufficiente a dividerle in categorie: c’erano vicende riguardo il malfunzionamento del governo, gli alieni, società segrete internazionali, intrusioni nella libertà e salute personali, controllo sull’informazione. In breve, uno degli studi più completi sul tema. Anche in esso, però, la maggior parte delle teorie riguardava il “nemico che sta in alto”, e le risposte erano scritte in una maniera per cui i partecipanti potevano scegliere per il ruolo del cattivo o un “nemico che sta in alto” o una sua variante. Per esempio: “alcune delle persone ritenute responsabili per alcuni atti di terrorismo erano state messe lì dai mandanti, i veri responsabili”.
Oppure consideriamo lo studio di altri due psicologi inglesi, Patrick Leman e Marco Cinnirella, pubblicato nella rivista Frontiers in Psychology l’anno scorso. In esso, l’attitudine cospiratrice delle persone coinvolte era determinata dalla risposta, che poteva essere graduale, alla “credenza in una teoria complottista”. Ce n’erano sei, delle quali cinque riguardavano il “nemico che sta in alto”. L’altra – “l’Unione Europea sta cercando di prendere il controllo del Regno Unito” – è del tipo “nemico che sta fuori”, ma i suoi sostenitori credono che le elite inglesi sostengano questo piano.
I diversi tipi di teorie incluse negli studi, inoltre, può spiegare perché talvolta possono dare risultati completamente diversi riguardo chi crede alle teorie complottiste. Uno studio del 1999, per esempio, chiedeva conto di teorie complottiste non solo riguardo il governo, ma anche su società segrete sioniste, terroristi infiltrati e la mafia. Trovò un legame fra teorie complottiste e atteggiamenti autoritari. Un’altra ricerca, usando una diversa lista di teorie complottiste, scoprì invece che i complottisti tendevano ad avere forti valori democratici uniti a disprezzo per l’autorità. Sembra che in generale non sia facile applicare teorie generiche a un gruppo di persone esteso come quello dei complottisti.
Arrivati a questo punto, immagino che qualche lettore sia pronto per gridare una cosa tipo “E CHE MI DICI DELLE TEORIE COMPLOTTISTE CHE SONO VERE?”. È possibile che qualcuno di questi lettori abbia già mollato l’articolo e sia andato qui sotto, nella pagina dei commenti, a scrivere questa cosa. Che è un’osservazione corretta, fra l’altro: alcuni teorie complottiste sono vere. La parola “complottare” si trova nel dizionario per una ragione. E questo aggiunge ulteriori complicazioni riguardo la definizione di “chi” crede a queste cose.
Molti di questi studi, a dire il vero, sollevano la questione, spiegando che alcuni complotti sono davvero esistiti e che non è completamente irrazionale credere in essi. L’articolo di Goertzel ne parla estesamente, spiegando inoltre come distinguere una teoria complottista possibile da una implausibile. L’anno scorso, in un numero magazine PSYPAG Quarterly dedicato alla psicologia di chi crede nelle teorie complottiste, Brotherton scrisse un articolo riguardo all’utilizzo della definizione stessa di “teoria complottista”, notando che non l’usiamo mai – per esempio – per descrivere l’attacco dell’11 settembre. Una teoria complottista, suggerisce Brotherton, ormai non è semplicemente una teoria che invoca un complotto; è una «contestazione non verificata di un complotto che non è assolutamente la più plausibile, e che sottintende implicazioni e temi sensazionalistici. In aggiunta, la contestazione racconterà di sinistri e competenti cospiratori. Infine, sarà basata su prove fragili ed epistemiologicamente a prova di contestatori». È una definizione più limitata di quella che darei io – e apre tutta una nuova riflessione riguardo quali teorie possono essere incluse in uno studio e quali no – ma ha il vantaggio di chiarire esattamente cosa stanno indagando i ricercatori.
Eppure qualcosa non torna, a escludere teorie complottiste che si sono poi rivelate vere. Nel 2014 il Journal of the American Medical Association ha pubblicato un sondaggio e ha chiesto ad alcuni americani cosa ne pensano riguardo alcune teorie a tema medico. Ci sono cose tipo “La CIA ha deliberatamente infettato un esteso numero di afro-americani con il virus dell’HIV tramite presunte vaccinazioni contro l’epatite” e “Gli alti dirigenti del settore medico-sanitario sanno che i cellulari causano il cancro ma non stanno facendo nulla a riguardo perché le grandi multinazionali non glielo permettono”. I ricercatori hanno concluso che “il complottismo si lega a un uso più esteso di medicina alternativa e di sottrazione alle terapie tradizionali”.
È uno studio solido e rispettabile. Eppure mi chiedo cosa sarebbe successo se la domanda del sondaggio avesse incluso tra le informazioni questi tre fatti:
– Come parte di un esperimento per il controllo della mente, la CIA somministrò LSD a soggetti che non avevano accettato volontariamente di farlo; il programma è continuato anche dopo aver causato malattie e decessi.
– Con uno stratagemma durato quarant’anni, il servizio sanitario americano ha detto a centinaia di agricoltori neri che avrebbe fornito loro copertura sanitaria gratis. In realtà avevano la sifilide: invece che informarli della cosa, continuarono a non curare la malattia per fare degli studi e scoprire se interessasse neri e bianchi in modo diverso.
– Per circa quindici anni alcuni scienziati utilizzarono una scuola di New York per lo studio di una cura per l’epatite: erano soliti infettare gli studenti per poi cercare una cura per la malattia studiando gli effetti su di loro.
Tutti e tre questi racconti sono veri. Il primo venne fuori da una notevole indagine del Senato sulla CIA condotta a metà degli anni Settanta. La seconda è tratta del famoso “esperimento Tuskgee”, condotto dal 1932 al 1972, che una volta scoperto causò grandi proteste e ribellioni. Il terzo, che andò avanti dal 1956 al 1971 alla Willowbrook State School, è spesso portato come esempio nelle discussioni sul “consenso informato”: i genitori sapevano dell’esperimento mentre i ragazzi non erano nella posizione di comprendere ciò con cui avevano a che fare.
Se questi fatti fossero stati inclusi nello studio JAMA, cosa ci avrebbero detto i risultati? Le persone che credono a teorie complottiste a sfondo medico sarebbero ancora considerate più inclini a credere a quelle finanziarie oppure le loro convinzioni sarebbero considerate più solide rispetto a quelle degli altri? Le loro credenze si legherebbero all’uso della medicina alternativa o ci sarebbe una notevole differenza fra il loro comportamento e quello di altri complottisti? In che modo, insomma, la consapevolezza riguardo i veri complotti si lega con le teorie complottiste?
Proprio come la vicenda di Facebook ci insegna che non tutte le notizie false hanno legami con una teoria complottista, così una diversa versione dello studio JAMA ci ricorderebbe che non tutte le teorie complottiste sono false. Questo può dire molto sul fenomeno. Ma, per arrivarci, bisogna cambiare lo scopo con cui si effettuano questi studi.