Piketty ha fatto un mucchio di errori?
Secondo il Financial Times i conti del libro di economia più venduto dell'anno sono sballati e forse le disuguaglianze non stanno aumentando
Venerdì 23 maggio, Chris Giles, caporedattore economico del Financial Times, ha pubblicato un articolo in cui sottolinea una serie di presunti errori statistici contenuti in “Capital in the Twenty-First Century” (“Il Capitale nel ventunesimo secolo”, o nell’originale in francese “Le capital au XXIe siècle”), il libro dell’economista francese Thomas Piketty che negli ultimi mesi ha avuto un grandissimo successo (e che avevamo raccontato qui).
Il libro di Piketty, lungo 577 pagine e zeppo di dati, domina da settimane le classifiche dei best-seller in tutto il mondo ed è stato apprezzato da diversi premi Nobel. Paul Krugman, ad esempio, ha detto che quello di Piketty «sarà il più importate libro di economia dell’anno e forse del decennio», mentre il premio Nobel Joseph Stiglitz lo ha definito «di fondamentale importanza».
Il tema centrale del libro è la crescita delle diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza che, secondo Piketty, sarebbero tornate a livelli precedenti la Prima Guerra Mondiale. Piketty sostiene di aver trovato una sorta di “contraddizione” insanabile nel capitalismo, che lo porterebbe ad avvitarsi in una spirale di disuguaglianze crescenti. Per quanto queste conclusioni siano state ampiamente contestate, fino ad oggi anche i critici più severi hanno riconosciuto a Piketty il volume e la qualità del lavoro statistico con cui ha accompagnato il suo libro. Almeno fino a questi giorni.
Secondo Giles, gli errori trovati dal Financial Times nelle tabelle e nei grafici di Giles confutano la stessa premessa del libro, e cioè che da quasi un secolo le diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza (attenzione: non del reddito) non abbiano fatto altro che crescere. Secondo Giles, Piketty ha commesso alcuni errori di trascrizione nei dati, ne ha abritrarimante inventati degli altri e ne ha scelti alcuni ed eslcusi altri ancora per favorire le sue tesi (qui trovate tutti i dati e le tabelle contestati dal Financial Times, qui invece trovate i dati di Piketty).
Sul suo blog, The Upshot, il giornalista economico del New York Times Neil Irwin ha cercato di fare un po’ d’ordine nelle critiche messe insieme dal Financial Times e di capire quanto siano rilevanti e sostanziose. Irwin ha diviso gli errori in tre categorie: la prima è quella degli errori puri e semplici. Ad esempio, sbagliare a inserire in una tabella la percentuale di ricchezza dell’1 per cento più ricco della popolazione svedese e prendere il dato del 1908 invece che quello del 1920. Irwin spiega che questi errori, anche se possono essere imbarazzanti, sono inevitabili quando in uno studio voluminoso si raccolgono centinaia o addirittura migliaia di dati.
Irwin sottolinea che non è chiaro quanto queste trascrizioni sbagliate abbiano influenzato le conclusioni di Piketty, ma fa notare che simili errori di trascrizione hanno portato in passato ad un volume sproporzionato di critiche, come è accaduto ad esempio nel caso caso Reinhart-Rogoff (la storia del ragazzo che aveva “smontato” l’austerity e che avevamo raccontato qui).
Nel secondo tipo di errori i dati sembrano sbagliati in modo arbitrario, più che a causa di un errore di trascrizione (confondere la colonna del 1920 con quella del 1908). Ad esempio: Piketty ha aggiunto due punti percentuali alla quantità di ricchezza detenuta dall’1 per cento più ricco degli americani nel 1970 e ha compiuto un cambiamento arbitrario simile anche per quanto riguarda la ricchezza detenuta dagli inglesi più ricchi nel 1870. A differenza degli errori del primo tipo, che sono sostanzialmente scambi di un dato per un altro, questi appaiono del tutto arbitrari e, per il momento, ingiustificati.
Il terzo tipo di errori non sono, in realtà, veri e propri errori. Si tratta, come scrive Irwin, di una scelta di metodi “opinabili” per arrivare ad alcune conclusioni. Ad esempio, Piketty ha calcolato la distribuzione della ricchezza in Europa in alcuni periodi facendo la media tra paesi come Francia, Regno Unito e Svezia, senza ponderare nel conto il fatto che la Svezia è un paese di dimensioni sensibilmente inferiori agli altri due. Piketty ha fatto anche altre scelte arbitrarie, come calcolare la quota di ricchezza posseduta dal 10 per cento più ricco degli americani nel 1950 e aggiungendoci 36 punti percentuali, senza fornire nessuna spiegazione per la scelta di questo numero.
Dopo aver terminato di passare in rassegna i vari errori di Piketty, Giles sul Financial Times ha provato a formulare delle conclusioni utilizzando i dati corretti. Rifacendo i conti, secondo Giles non c’è traccia di un aumento della concentrazione della ricchezza. Come nota Irwin sul New York Times, «si tratta di una conclusione in grado di mettere in dubbio tutto il lavoro di Piketty». Lo stesso Giles, però, ammette che se gli errori di Piketty sono chiari, quale sia la verità lo è molto meno.
Piketty stesso, interpellato dal Financial Times, si è mostrato piuttosto aperto alle critiche, anche se non ha risposto alle singole accuse. Piketty ha spiegato che ha messo online tutti i dati e le fonti utilizzate per il suo libro proprio per permettere a chiunque di esaminarli e migliorare i suoi dati e i suoi grafici. Piketty, però, ha anche aggiunto che ritiene improbabile che le conclusioni generali sulla distribuzione della ricchezza alla quale è giunto possano essere smentite.