Roberto Donadoni, allenatore diverso
Ha appena concluso la sua miglior stagione, ha già allenato la Nazionale, ma non si capisce ancora se sia pronto per andare in una grande squadra
Francesco Costa ha scritto per l’Ultimo Uomo un ritratto di Roberto Donadoni, ex calciatore e attuale allenatore del Parma, che ieri è riuscito a qualificarsi per una coppa europea per la prima volta dopo otto anni (e in mezzo ci sono stati un travagliato cambio di proprietà e una retrocessione). Negli ultimi giorni, come spesso è accaduto negli scorsi mesi, sono tornate a circolare voci riguardo un suo possibile incarico al Milan, la squadra dove ha giocato per dodici stagioni da calciatore. Nonostante diversi buoni risultati – compresi due anni da allenatore della Nazionale, per molti un traguardo di fine carriera – non è ancora chiaro se Donadoni può essere adatto a gestire squadre e calciatori di altissimo livello: c’entra forse il suo carattere, di cui si è discusso spesso in questi anni.
Se uno dovesse giudicarla da quanto viene ripetuta in giro, la storia che Roberto Donadoni è «taciturno», «poco di moda», «sottovalutato», sembrerebbe un luogo comune. Uno di quei giudizi un po’ faciloni che per qualche ragione la stampa a un certo punto appiccica addosso a un personaggio, come un tic, al punto da definire la sua identità per i secoli a venire: ogni tanto capita. D’altra parte non risulta che il «taciturno» Donadoni convochi meno conferenze stampa o accetti meno interviste dei suoi colleghi. Inoltre, Garcia escluso, è stato probabilmente l’allenatore più sorprendente di questo campionato di Serie A e oggi il suo nome è accostato alle grandi squadre: mica male per uno «poco di moda». E poi: si può definire «sottovalutato» uno che ha allenato una Nazionale campione del mondo a 43 anni? Insomma, aria fritta. Se non fosse che queste cose, tra gli altri, le dice di sé lo stesso Donadoni.
Roberto Donadoni ha appena concluso la miglior stagione della sua vita da allenatore. È arrivato sesto, ha portato il Parma in Europa League e al suo miglior piazzamento da dieci anni a questa parte. Quattro dei suoi giocatori sono stati scelti fra i pre-convocati al Mondiale. Il suo nome circola tra i possibili futuri allenatori di una grande squadra e tutti naturalmente pensano al Milan: non solo per la particolare situazione del Milan ma anche perché prima – prima di diventare un buon allenatore – Roberto Donadoni è stato proprio nel Milan un calciatore formidabile, la smentita vivente di quel luogo comune (un altro) per cui un calciatore geniale deve necessariamente portarsi dietro anche la follia, la sregolatezza, a volte persino l’inaffidabilità. Donadoni era geniale e serissimo, ordinato e imprevedibile, allo stesso tempo tremendamente elegante e tremendamente efficace. «Il miglior giocatore italiano degli anni Novanta», ha detto di lui Michel Platini: probabilmente non è vero, ma il fatto a qualcuno venga in mente di metterlo in quel campionato lì – Baggio, Maldini, eccetera – rende l’idea.
Donadoni finisce la sua carriera da calciatore girando un po’ – MetroStars di New York, poi di nuovo Milan, poi Al-Ittihad in Arabia Saudita – e inizia quella da allenatore nel 2001 a Lecco, in Serie C1. Decimo posto, non confermato. L’anno dopo arriva a Livorno, in Serie B: decimo di nuovo, non confermato. Poi Genoa, nella Serie B a 24 squadre: tre sconfitte consecutive, esonerato. Donadoni comincia piano: non come Montella o Simeone, per capirci. Questa caratteristica combacia perfettamente con quella cosa che si dice di lui, col luogo comune, con l’immagine di Donadoni compassato, paziente, persino noioso. Ma anche stavolta è Donadoni stesso a dire di essere «sempre calmo, controllato: tengo tutto dentro»: evidentemente è vero. Dice addirittura di non ricordare quanti scudetti ha vinto. Oppure: «Non so dire qual è il mio gol più bello perché non me ne viene in mente uno. Non ricordo i nomi di tutti quelli con cui ho giocato, né quelli degli arbitri che mi hanno diretto. Non mi piacevano i riflettori allora, non mi piacciono adesso».
A volte sembra che ci sia anche un po’ di narcisismo nel suo descriversi così, nel suo usare frasi come «è meglio essere padrone dei propri silenzi che schiavo delle proprie parole». Se però un giornalista cerca una critica nei confronti di allenatori più spacconi e teatrali, come Mourinho, lui non sta al gioco: «Ci vuole abilità anche per fare quello che fa lui. Dopo Barcellona-Real Madrid 5-0 è stato grande: in sala stampa, con un plotone di esecuzione, composto da centinaia di giornalisti, schierato, è stato chiaro, onesto, diretto. Ha fatto una grande gestione di un dopo partita che più difficile non si può immaginare».
foto: Marco Luzzani/Getty Images