L’editore del New York Times sul licenziamento di Jill Abramson
Arthur Sulzberger Jr ha spiegato in una lettera interna al giornale che la questione di genere non c'entra
Sabato 17 maggio l’editore del New York Times, Arthur Sulzberger Jr, ha diffuso una nota interna alla redazione del giornale per spiegare le ragioni del licenziamento di Jill Abramson, direttrice del Times fino a mercoledì scorso. Sulzberger nei giorni scorsi aveva già difeso la scelta di sostituire Abramson con il giornalista afroamericano Dean Baquet, dopo che moltissimi siti di news e giornali statunitensi e stranieri avevano ipotizzato che dietro il licenziamento di Abramson ci fosse un disaccordo riguardo al suo stipendio. Le ragioni del licenziamento, ha scritto Sulzberger, non sono in alcun modo legate a questioni di genere, e non c’è stata alcuna penalizzazione ai suoi danni per il fatto di essere una donna. C’entrano altre cose, come la scarsa predisposizione a confrontarsi con i colleghi e una fiducia sempre più bassa dei caporedattori del Times nei suoi confronti.
Il risultato forse più triste della mia decisione di sostituire Jill Abramson come direttore del New York Times è stato che in molti l’hanno considerato un esempio di trattamento ineguale sul posto di lavoro. Invece che accettare che si trattava una situazione che ha coinvolto una specifica persona che, come tutti noi, ha le sue forze e le sue debolezze, in molti hanno raccontato una storia superficiale, e anche sbagliata.
Si è riportato in maniera insistente, ma non corretta, come lo stipendio di Jill non fosse adeguato a quello del suo predecessore. Non è vero. Il pacchetto retributivo di Jill era stato adeguato a quello di Bill Keller; nel suo ultimo anno da direttore, era anzi più alto del 10 per cento rispetto a quello di Keller.
L’uguaglianza degli stipendi tra uomini e donne è una questione molto importante nel nostro paese – una di quelle che spesso il New York Times racconta. Ma citare il caso di una dirigente che in realtà non è trattata in maniera diseguale non aiuta a promuovere l’obiettivo della parità di retribuzione.
Ho deciso che Jill non poteva più essere il direttore del giornale per una ragione che non ha niente a che fare con lo stipendio o con il genere. Come editore, il mio dovere più importante è quello di garantire la qualità e il successo del New York Times. Jill è una giornalista e redattrice eccezionale, ma con grande rammarico ho concluso che la sua gestione della redazione semplicemente non stava funzionando.
Durante la gestione di Abramson, ho sentito diverse volte i suoi colleghi della redazione, donne e uomini, lamentarsi per una serie di questioni, tra cui decisioni arbitrarie, mancate consultazioni, comunicazioni inadeguate ed episodi di “maltrattamenti” pubblici. Ne ho discusso direttamente con Jill e le ho detto che se questi problemi non fossero stati affrontati lei avrebbe rischiato di perdere la fiducia sia dei caporedattori che dei redattori. Lei ha riconosciuto che si trattava di problemi che dovevano essere affrontati. Noi tutti speravamo che ci riuscisse. Ma col tempo ho capito che il divario era troppo ampio, e ho concluso che aveva perso l’appoggio dei suoi colleghi caporedattori e che non sarebbe più riuscita ad ottenerlo nuovamente in futuro.
Da quando ho fatto l’annuncio, mercoledì scorso, ho avuto molte opportunità per parlare e ascoltare le reazioni dei miei colleghi nella redazione. C’è stata sorpresa sui tempi della decisione, ma hanno capito la scelta e le ragioni per cui l’ho fatta.
Siamo orgogliosi del nostri record sull’eguaglianza di genere al New York Times. Molte delle persone che occupano posizioni chiave – sia nella redazione che nell’ambito più propriamente manageriale – sono donne. E ci sono molte “stelle nascenti”. Queste persone non cercano un trattamento di favore, ma si aspettano di essere trattate con lo stesso rispetto dei loro colleghi uomini. Per questa ragione, vogliono che il loro lavoro sia giudicato in maniera corretta e obiettiva. Ed è quello che è successo nel caso di Jill.
L’eguaglianza è il centro delle nostre convinzioni al Times. E lo sarà sempre.