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  • Mercoledì 14 maggio 2014

Ronaldo, un ritratto sentimentale

La storia degli anni in cui sembrava fosse arrivato il più forte calciatore di tutti i tempi («un feroce congegno da calcio»)

23 Oct 1999: Ronaldo of Inter Milan celebrates his goal against AC Milan during the Serie A match at the San Siro in Milan, Italy. Mandatory Credit: Claudio Villa /Allsport
23 Oct 1999: Ronaldo of Inter Milan celebrates his goal against AC Milan during the Serie A match at the San Siro in Milan, Italy. Mandatory Credit: Claudio Villa /Allsport

Cesare Alemanni sull’Ultimo Uomo ha raccontato i primi anni di carriera del calciatore brasiliano Ronaldo Luís Nazário de Lima (noto semplicemente come Ronaldo) considerato uno dei calciatori più forti di tutti i tempi e uno dei più fragili e sfortunati: nonché uno dei primi a guadagnare una celebrità mondiale che andasse oltre quella degli appassionati. Alemanni si sofferma in particolare sugli anni fra il 1993 e il 1997, quelli in cui Ronaldo giocò per Cruzeiro, PSV, Barcellona e Inter e in cui sembrava «un feroce congegno da calcio». Dopo svariati infortuni e alcuni anni di alti e bassi fra Real Madrid, Milan e Corinthians, Ronaldo si è ritirato dal calcio nel 2011: è tuttora ricordato con molta nostalgia e affetto da una parte dei tifosi interisti (è tuttora l’ultimo giocatore della squadra ad aver vinto un Pallone d’Oro mentre si trovava all’Inter) e con rabbia da un’altra parte, per la volta che segnò in un derby giocando col Milan ed esultò portandosi le mani alle orecchie.

Visto da vicino, a ventuno anni Ronaldo Luís Nazário de Lima era giovane come un proiettile, levigato come un cristallo. Aveva i colori e il cranio nudo di un monaco shaolin, zigomi pronunciati, due incisivi da scoiattolo.

Era novembre 1997 e all’Arena di Milano l’Inter giocava un’amichevole infrasettimanale con una squadra croata. A fine partita, mentre calava una gelida foschia serale, i giocatori si fermarono a bordo campo per firmare qualche autografo. Naturalmente quello di Ronaldo era il più ambito e come tutti anche io mi avvicinai, ma non con l’intento di strappargli uno scarabocchio: volevo solo guardarlo bene. Del resto era il mio idolo, l’unico personaggio pubblico che confesso di avere davvero idolatrato, seppure per un breve periodo, nella mia vita. Dieci anni dopo l’ho incontrato nuovamente. Era la primavera del 2008, un soffice pomeriggio di sole, e ci trovavamo entrambi in una sfarzosa boutique di Corso Venezia a Milano. Lui in compagnia di una giovane donna molto appariscente, io di un amico con cui ero entrato per scherzo e unicamente per testare le reazioni dei commessi alla presenza di due studenti squattrinati. Ronaldo indossava occhiali da sole fascianti e un cappellino da baseball blu scuro, forse dei New York Yankees. In parte fu per questo che non lo riconobbi subito, più probabilmente perché dall’involucro del ventunenne di un tempo era sbucato un milionario paffutello che proiettava cenni annoiati alla merce. Gli incisivi erano rimasti identici, gli zigomi invece erano scomparsi inghiottiti dalle guance adipose e di certo “levigato” non era la parola più adatta per descrivere il suo totale.

Tra quei due momenti in cui avrei potuto dirgli “ciao” e non l’ho fatto, a Ronaldo, come è noto, è capitato di tutto e questo tutto è, a mio parere, l’unica ragione per cui non lo ricordiamo come il più grande calciatore di sempre.

UNA LOCOMOTIVA UMANA
Lessi il nome di Ronaldo per la prima volta sul Guerin Sportivo, nel periodo in cui lo compravo ogni settimana per divorarlo nel viaggio di ritorno da scuola. Alla fine del 1995 non c’era nessuna ragione per cui quella pagina in particolare mi rimanesse impigliata nella memoria ma di fatto lo fece e, a distanza di quasi vent’anni, la ricordo piuttosto bene. Era uno degli articoli che il Guerin dedicava ai “nuovi talenti” internazionali, per solleticare la fantasia di lettori non ancora avvezzi a osservare da lontano quelli che oggi chiamiamo “top player”. Da interista avevo almeno due buone ragioni per non fidarmi ciecamente delle segnalazioni del settimanale: Caio e Rambert, dipinti l’estate precedente da potenziali fuoriclasse, si erano rivelati già in autunno come i primi di una serie di bidoni transitati per Appiano in quel periodo.

E tuttavia la fotografia che apriva l’articolo su questo potenziale prodigio non si lasciava ignorare facilmente. L’immagine, verticale e a tutta pagina, lo riprendeva di tre quarti a figura intera e lo mostrava in progressione, la palla al piede e la maglia a righe bianche e rosse del PSV Eindhoven indosso, la sua prima squadra europea. La composizione era piuttosto classica e familiare – un momento di gioco come tanti immortalato da qualche anonimo fotografo a bordo campo per venderlo a un’agenzia – e tuttavia c’era qualcosa di inspiegabile, di perturbante in senso freudiano al suo interno. O il fotografo aveva scelto per sbaglio un tempo di esposizione troppo lungo, finendo col catturare scie fantasmatiche di movimento oppure il soggetto stava “viaggiando” a una velocità inaudita per un giocatore di calcio. Non avevo mai visto prima – considerate che parliamo di venti anni fa – una fotografia così tanto dinamica di un calciatore. Nella prima foto che vidi di lui, Ronaldo sembrava una locomotiva umana.

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