Negli Stati Uniti si parla ancora di Bengasi
Secondo i repubblicani c'è un'email che dimostra gli errori dell'amministrazione Obama durante e dopo l'attacco in Libia dell'11 settembre 2012
Da un paio di giorni negli Stati Uniti si è tornato a parlare dell’attacco dell’11 settembre 2012 al consolato americano a Bengasi, in Libia, che causò la morte dell’ambasciatore Cristopher Stevens e di altri tre diplomatici. Il motivo è la diffusione di una mail – che fino a oggi non era stata resa pubblica – legata alla contestata gestione della crisi da parte dell’amministrazione di Barack Obama sia durante che dopo l’attacco. La mail risale al 2012: fu mandata dall’allora consigliere capo della politica estera di Obama, Ben Rhodes, e conteneva i cosiddetti “talking points”, ovvero brevi informazioni che l’amministrazione fornì all’ambasciatrice statunitense all’ONU Susan Rice per riferire quanto successo a Bengasi in diversi talk show americani cinque giorni dopo gli attacchi (questi stessi “talking points” erano già stati tirati in ballo nel maggio 2013, durante una serie precedente di indagini su Bengasi).
Secondo i repubblicani, la mail darebbe maggiore concretezza all’ipotesi che l’amministrazione statunitense abbia cercato di coprire le inefficienze della gestione della crisi a Bengasi per proteggere Obama, che da lì a due mesi si sarebbe confrontato con Mitt Romney alle elezioni presidenziali. In particolare i repubblicani accusano l’amministrazione di avere spinto Rice a attribuire la responsabilità di quanto successo a un video diffuso su internet considerato anti-islamico, il film “satirico” su Maometto, e non il risultato di un fallimento più ampio nel garantire la sicurezza ai funzionari americani a Bengasi.
Nei giorni scorsi lo speaker repubblicano della Camera, John Boehner, ha annunciato la nomina del repubblicano Trey Gowdy a presidente di una commissione che dovrà valutare di nuovo i fatti di Bengasi. Intanto il segretario di stato John Kerry è stato convocato a testimoniare sull’attacco di Bengasi il 21 maggio, ma di fronte a una commissione separata della Camera. Secondo i democratici una nuova indagine del Congresso sui fatti di Bengasi non sarebbe comunque necessaria, visto che ce ne sono già state sette nell’ultimo anno e mezzo: con otto udienze, 50 briefings, centinaia di ore di trascrizione di testimonianze e la diffusione di circa 25mila pagine di documenti. Questa settimana il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, ha detto ai giornalisti: «Questa è una teoria del complotto in cerca di complotti».
L’amministrazione ha già fatto sapere che coopererà solo se il controllo sarà ritenuto “legittimo”: questo vuol dire, scrive Reuters, che i funzionari della Casa Bianca potrebbero opporsi alla richiesta dei repubblicani di far testimoniare esponenti che in quel settembre 2012 ricoprivano ruoli chiave nell’amministrazione, come l’allora segretario di stato Hillary Clinton. Il leader dei democratici alla Camera, Nancy Pelosi, aveva chiesto ripetutamente che la commissione che si appresta a indagare di nuovo su Bengasi avesse un egual numero di componenti repubblicani e democratici. La risoluzione approvata per istituire la commissione prevede però 7 repubblicani e 5 democratici: i democratici della Camera potrebbero quindi boicottare i lavori della commissione (normalmente il partito di maggioranza, nel caso della Camera si tratta dei repubblicani, esprime un numero maggiore di membri nelle commissioni).
I repubblicani, scrive il Washington Post, stanno sfruttando la vicenda di Bengasi per aprire un “nuovo fronte” contro i democratici, in vista delle elezioni di metà mandato del 2014 ma anche delle presidenziali del 2016. Nell’ultimo anno e mezzo hanno usato con una certa frequenza la vicenda di Bengasi per colpire i democratici e l’amministrazione Obama. Fox News, canale conservatore statunitense, ha menzionato “Bengasi” in 1.101 programmi lo scorso anno. Secondo un recente sondaggio di Pew Research molti americani credono che l’episodio più dannoso per le ambizioni politiche presidenziali di Hillary Clinton sia proprio l’attacco di Bengasi.