In difesa di Obama
Il New York Times dice che in politica estera ha fatto quello che poteva e quello che volevano gli americani, rifiutando l'approccio aggressivo di molti suoi predecessori
La politica estera di Barack Obama è uno degli aspetti più criticati della sua amministrazione: le sue strategie sono state attaccate egualmente dai conservatori e dai progressisti, che lo vedono come troppo cauto e incerto, e temono che il ruolo centrale degli Stati Uniti nel secolo scorso ne esca compromesso. A Obama sono imputati soprattutto l’inazione in Siria e in Ucraina, e il fallimento nell’evitare che le rivoluzioni del Nord Africa diventassero un veicolo per l’estremismo islamico o il ritorno delle dittature militari. Il New York Times, però, si è chiesto – con un editoriale non firmato: uno di quelli che descrivono la linea del giornale – se queste critiche siano davvero tutte giustificate: un presidente che rifiutasse la politica del “prima-spara-poi-parla”, uno che sta alla larga dai conflitti militari internazionali, non è forse quello che la maggioranza degli americani voleva dopo gli anni di Bush? Ma soprattutto, è del tutto vero che la politica estera più cauta e diplomatica di Obama abbia reso gli Stati Uniti più deboli sul piano internazionale?
La gestione della crisi in Siria
Uno dei momenti cruciali della gestione della guerra civile siriana era stato la famosa frase con cui Obama definì l’utilizzo di armi chimiche come una “linea rossa” che se valicata avrebbe potuto cambiare l’approccio degli Stati Uniti, che fino a quel punto avevano escluso un intervento militare diretto (invio di soldati) o indiretto (invio di armi ai ribelli). Quando emerse che il regime di Assad aveva con grande probabilità usato armi chimiche contro i ribelli e i civili, Obama tentennò per settimane e poi disse di voler ordinare un intervento militare in Siria, previa però autorizzazione del Congresso.
Quando si manifestò la possibilità di un accordo per privare la Siria delle armi chimiche, Obama decise di continuare con la diplomazia e avviare un tortuoso programma di smantellamento dell’arsenale di armi chimiche del governo siriano. Secondo il New York Times la scelta è stata giusta. Se le cose non sono migliorate è perché Russia e Iran hanno sempre aiutato Assad, ostacolando una risoluzione diplomatica della guerra. Ad ogni modo, gli Stati Uniti hanno recentemente iniziato a fornire armi ai ribelli siriani, cosa che mostra un cambiamento di strategia da parte dell’amministrazione.
La crisi in Ucraina e le relazioni con la Russia
La questione delle relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e Russia è iniziata ben prima dell’inizio della crisi in Ucraina. Anche per questo nel 2009 Obama aveva abbandonato i piani di costruire il famoso “scudo spaziale”, un impianto missilistico che sarebbe dovuto sorgere in Polonia e che sarebbe servito a difendere l’Europa e gli Stati Uniti da possibili attacchi missilistici dall’est Europa e dal Medioriente. La decisione era stata presa per cercare di migliorare le relazioni con la Russia, che aveva sempre visto la costruzione dello “scudo spaziale” come una minaccia, ed era stata molto criticata negli Stati Uniti. Secondo il New York Times non si può criticare Obama per la scelta di provare a costruire migliori relazioni diplomatiche con la Russia: per quanto poco efficace, le alternative non erano migliori o non esistevano.
Obama ha offerto a Putin una strada per risolvere la crisi in modo diplomatico. Quando le trattative sono fallite, ha imposto sanzioni alla Russia e ai cittadini ucraini legati in qualche modo all’invasione della Crimea.
L’idea dei repubblicani che Obama avrebbe dovuto intervenire militarmente in Ucraina e contro la Russia è, per dirla elegantemente, irresponsabile. Gli sforzi di Obama per lavorare con l’Europa su sanzioni più dure contro la Russia sono la miglior possibilità che abbiamo di fermare l’espansionismo russo.
Se le cose non stanno migliorando abbastanza, secondo il New York Times, è perché ci sono troppe resistenze tra i paesi europei, che hanno forti legami economici con la Russia e sono reticenti rispetto all’idea di imporre sanzioni più forti. Obama dovrebbe tuttavia considerare di imporre sanzioni unilaterali, se le cose non dovessero sbloccarsi e se l’Europa dovesse continuare a temporeggiare.
L’Iran e il nucleare
Una delle iniziative più promettenti dell’amministrazione Obama ha riguardato i tentativi di evitare che l’Iran costruisse la bomba atomica. In primo luogo, scrive il New York Times, bisogna riconoscere a Obama di essersi preso un rischio molto grande a iniziare delle trattative con uno stato come l’Iran; in secondo luogo bisogna riconoscergli di aver ottenuto risultati molto buoni nonostante il Congresso abbia fatto di tutto per far fallire le trattative. Lo scorso novembre è stato trovato un primo accordo temporaneo che renderà molto difficile per l’Iran avere armi atomiche; il prossimo luglio dovrebbe essere firmato un accordo definitivo.
Israele e Palestina
Anche la gestione dei colloqui di pace tra Israele e Palestina è stata molto criticata per non aver portato a risultati concreti. Nonostante questo, secondo il New York Times i tentativi fatti dall’amministrazione sono stati validi, ben pianificati e hanno mostrato la forte volontà degli Stati Uniti di trovare una soluzione pacifica al conflitto tra israeliani e palestinesi. Anche se i risultati sono stati scarsi fino a ora, sono state gettate le basi per nuovi lavori diplomatici e dunque ne è valsa la pena.
L’uso della forza
In generale Obama è stato molto accusato per non aver usato abbastanza la forza in azioni di politica estera. Secondo il New York Times, nonostante Obama abbia avviato il ritiro delle truppe dall’Afghanistan e deciso di virare verso un approccio più diplomatico alle questioni di politica estera, non si può certo dire che abbia adottato politiche pacifiste. Obama ha autorizzato i bombardamenti in Libia che hanno portato alla caduta del regime di Gheddafi, ha dato il via libera all’operazione con cui è stato ucciso Osama bin Laden e ha aumentato il numero di attacchi con i droni in Pakistan, Yemen e Somalia, in una misura che il New York Times definisce “ben più che eccessiva”.
Le accuse che Obama sia stato morbido con i terroristi sono assolutamente infondate. In realtà le sue scelte sono state fin troppo simili a quelle di Bush, per farci sentire a nostro agio.
L’Egitto e la questione araba
Le rivoluzioni avvenute nel mondo arabo negli ultimi anni mostrano tutti i limiti dell’influenza americana, anche quando si sceglie di intervenire in modo più diretto che in altri casi. La situazione dell’Egitto è emblematica e mostra il paradosso in cui si è cacciata l’amministrazione Obama nel suo tentativo di sostenere la nascita di nuovi stati democratici: gli Stati Uniti hanno fornito e continuano a fornire armi e aiuti economici all’Egitto, che ora si trova governato da un regime militare che non sembra aver mantenuto le promesse della Primavera araba e che recentemente ha emesso condanne a morte per oltre 1.000 avversari politici.
In conclusione
Secondo il New York Times, se analizzata in modo non ideologico, la politica estera di Obama non è stata negativa: ci sono aspetti positivi e cose in cui però si poteva fare molto meglio. Quando era stato eletto la prima volta, Obama si era presentato come un leader del cambiamento; soprattutto in politica estera si è dovuto scontrare però con una realtà caotica e ingestibile, dove le risposte facili e univoche non sono quasi mai possibili. La posizione predominante che gli Stati Uniti si sono guadagnati negli anni, tuttavia, dipende proprio dall’aver scelto interpretazioni nette (e a volte semplicistiche) in diverse situazioni di politica estera: quindi in una certa misura è vero che il carisma internazionale degli Stati Uniti, come sostengono molti critici di Obama, è diminuito a causa della sua politica estera più cauta. Il punto quindi è che non si possono volere le due cose allo stesso tempo: una politica estera diversa da quella di Bush è fatta così e porta a queste conseguenze.
Alcune cose, tuttavia, potrebbero essere fatte meglio soprattutto in termini di comunicazione. Secondo il New York Times uno dei limiti più grandi di Obama è stato aver scelto un tono dimesso e debole per spiegare le sue posizioni di politica estera, un tono che ha esasperato i suoi sostenitori e ha offerto il fianco alle critiche dei suoi detrattori. Quando si parla di politica estera bisognerebbe essere in grado di “ispirare la squadra”: quali che siano le scelte di fondo che sono state fatte, quando Obama descrive le sue scelte spesso usa parole ed espressioni che lo fanno sembrare “debole, poco concentrato e passivo”.