Storia di Tommy Hilfiger
Successi, crisi e rinascita di una delle più note marche di abbigliamento al mondo, dalla sua prima famosa campagna pubblicitaria alla nuova linea con Zooey Deschanel
Lunedì 14 aprile Tommy Hilfiger, l’azienda di abbigliamento statunitense fondata dallo stilista Tommy Hilfiger, ha aperto le vendite di una nuova collezione femminile disegnata con la collaborazione dell’attrice Zooey Deschanel, testimonial di tutta la linea (si chiama “To Tommy, From Zooey”). La collezione include vestiti e accessori vari, i prezzi vanno da 98 a 199 dollari, e nelle intenzioni di Hilfiger la collezione dovrebbe richiamare uno stile “nautico” anni Sessanta (definito “modical”, una via di mezzo tra la definizione di “nautical” e il riferimento al movimento britannico MOD).
Negli ultimi mesi – già da prima dell’apertura di questa collezione con Deschanel – Tommy Hilfiger, stilista fondatore dell’omonima azienda, ha dato numerose interviste con diverse testate internazionali, interessate a riprendere e raccontare la storia dell’azienda dal 1985 a oggi, fatta di grandi successi ma anche di gravi perdite e poi di altri nuovi recenti successi, dopo che l’azienda – che intanto, nel 1992, si era quotata in borsa – fu venduta a una società di investimenti privata, nel 2006.
Che vestiti fa Tommy Hilfiger
Tommy Hilfiger – “Hilfiger” si pronuncia con l’accento sulla prima “i” e con la “g” di “gatto”, così – è una delle marche di abbigliamento più popolari al mondo, soprattutto per merito di uno stile facilmente riconoscibile – le definizioni vanno solitamente da “sportivo” a “casual” a “nautical”, appunto – e anche di un logo molto efficace, che riprende i tre colori storicamente più presenti nelle collezioni: bianco, rosso e blu. C’è stato un momento, tra la fine degli anni Ottanta e lungo tutti gli anni Novanta, in cui un mucchio di artisti e personaggi dello spettacolo venivano fotografati in abiti Tommy Hilfiger. Per dirne una: nel 1999 il primo tour internazionale di Britney Spears fu sponsorizzato da Tommy, e Britney Spears cantava sul palco con abiti Tommy (a volte pure piuttosto vistosi, come delle grandi salopette di tela di jeans). Tommy non fa soltanto vestiti: fa scarpe, borse, accessori, gioielli, profumi.
Una degli aspetti della storia di Tommy Hilfiger che più sorprende e interessa gli appassionati del genere, è che prima del 1985 praticamente nessuno sapeva neppure chi fosse, Tommy Hilfiger, e molti ritengono che gran parte della sua popolarità iniziale sia dovuta alla prima campagna pubblicitaria, che rese noto il suo nome prima ancora dei suoi prodotti, peraltro a un pubblico molto esteso e influente come quello di Manhattan.
La prima campagna pubblicitaria
Nel 1985 Hilfiger – che all’epoca era un semplice designer freelance e aveva appena deciso di aprire una catena di negozi per vendere collezioni originali – si rivolse con un budget di 200 mila dollari a George Lois, già allora uno dei più apprezzati art director in circolazione. Lois preparò una campagna pubblicitaria semplice ma ben studiata: finì sui principali magazine settimanali e un enorme cartellone fu esposto in pieno centro, a Times Square. Era una specie di gioco dell’impiccato: c’era scritto “I 4 più grandi stilisti maschili americani sono R____ L_____, P____ E____, C_____ K____, T____ H_______”. Il pubblico americano riusciva facilmente a indovinare il nome dei primi tre (Ralph Lauren, Perry Ellis e Calvin Klein) ma non l’ultimo. In basso c’era il logo del “meno conosciuto dei 4”, accompagnato da un testo che lo presentava:
Nella maggior parte delle famiglie i primi tre nomi sono parole familiari. Tenetevi pronti ad aggiungerne un altro. Il suo nome (indizio) è Tommy. Il cognome non è così semplice ma nel giro di pochi mesi tutti in America sapranno che c’è un nuovo look in città e un nuovo nome sopra. I vestiti di Tommy sono “alla mano” senza essere casual, classici senza essere prevedibili. Lui li definisce classici con un’invenzione. Gli altri tre stilisti li chiamano concorrenza.
Fu un successo virale e clamoroso e nel giro di pochi giorni tutti seppero di Tommy Hilfiger, che inizialmente riteneva un po’ troppo coraggiosa e impudente la campagna pubblicitaria. Nel documentario Art & Copy, diretto da Doug Pray e presentato al Sundance Film Festival nel 2009, Lois racconta come andarono le cose: «Non hai detto che ti ispiri a stilisti come Ralph Lauren, Perry Ellis e Calvin Klein? E allora perché non farlo?», disse Lois a Hilfiger, che alla fine si lasciò convincere. La campagna pubblicitaria di Lois è ancora oggi un caso di studio e uno degli esempi di marketing più citati tra gli addetti ai lavori.
Il logo di Tommy Hilfiger
In un’intervista con Bloomberg Businesweek, Hilfiger ha raccontato da dove saltò fuori l’idea del logo. Ha detto di essere un appassionato di barche e di navigazione, e di aver sempre desiderato che il logo della sua azienda avesse a che fare con i segnali nautici. «Ma sono anche un tipo patriottico», ha detto, «e volevo che fosse bianco, rosso e blu, con un T e una H insieme». Alla fine fu utilizzato il simbolo H del Codice internazionale dei segnali (significa che c’è un pilota a bordo), tra due aste blu orizzontali.
«Avevo visto che Nike aveva tolto il nome dal suo simbolo, lo “swoosh”, negli anni Ottanta», ha aggiunto Hilfiger, «e pensai che un giorno avrei potuto togliere anche io il nome dal mio simbolo, e la gente avrebbe riconosciuto ugualmente la marca da quella bandiera».
Chi era Tommy Hilfiger prima di diventare Tommy Hilfiger
Hilfiger è nato nel 1951 ad Elmira, che è un paesino nello Stato di New York in cui “tutti conoscono i loro vicini di quartiere”, ha raccontato a Bloomberg. Sua madre era un’infermiera e suo padre un orologiaio, e lui, Tommy, iniziò a lavorare molto presto: guadagnava già qualcosa distribuendo i giornali quando aveva 11 anni, e poi come benzinaio in una stazione di rifornimento a 1,25 dollari all’ora. Era un tipo sportivo, e a scuola era anche molto popolare: vestiva in un modo ricercato, ispirandosi al look di rockstar famose, e i suoi compagni di scuola – dice lui – cominciarono a imitarlo nell’abbigliamento e a chiedergli dove avesse comprato quei vestiti, per esempio quei pantaloni a zampa d’elefante che indossava spesso.
È in quel momento che Hilfiger decise di aprire un piccolo negozio di vestiti a Elmira, con i 150 dollari messi da parte lavorando alla stazione di servizio, e con l’aiuto di altri suoi compagni di scuola: lo chiamarono People’s Place – avevano soltanto 20 jeans da vendere, all’inizio – ed ebbe un successo tale da indurre Hilfiger ad aprire altri negozi in altre zone dello Stato di New York. Ce n’era uno a Ithaca, proprio vicino alla Cornell University, e Hilfiger divenne in poco tempo piuttosto noto tra gli studenti di quel giro lì. Poter contare già su quella “base” di giovani clienti lo convinse a cominciare a produrre vestiti originali, piuttosto che vendere quelli di altri marche. All’inizio creò soprattutto vestiti fatti di tessuto di jeans, soprattutto giacche e giubbotti, ma le cose non andarono benissimo e Hilfiger vendette i negozi per trasferirsi a New York, nel 1979, dove per un po’ di tempo lavorò come designer freelance per altre marche.
Come vestivano al lavoro negli anni Ottanta
Hilfiger racconta che in quei suoi primi anni a New York, l’inizio degli Ottanta, le persone andavano ancora in ufficio in giacca e cravatta, ma in America alcuni – a cominciare da certi dirigenti della Silicon Valley – gradualmente smisero di farlo e preferirono un look meno formale, con pantaloni di chino e camicie button-down. Hilfiger si trovò nel posto giusto al momento giusto: il suo stile non era mai stato classico ma neppure troppo casual. Era cresciuto in un ambiente “preppy”, una buffa parola che gli americani usano per inquadrare quelli che indossano maglie polo Lacoste e quel genere di indumenti lì, non del tutto classici ma neanche del tutto sportivi.
Hilfiger, che trovava noioso quel tipo di abbigliamento, si inventò una nuova declinazione del “preppy”, con colori chiari e vivaci, e molti tessuti di jeans, recuperando quindi quella parte di pubblico sportivo piuttosto “allergico” al preppy tradizionale. Nel 1985 fondò la Tommy Hilfiger e tenne la sua prima sfilata, ottenendo da subito – grazie anche all’ambiziosa campagna di George Lois – un notevole successo di vendite e, in seguito, l’approvazione crescente di un pubblico molto eterogeneo, sia tra i clienti sia tra testimonial e celebrità varie (da Kate Moss a Snoop Dogg, per dire).
In un passaggio dell’intervista con Bloomberg, Hilfiger spiega abbastanza chiaramente quello che ritiene essere stato uno degli aspetti più rilevanti del successo della sua azienda: l’abbordabilità dei prezzi.
“Alla mano” è certamente la parola chiave. Se sei alla mano significa che sei vendibile, e questo si traduce in profitto. Molti non lo capiscono. Pensano che se fai bei vestiti, la gente li comprerà a qualsiasi prezzo. Non è sempre vero. Inoltre, se sei troppo attuale, puoi finire fuori moda molto rapidamente. Ma se non sei abbastanza alla moda, non farai il salto. Ci sta tutta un’arte nell’essere sicuro che il tuo prodotto non sia troppo avanti ma neppure troppo indietro.
L’espansione e gli anni Novanta
Grazie alla partecipazione e agli investimenti di altri partner commerciali di rilievo internazionale, la Tommy Hilfiger si espanse nei mercati esteri e si quotò in borsa, nel 1992. I partner furono la Silas Chou (una delle quattro maggiori aziende manifatturiere cinesi), il finanziere canadese Lawrence Stroll e l’americano Joel Horowitz, che avevano entrambi lavorato in Ralph Lauren: da una società da 100 milioni di dollari che era, negli anni Novanta la Tommy Hilfiger divenne un gruppo internazionale da 1 miliardo di dollari, ha raccontato Hilfiger a Bloomberg.
La crisi, la vendita e la rinascita della marca
A causa di un brusco crollo delle vendite, all’inizio degli anni Duemila la Tommy Hilfiger attraversò un lungo periodo di crisi, e arrivò a far segnare fino al 75 per cento di perdite in un solo trimestre. Bloomberg sostiene che la crisi di Hilfiger fu in parte legata anche al fatto che la vecchia “base” preppy abbandonò la marca Tommy quando questa fu largamente adottata dalla comunità hip-hop americana, e che Hilfiger rimase sostanzialmente “orfano” di un pubblico di riferimento quando la comunità hip-hop si rivolse verso altre, nuove tendenze. È una lettura in parte condivisa dallo stesso Hilfiger, che sostiene che la rinascita della marca in tempi recenti è stata – anche – merito di una sorta di ritorno alle radici di Hilfiger, piuttosto che il tentativo di inseguire nuove mode.
Nel 2006 Hilfiger fu venduta per 1,6 miliardi di dollari alla Apax Partners, una società finanziaria inglese, e nel 2010 – dopo un periodo di ripresa e stabilizzazione economica – l’azienda fu acquisita dall’americana PVH Corp (Phillips-Van Heusen), una delle più grandi società di abbigliamento al mondo (possiede anche altre marche tra cui Calvin Klein). «Ma non è che abbiamo venduto e ce ne siamo andati», ha spiegato Hilfiger a Bloomberg, sottolineando che l’azienda non ha mai smesso di produrre vestiti, e tecnicamente non ha mai chiuso (Hilfiger è tuttora principal designer). L’anno scorso i profitti della Tommy Hilfiger negli Stati Uniti sono cresciuti del 14 per cento.