Le foto di Abu Ghraib
Furono pubblicate 10 anni fa – mostravano abusi e torture – e diventarono subito un caso mondiale: la storia processuale di quella vicenda non si è ancora conclusa
Il 28 aprile del 2004, dieci anni fa, 60 minutes, un programma d’inchiesta della rete televisiva americana CBS, mostrò per la prima volta le immagini delle torture e degli abusi subiti dai prigionieri iracheni nel carcere di Abu Ghraib, vicino a Baghdad. A scattare le fotografie erano stati gli stessi soldati e contractor americani che avevano compiuto le torture. In pochi giorni le fotografie furono pubblicate dai media di tutto il mondo e l’immagine dell’allora presidente George W. Bush, che aveva promesso che dopo la deposizione di Saddam Hussein in Iraq non ci sarebbero state più torture, subì un colpo durissimo. Dieci anni dopo, come ha raccontato alla fine di aprile il New York Times, la storia processuale nata da quegli abusi non si è ancora conclusa.
Il carcere: cos’era e che fine ha fatto
Il carcere di Abu Grahib oggi è deserto. Lo scorso aprile il governo iracheno ha annunciato di aver trasferito i suoi circa 2 mila detenuti per timore di un assalto da parte dei ribelli sunniti. Si è trattato di un annuncio in qualche modo storico, visto che il carcere di Abu Ghraib è in funzione dagli anni Cinquanta, quando venne costruito da una società inglese per quello che allora era il Regno dell’Iraq.
Abu Ghraib in arabo significa “il posto dei corvi”, un nome che ha assunto sfumature sinistre da quando in Iraq si instaurò il regime di Saddam Hussein. Al culmine della repressione, nel 2001, la prigione ospitava circa 15 mila detenuti. Molti erano criminali comuni, ma c’erano anche numerosi prigionieri politici: per loro Abu Ghraib era un luogo di torture e di esecuzioni. Nei campi intorno alla prigione sono state scoperte fosse comuni con decine di cadaveri. In un’esecuzione di massa il 10 dicembre 1999, 101 persone vennero uccise in una sola notte e seppellite al buio e in fretta.
Quando nel 2003 il regime iracheno venne rovesciato, la prigione era stata oramai abbandonata. Saddam Hussein, nel 2002, aveva proclamato un’amnistia che aveva svuotato le carceri e riempito le strade di criminali comuni (i detenuti politici erano già stati uccisi o trasferiti). Dopo l’occupazione, il governo provvisorio iracheno e l’esercito americano trasformarono di nuovo Abu Ghraib nella principale prigione della capitale. All’epoca la prigione era sostanzialmente divisa in due parti. Il governo provvisorio iracheno gestiva la struttura dove venivano tenuti in custodia i prigionieri già condannati da un tribunale. Soldati americani e contractor gestivano invece un’altra struttura dove venivano rinchiusi e interrogati sospetti e persone ritenute “interessanti”.
Le torture
Nel novembre del 2003 cominciarono a diffondersi le prime notizie sugli abusi compiuti nel carcere. L’agenzia di stampa Associated Press pubblicò un reportage in cui alcuni ex prigionieri raccontavano di essere stati umiliati, picchiati e trattati come “bestiame” dalle guardie della prigione. Associated Press scrisse anche che erano già in corso due azioni legali contro i militari americani: una per aver picchiato un prigioniero e un’altra connessa alla morte sospetta di uno dei carcerati. In un rapporto successivo si scoprì che già all’epoca l’esercito americano stava conducendo delle indagini sul 320° battaglione di polizia militare, l’unità incaricata della sorveglianza del carcere. Nel marzo 2004 l’esercito americano annunciò che 17 soldati erano stati sospesi e altri sei erano stati accusati di violenze nei confronti dei prigionieri. La stampa però si interessò poco del caso.
Le cose cambiarono quando 60 minutes mandò in onda la puntata del 28 aprile. Questa volta non c’erano solo generiche accuse di abusi nei confronti dei prigionieri: il racconto era accompagnato da una serie di immagini estremamente esplicite che raffiguravano le torture e gli abusi, scattate dagli stessi militari incaricati di sorvegliare la prigione. Nell’immagine diventata il simbolo delle torture, un uomo è costretto a rimanere in piedi su una scatola, con le braccia aperte e dei fili collegati alle dita. Come quasi tutti i prigionieri nelle altre foto, ha il volto coperto da un cappuccio. In altre fotografie i prigionieri sono costretti a restare nudi, gli uni sopra gli altri come in una specie di piramide umana. Oppure, sempre con il volto coperto, sono mostrati mentre gli vengono aizzati addosso dei cani o sono costretti a stare sdraiati mentre militari americani si siedono sopra di loro.
Una delle cose che turbarono di più l’opinione pubblica fu che le foto avevano quasi tutte un’aria goliardica. Nelle immagini i militari americani sorridono e mostrano il pollice verso davanti ai prigionieri nudi, come se quelle non fossero torture, ma una versione estrema dei riti di iniziazione delle confraternite universitarie (un paragone che venne effettivamente fatto da alcuni commentatori americani per minimizzare l’importanza degli episodi).
Quale fosse esattamente lo scopo di queste torture, e soprattutto delle fotografie, è ancora abbastanza incerto. In alcuni casi sembra che gli abusi e le umiliazioni siano stati compiuti senza uno scopo preciso e il fatto che fossero fotografati lascia intendere come la materia venisse trattata dagli stessi militari con una certa leggerezza. Alcuni dei militari coinvolti, però, hanno raccontato che i loro superiori incoraggiavano queste pratiche, poiché rendevano i prigionieri “più morbidi” per gli interrogatori (che venivano condotti da specialisti della CIA, dell’intelligence militare o dai contractor, non dai militari ritratti nelle foto).
I processi
In tutto undici militari americani hanno subito condanne di vario tipo per i fatti di Abu Ghraib. Il più alto in grado ad essere punito è stato il comandente della prigione, colonnello Thomas Pappas. La sua è stata extra-giudiziaria, cioè portata avanti dell’esercito e non da un tribunale. Pappas ha ricevuto una multa di ottomila dollari ed è stato cacciato dall’esercito. I sottufficiali e i soldati responsabili degli abusi, in particolare quelli ritratti nelle foto, hanno ricevuto condanne di vario tipo, tra cui anche il carcere (chi ha ricevutola sentenza più lunga ha passato sei anni in prigione prima di essere rilasciato con la condizionale).
Nessuno è mai stato condannato per le morti avvenute all’interno della prigione. Nessun contractor privato è mai stato penalmente processato, così come nessun agente della CIA o dell’intelligence militare. I vertici delle forze armate, compresi quelli che avrebbero incoraggiato i militari a praticare gli abusi per “ammorbidire i prigionieri”, non sono stati indagati. Una delle società di contractor che hanno lavorato nella prigione è stata condannata in una causa civile ad un risarcimento da 5,28 milioni di dollari nei confronti di 71 detenuti.
Altri processi continuano ad andare avanti, a dieci anni da quei fatti. In queste settimane la Corte Suprema sta discutendo un altro caso civile, quello di quattro iracheni che chiedono un risarcimento ad una società di contractor per gli abusi subiti ad Abu Ghraib. Il New York Times ha raccontato che il tribunale non solo ha respinto le loro richieste, ma li ha anche condannati al pagamento delle spese processuali. Gli iracheni si sono appellati contro la sentenza ed ora il caso dovrebbe essere giudicato dalla Corte Suprema. Se la corte non ribalterà la sentenza, scrive il New York Times: «Avremo creato un precedente terribile che impedirà ai tribunali americani di ascoltare casi che coinvolgono la tortura ed altri abusi accaduti fuori dal paese, ma che con gli Stati Uniti hanno forti legami».