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  • Giovedì 24 aprile 2014

Lo sciopero degli sherpa nepalesi

Dopo la valanga che ha ucciso 16 sherpa sull'Everest, tutto il business turistico è nei guai, non solo in Nepal

(AP Photo/Alpenglow Expeditions, Adrian Ballinger)
(AP Photo/Alpenglow Expeditions, Adrian Ballinger)

La mattina di venerdì 18 aprile una valanga ha causato la morte di 16 guide nepalesi nei pressi di un campo base sul monte Everest a circa 6000 metri di altezza, in Nepal. Le guide, tredici delle quali di etnia sherpa (uno dei gruppi nepalesi stanziati sull’Everest la cui occupazione principale, oltre alla pastorizia e all’agricoltura, è quella di portatori e guide) stavano lavorando per attrezzare il percorso per la scalata di alcuni alpinisti stranieri, prevista per maggio. Dopo l’incidente, che è stato uno dei più gravi avvenuti negli ultimi anni sull’Everest, circa 400 sherpa che vivono e lavorano sulla montagna hanno minacciato di entrare in sciopero e boicottare la stagione estiva se il governo nepalese non accetterà una serie di richieste per migliorare la loro sicurezza e la loro condizione lavorativa.

Associated Press riporta che «dozzine» di sherpa hanno già lasciato il campo base e che, di conseguenza, diversi scalatori stranieri hanno annullato la loro spedizione. International Mountain Guides, una delle più grandi agenzie che si occupa di viaggi sull’Everest, ha nel frattempo annunciato che intende annullare le spedizioni già organizzate. Oggi, giovedì 24 aprile, una serie di delegati del governo nepalese visiteranno il campo base per proseguire le trattative con gli sherpa, tentare di trovare un accordo e salvare la stagione estiva, che coinvolge imprese legate al turismo himalaiano in tutto il mondo.

Chi sono gli sherpa
Gli sherpa – parola che in tibetano significa “gente dell’est” – sono un gruppo etnico di circa 154mila persone che vive nel Nepal orientale, nella regione montuosa che confina col territorio cinese del Tibet. Inizialmente erano per la maggior parte mercanti e contadini e non avevano l’abitudine di scalare l’Everest, che chiamavano Chomolungma e che onoravano come “Dea madre della Terra”: solo nei primi anni del Novecento, quando le spedizioni alpinistiche divennero sempre più frequenti, la loro occupazione principale cominciò ad essere quella di guide e portatori. Le prime due persone che riuscirono a scalare l’Everest furono l’esploratore neozelandese Edmund Hillary e la sua guida sherpa Tenzing Norgay, nel 1953.

Gli sherpa sono fondamentali per l’economia locale: trasportano attrezzature e cibo e garantiscono assistenza agli alpinisti e ai turisti che ogni anno visitano l’Everest. Rasmus Nielsen, un biologo della University of California contattato da USA Today, ha spiegato che le persone appartenenti all’etnia sherpa sono anche geneticamente più preparate a lavorare in alta quota, a differenza di altri popoli che vivono in contesti simili, come le popolazioni andine del Sud America: «Nessuno sa con precisione perché, ma il loro corpo funziona piuttosto bene in alta quota, senza aumentare la produzione di globuli rossi», prevenendo in questo modo la possibilità di contrarre malattie a lungo termine dovute a una loro produzione eccessiva.

Cosa rischiano
Le guide assunte per accompagnare le spedizioni sull’Everest – e che non necessariamente sono di etnia sherpa, ma sono comunque originari della zona – si occupano per lo più dei lavori “di fatica” come portare i pesi per gli esploratori, montare le tende ma anche attrezzare i percorsi degli scalatori: concretamente, significa percorrerli per primi senza le misure di sicurezza di cui dispongono in un secondo momento gli scalatori che vengono accompagnati. Jon Krakauer, uno scrittore americano conosciuto per aver scritto il libro su cui si è basato il film Into the Wild, ha spiegato sul New Yorker che ancora oggi, nonostante il costante miglioramento dell’attrezzatura disponibile e una conoscenza più precisa delle condizioni meteo dell’Everest abbiano ridotto di molto il numero di morti (negli ultimi 18 anni sono morte “solo” 104 persone, una ogni 60 spedizioni, fra cui 33 sherpa), rimangono «diversi motivi per cui per uno sherpa i rischi sono molti di più».

Agli sherpa non viene fornita la stessa quantità di ossigeno che viene data [agli altri], sia perché è molto costoso da comprare e mantenere ad alta quota sia perché tendono ad adattarsi meglio in quota. Agli sherpa, inoltre, non viene mai prescritto il desametosone [un potente steroide che si usa per prevenire i rischi di edemi cerebrali o polmonari], poiché non dispongono di persone che glielo prescrivano nei propri villaggi. Infine – cosa più importante – sull’Everest gli sherpa si prendono carico del fardello più grosso, sia metaforicamente sia fisicamente: le principali agenzie turistiche – in maggioranza straniere – assegnano i lavori più pericolosi e faticosi ai loro dipendenti sherpa, mentre riducono al minimo i rischi per le loro guide e dipendenti occidentali, i cui zaini raramente contengono più di una bottiglia d’acqua, una macchina fotografica, un giubbotto in più e il proprio pasto.

Krakauer, che ha fatto parte di una spedizione che ha scalato l’Everest nel 1996, per chiarire i rischi di una guida sherpa cita un aneddoto riguardo la spedizione alla quale partecipò:

Negli ultimi anni, il notevole aumento di temperature avvenuto in Himalaya ha reso la cascata Khumbu [una cascata di ghiaccio a circa 5500 metri di altezza, compresa in un ghiacciaio e vicina a un campo base] più instabile che mai: non c’è modo di prevedere quando un pezzo di ghiaccio possa staccarsi. Nel 1996, feci quattro percorsi che passarono attraverso la cascata Khumbu: tre per farmi acclimatare a un’altitudine di circa 7300 metri in Aprile e uno necessario a farmi arrivare in cima e tornare giù. Durante ognuna delle otto volte in cui passai su quel coso fluido congelato, fui terrorizzato: questo nonostante impiegassi – anche con il mio zaino semivuoto – tre ore e passa durante l’ascesa e mezz’ora durante la discesa. Parallelamente, ciascuno sherpa che si occupava della mia spedizione era tenuto a fare qualcosa come trenta viaggi, spesso trasportando più di 35 chili di cose fra cibo e bombole di propano e ossigeno. […] Ancora oggi, capita che uno scalatore debba passare solo una volta dalla cascata, mentre uno sherpa ancora almeno venti volte.

Secondo un calcolo del magazine Outside Online citato dal Washington Post, fare lo sherpa espone alla morte sul lavoro più che fare il minatore o il soldato e che se gli sherpa avessero lavorato le stesse ore rispetto ai soldati americani in Iraq fra il 2003 e il 2007, ne sarebbero morti più di 4000, a fronte dei 335 soldati americani uccisi.

I problemi economici
Attualmente, secondo il New York Times, uno sherpa può guadagnare per due o tre mesi di lavoro fra i 3000 e i 5000 dollari, esclusi i bonus nel caso di raggiungimento della cima. Si tratta di una cifra notevole, in confronto al reddito medio annuale di un lavoratore nepalese (le stime sono varie, ma sono tutte sotto i 1000 dollari). Una guida straniera, che gestisce e organizza la spedizione, secondo il National Geographic guadagna però fra i 50mila e i 100mila dollari a spedizione, ben più di dieci volte lo stipendio di uno sherpa. Guy Cotter, il capo dell’agenzia di esplorazioni Adventure Consultants, spiega però che «esiste un certo bilanciamento, se si guarda a cosa uno sherpa può comprare con quei soldi nel proprio villaggio – una casa, per esempio – comparato a cosa può comprare una guida [straniera] in Nuova Zelanda e in Svizzera con il suo stipendio». Secondo Cotter, inoltre, rispetto ai decenni scorsi gli sherpa hanno ottenuto condizioni di lavoro migliori e oggi possono decidere «quale tragitto percorrere, dove mettere corde e scale, quale quantità di carico portare e quando fermarsi per riposare».

Il problema, in realtà, non sembra essere la cifra che gli sherpa percepiscono, ma gli eventuali risarcimenti in caso di incidenti. I capi sherpa hanno richiesto al governo – fra le altre cose – un migliaio di dollari a famiglia per coprire le spese dei funerali dei 16 sherpa morti venerdì (il governo ne ha offerti circa 400), diecimila dollari di risarcimento per ogni sherpa infortunato (ora le spese ospedaliere sono pagate dalle aziende che producono le attrezzature), l’aumento a circa 21mila dollari del risarcimento assicurativo per le famiglie degli sherpa morti sul lavoro (ora è di 10.300 dollari e fino all’anno scorso di circa 5mila dollari) e soprattutto l’istituzione di un fondo governativo per gli sherpa infortunati finanziato dal 30 per cento delle tasse sulle concessioni per scalare l’Everest. Per uno scalatore, l’ascesa all’Everest può costare in tutto dai 50mila ai 90mila dollari, molti dei quali vengono pagati in anticipo.

Il governo del Nepal, che da quest’anno ha abbassato le tariffe per concedere i permessi per scalare l’Everest (da circa 25mila a circa 11mila dollari a persona) ha accettato fra le altre cose di creare un fondo per gli sherpa infortunati con le tasse sulle concessioni – che è stato stimato fruttino in tutto circa 3,5 milioni di dollari l’anno – ma ha detto che è disposto a finanziarlo con circa il 5 per cento delle entrare provenienti dalle concessioni. Secondo il National Geographic, molti di quei soldi ogni anno «spariscono o a causa della poca trasparenza della burocrazia nepalese oppure finiscono nelle tasche dei burocrati governativi».

Nel caso le trattative con il governo non andassero a buon fine e tutti gli sherpa presenti al campo base decidessero di abbandonare il proprio lavoro, le agenzie che organizzano le spedizioni sull’Everest sarebbero costrette ad annullare la stagione estiva e a subire, quindi, un ingente danno economico. La maggior parte dei tentativi di raggiungere la cima dell’Everest avviene a metà maggio, quando per un breve periodo di tempo, le condizioni meteo sono più favorevoli per l’impresa.