La rete anti-suicidi sul Golden Gate
Se ne parla da quarant'anni – il fenomeno ha proporzioni rilevanti – ma stavolta l'ente che gestisce il ponte sembra essersi convinto a costruirla davvero
Il Golden Gate Bridge è una delle attrazioni più famose di San Francisco, in California, con le sue due torri alte oltre duecento metri, il suo colore arancione e gli innumerevoli film che inquadrano il ponte per dare subito l’idea di dove ci si trovi. Per quasi trent’anni, dal 1937 al 1964, è stato anche il ponte a sospensione più lungo del mondo; ogni anno è visitato da milioni di turisti ma ha un’altra caratteristica che lo ha reso celebre: è un luogo in cui avvengono moltissimi suicidi.
Nel corso del 2013 si sono uccise 46 persone, il numero probabilmente più alto degli ultimi decenni, circa uno alla settimana. Altre 118 persone sono state fermate da coloro che lavorano sul ponte. L’impalcato del ponte è a oltre settanta metri di altezza sulle acque della baia e il parapetto è alto circa un metro e mezzo, relativamente basso: a fianco del parapetto, una rarità in un ponte di quelle dimensioni, c’è un camminatoio pedonale – una soluzione architettonica che uno psichiatra ha definito «come avere una pistola carica sul tavolo della cucina».
Da molto tempo si parla di aggiungere una rete che impedisca i suicidi, ma finora l’ente che gestisce il ponte (il Golden Gate Bridge Highway & Transportation District) ne ha sempre impedito la costruzione, «riflettendo» – scrive il New York Times con involontaria ironia – «la filosofia del “vivi e lascia vivere” che anima questa città».
Il New York Times aggiunge però che qualcosa cambierà presto: intorno al prossimo maggio ci dovrebbe essere una votazione del consiglio di amministrazione della società per permettere l’utilizzo di fondi statali e federali, insieme a parte dei ricavi che vengono dai pedaggi automobilistici e dei traghetti, per la costruzione di una rete anti-suicidi. Il piano che verrà votato a breve, scrive il New York Times, prevede un sistema di reti di acciaio posizionato circa cinque metri sotto il camminamento pedonale, che avrà un costo complessivo di 66 milioni di dollari (47 milioni di euro).
Della rete e del problema dei suicidi dal Golden Gate si parla da molto tempo – il primo suicidio fu alla fine dell’estate del 1937, tre mesi dopo l’apertura – e ha contribuito ad alimentare la voce che il Golden Gate Bridge sia il luogo dove avvengono più suicidi nel mondo. Gli abitanti della città hanno un rapporto molto strano e ambivalente con questa caratteristica del ponte: da un lato, nella città più liberal d’America, chi ha fatto campagna per la barriera ha sempre avuto vita dura; i mezzi di informazione locali si occuparono molto del “conto alla rovescia” sia quando il numero dei suicidi si avvicinò ai 500, nel 1973, sia quando la cifra andò verso i 1000 nel 1995 (la situazione diventò così ingestibile che la California Highway Patrol interruppe il conteggio ufficiale a 997; negli ultimi anni, i media locali hanno cominciato a dare molto meno spazio ai suicidi dal ponte, anche per ridurre l’effetto di emulazione).
Dall’altro, fin dagli anni Cinquanta si è parlato di progettare una rete, anche se le iniziative più organizzate sul tema furono negli anni Settanta (il primo studio di fattibilità sulla rete è del 1972). Più di recente, nel 2006 uscì The Bridge, un documentario di Eric Steel che divenne molto conosciuto e causò molte polemiche: il regista aveva filmato il ponte per diverso tempo da varie angolazioni e aveva registrato molti suicidi, che mostrò nel documentario insieme ad interviste con alcuni parenti e amici delle persone coinvolte; l’ente che gestisce il ponte accusò il regista di non aver dichiarato subito il motivo per cui intendeva fare delle riprese.
Ci sono diversi fattori recenti che hanno fatto cambiare idea agli amministratori del ponte: il numero dei suicidi in crescita, sia negli Stati Uniti che dal Golden Gate Bridge, l’abbassamento dell’età media dei suicidi e infine il parere di diversi esperti secondo cui una rete è la soluzione giusta non solo per ridurre i suicidi dal ponte, ma anche per prevenire gesti simili più in generale. L’argomento che, se non lo faranno dal ponte, le persone troveranno un altro sistema, infatti, sembra essere smentito da alcune ricerche e da pareri autorevoli, che dimostrano che l’impulso suicida è in molti casi momentaneo.
Molti sostenitori dell’utilità della barriera anti-suicidi citano uno studio del 1978 di Richard H. Seiden, un professore dell’università di Berkeley, che seguì 515 persone a cui venne impedito di suicidarsi gettandosi dal ponte tra il 1937 e il 1971. Il 94 per cento di loro era ancora vivo o era morto per cause naturali. Seiden concludeva che «il risultato conferma le precedenti osservazioni secondo cui il comportamento suicida è per natura dipendente dalle crisi e acuto», e cioè che riuscendo a far superare il periodo più difficile a chi manifesta tendenze suicide è molto facile che non si ucciderà più tardi.