I tagli agli stipendi dei manager pubblici
Quanti sono e da dove arrivano i tagli agli stipendi degli amministratori della società pubbliche, che scatteranno martedì
Martedì 1 aprile entrerà in vigore un decreto ministeriale che metterà un limite agli stipendi dei manager di alcune società pubbliche. Degli stipendi dei manager si è parlato molto nelle ultime settimane: in particolare di quello di Mauro Moretti, l’amministratore delegato di Ferrovie dello Stato, che aveva preso posizione pubblicamente contro il nuovo provvedimento. Moretti, tuttavia, non rientra tra i manager interessati dal taglio (ma il suo successore avrà lo stipendio ridotto di un quarto – ci torneremo tra poco).
Cosa cambia
Da martedì 1 aprile sarà imposto un tetto allo stipendio degli amministratori delle società controllate dal ministero del Tesoro. Non tutte, però: soltanto quelle che non sono quotate in borsa e che non emettono obbligazioni su mercati quotati (questa ultima precisazione esclude, sostanzialmente, Cassa Depositi e Prestiti, Ferrovie dello Stato e Poste Italiane).
Il taglio funziona in base a una divisione in tre fasce delle società. Come si legge nella nota del ministero dell’Economia che illustra il decreto:
Nella prima fascia si collocano le società con un valore della produzione maggiore o uguale ad un miliardo di euro, con investimenti maggiori o uguali a 500 milioni di euro e un numero di dipendenti pari a 5.000 unità o più. Alla seconda fascia appartengono le società con valore della produzione maggiore o uguale a 100 milioni di euro, investimenti pari ad almeno un milione e con almeno 500 dipendenti. Le società che presentano parametri inferiori appartengono alla terza fascia.
Il provvedimento prevede in sostanza di fissare un massimo allo stipendio di presidente e amministratori delegati (AD). Questo massimo è fissato nell’equivalente dello stipendio del primo presidente della Corte di Cassazione, che guadagna 311.658,53 euro lordi l’anno. Gli amministratori delegati delle società di prima fascia potranno guadagnare quanto il primo presidente, quelli di seconda fino all’80 per cento e quelli di terza fino al 50 per cento. I presidenti che hanno ricevuto deleghe (e che quindi si occupano della gestione e non sono solo figure simboliche, come i presidenti senza deleghe) hanno diritto al 30 per cento della remunerazione dell’amministratore delegato.
Per chi cambia qualcosa?
Le società di prima fascia sono RAI, ANAS e INVIMIT, la società di gestione del risparmio che ha il compito di mettere in vendita gli immobili pubblici. AD e presidenti di queste società si sono già adeguati lo scorso anno ai criteri del decreto. Alcuni hanno avuto lo stipendio più che dimezzato: l’AD dell’ANAS, Pietro Ciucci è passato dai 750 mila euro l’anno del 2012 ai 307 mila del 2013 (qui potete trovare un elenco di tutte le retribuzioni dei manager delle partecipate fino al 2012). La principale eccezione è Anna Maria Tarantola, che come presidente della RAI guadagna 366 mila euro e dovrebbe avere lo stipendio ridotto a circa 90 mila euro. Il direttore della RAI, Luigi Gubitosi, che guadagna circa 650 mila euro, non subirà una riduzione di stipendio in quanto dipendente della RAI e non membro del Consiglio di amministrazione (in altre parole è un dirigente – ci torneremo dopo).
Ci saranno molti più tagli nelle società di seconda e terza fascia. Ad esempio: Andrea Monorchio, presidente della CONSAP, dovrebbe scendere da 219 a 75 mila euro, mentre l’amministratore delegato della stessa società, Mauro Masi, scenderebbe da 456 a 250 mila euro l’anno. Maurizio Prato, presidente e AD della Zecca, dovrebbe scendere da 601 mila a 250 mila euro.
Di chi è il merito?
Nessuno ha ancora fatto conti di quanto sarà risparmiato da questo provvedimento, anche perché – come abbiamo visto – diverse società si sono già adeguate nel corso del 2013. Difficilmente, però, la cifra potrà superare alcuni milioni di euro (per avere un’idea delle proporzioni bisogna ricordare che la spesa pubblica ogni anno è di circa 700 miliardi di euro). In ogni caso, il merito di questo taglio non è del governo Renzi e soltanto in parte del governo Letta.
I tagli agli stipendi dei dirigenti, infatti, vennero stabiliti con il decreto legge n. 95/2012, il cosiddetto decreto della spending review del governo di Mario Monti. Questo rimandava a un successivo decreto del ministero dell’Economia la divisione in fasce delle varie società partecipate, e il decreto ministeriale è stato approvato il 24 dicembre del 2013 dal ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, durante il governo Letta, e pubblicato nella Gazzetta ufficiale il 17 marzo 2014.
E gli altri manager?
In questi giorni c’è stata molta confusione su cosa succederà agli stipendi delle altre società partecipate dal ministero dell’Economia e cioè quelle quotate in borsa (ENI, ENEL e Finmeccanica) e quelle che emettono obbligazioni su mercati quotati (come abbiamo visto: Cassa Depositi e Prestiti, Ferrovie dello Stato e Poste Italiane). Per queste società, il decreto ministeriale che entrerà in vigore martedì primo aprile non cambierà nulla.
La remunerazione dei manager di queste società, però, è già stata modificata da un altro provvedimento. Si tratta del decreto legge 69/2013, il cosiddetto “decreto del fare”, approvato dal governo Letta nell’agosto del 2013, con il quale veniva modificato il decreto legge 201/2011 del governo Monti. Con questo decreto venne stabilito che a partire dalla successiva assemblea degli azionisti – successiva all’agosto 2013 – le società dell’elenco del paragrafo precedente dovranno ridurre lo stipendio dei nuovi amministratori del 25 per cento rispetto a quello degli amministratori uscenti.
Anche qui, però, c’è da fare una differenza. Per le società non quotate (Cassa Depositi e Prestiti, Ferrovie dello Stato e Poste Italiane) il taglio allo stipendio sarà automatico: i successori degli AD di queste società quindi – quelli di CDP e Poste Italiane saranno rinnovati nei prossimi mesi – avranno automaticamente una riduzione dello stipendio del 25 per cento. Per le società quotate, invece, il governo non ha il potere di costringere gli amministratori a tagliarsi lo stipendio. Il taglio, quindi, diventa una decisione dell’assemblea degli azionisti, dove il rappresentante del governo è obbligato a votare a favore. In ENEL e Finmeccanica, dove il ministero dell’Economia controlla quasi un terzo delle azioni, è quasi certo che il taglio passi. In ENI, dove il ministero controlla circa il 4 per cento delle azioni, dipenderà invece sostanzialmente dalla decisione di Cassa Depositi e Prestiti, che controlla circa il 25 per cento della società.
Cosa c’entrano i dirigenti?
Un’altra sostanziale confusione in questi giorni è stata fatta tra gli stipendi degli amministratori e quelli dei dirigenti. I tagli che scatteranno ad aprile e quelli previsti dal “decreto del fare” riguardano solo gli amministratori, cioè le cariche elette dai consigli d’amministrazione: presidenti e amministratori delegati. I dirigenti, che invece sono dipendenti delle società (come ad esempio il direttore generale della RAI, Luigi Gubitosi) non vengono toccati da questi decreti.
A questo proposito è utile ricordare che gran parte delle classifiche in cui vengono paragonati gli stipendi pubblici italiani a quelli del resto d’Europa riguardano proprio i dirigenti e non gli amministratori delle grandi società partecipate. Ad esempio, in un articolo di gennaio su LaVoce.info che ha avuto molto successo, l’economista Roberto Perotti paragonava gli stipendi dei dirigenti pubblici (delle amministrazioni locali e dei ministeri, quindi) a quelli di altri paesi europei e rilevava che questi ultimi erano considerevolmente più bassi. Per quanto riguarda i compensi degli amministratori, invece, lo stesso Perotti ha scritto in un articolo successivo che fare confronti internazionali non è affatto facile.