Il paradosso della politica estera di Obama
Obama sta dando agli americani la timida politica estera che vogliono, eppure i suoi numeri nei sondaggi sono deludenti: perché?
di Robert Kagan
Che piaccia o meno la condotta del presidente Obama in politica estera, l’ipotesi comune è che l’amministrazione Obama stia per lo meno dando agli americani la politica estera che vogliono. La maggior parte di loro si è opposta a qualsiasi intervento di rilievo degli Stati Uniti in Siria, ha chiesto un minore coinvolgimento degli Stati Uniti in Medio Oriente in generale, è impaziente di vedere una recessione dall’“orientamento alla guerra” e vorrebbe concentrarsi sugli investimenti e il nation-building a casa. Finora il presidente ha generalmente soddisfatto e incoraggiato questo orientamento pubblico, quindi si presuppone che abbia quantomeno ottenuto un certo consenso.
E invece, sorprendentemente, non è così. Gli indici di gradimento del presidente Obama in materia di politica estera sono scarsi. Secondo l’ultimo sondaggio di CBS News, soltanto il 36 per cento degli americani approva quello che Obama sta facendo in politica estera, mentre il 49 per cento disapprova. E questo è in linea con i sondaggi dell’anno scorso. Un altro sondaggio di novembre scorso, del Pew Research Center [un gruppo indipendente di esperti, con sede a Washington D.C.], mostrava un’approvazione della politica estera al 34 per cento, contro un 56 per cento di disapprovazione.
Il sondaggio di CBS ha mostrato una più alta percentuale di americani che approvano le politiche economiche di Obama (39 per cento) e quelle in materia di sanità (41 per cento). Al momento la politica estera è la cosa più impopolare dell’amministrazione Obama. E perché non si creda che in politica estera è sempre così, basti ricordare che gli indici di gradimento della politica estera di Bill Clinton, a questo stesso punto del suo secondo mandato, erano piuttosto buoni – il 57 per cento degli americani la approvava, il 34 per cento no – e quelli di Ronald Reagan superavano il 50 per cento, sempre a questo stesso punto. Questo lascia Obama in compagnia di George W. Bush – non quello del primo mandato, i cui indici di gradimento erano costantemente alti, ma quello del secondo mandato, impantanato nella peggior fase della guerra in Iraq.
Peraltro i numeri di Obama in materia di politica estera non sono condizionati dagli indici di gradimento generali riguardo il suo lavoro. L’opinione pubblica è in grado di fare delle distinzioni. Quando gli indici di gradimento complessivi di George H.W. Bush stavano precipitando nell’ultimo anno della sua presidenza, quelli relativi alle politiche economiche guidavano il trend negativo, ma quelli relativi alla sua politica estera rimasero al di sopra del 50 per cento.
E così torniamo al paradosso: il presidente Obama sta presumibilmente conducendo una politica estera in accordo con l’opinione pubblica, ma ciononostante impopolare. Attendo ulteriori approfondimenti da parte dei sondaggisti, ma fino a quel momento propongo questa ipotesi.
La maggioranza degli americani potrà non volere l’intervento in Siria, non voler fare nulla di serio riguardo l’Iran né preoccuparsi di cosa accade in Afghanistan, Iraq, Egitto o Ucraina. Potrà anche preferire una politica estera minimalista, in cui gli Stati Uniti non giocano più il ruolo di guida nel mondo e lasciano agli altri il compito di sbrigarsela da soli coi loro guai. Potrà desiderare una politica americana più strettamente “egoista”. Per farla breve, gli americani potranno anche volere quello che Obama gli ha dato finora. Ma non ne vanno fieri, e non gli sono grati per il fatto che gli sta dando quello che loro vogliono.
Per molti decenni gli americani hanno pensato al loro paese come a un paese speciale. Erano quelli che si erano autoproclamati “leader del mondo libero”, la “nazione indispensabile”, la prima superpotenza. Era un motivo di orgoglio. Ora analisti e pronosticatori gli stanno dicendo che quei giorni sono finiti, che è tempo per gli Stati Uniti di inseguire obiettivi più modesti, commisurati con la sua potenza in declino. E hanno un presidente impegnato in questo, che ha mostrato poca nostalgia per i giorni della leadership degli Stati Uniti nel mondo, e che talvolta sembra pensarla come se il suo lavoro sia affrontare la realtà del declino.
Forse è questo, quello che vogliono da lui, ma non è qualcosa per cui lo ringrazieranno. Seguire un leader nel trionfo ispira lealtà, gratitudine e affetto; seguirlo nella ritirata no, non ispira questi sentimenti.
Non sempre i presidenti sono premiati per far quello che il popolo dice di volere. A volte vengono premiati esattamente se fanno l’opposto. Bill Clinton ottenne i più alti indici di gradimento dopo l’intervento in Bosnia e Kosovo, sebbene la maggior parte degli americani si fosse opposta a entrambi gli interventi prima che venissero attuati. Chi può dire cosa avrebbe pensato di Obama l’opinione pubblica se, nello scorso agosto, fosse andato fino in fondo nel suo attacco pianificato in Siria? Come disse l’ex segretario di Stato Henry L. Stimson: finché un presidente non conduce, non può aspettarsi che il popolo “prenda volontariamente l’iniziativa di fargli sapere se lo seguirà oppure no, quando prenderà il comando”. Il suo discorso in Europa, mercoledì, dimostra che Obama potrebbe comprendere che è arrivato il momento di cedere la leadership. Che lo faccia o no nel periodo di mandato che gli rimane, forse ai suoi aspiranti successori conviene prendere nota.
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