Il mausoleo di Berlusconi
La storia del monumento funebre ad Arcore, raccontata da Enrico Deaglio nel suo nuovo libro sul "ventennio"
È uscito mercoledì per Feltrinelli il libro Indagine sul ventennio di Enrico Deaglio, giornalista, conduttore televisivo e scrittore. Deaglio lo definisce “l’ennesimo sfogo di una persona anziana, prevenuta e abbastanza amareggiata“, e dice di averlo scritto per descrivere cosa è stato il ventennio berlusconiano, dalla “discesa in campo” di Berlusconi nel 1994 ad oggi. Il libro alterna il racconto di Deaglio a dodici interviste a testimoni molto diversi tra loro – Silvia Ballestra, Ivan Carozzi, Mario Deaglio, Andrea Jacchia, Gad Lerner, Fausto Melluso, Peppino Ortoleva, Marcelle Padovani, Romano Prodi, Massimo Recalcati, Roberto Saviano e Adriano Sofri – ognuno dei quali racconta le sue impressioni su questi venti anni dal suo particolare punto di osservazione.
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Alla fine degli anni ottanta, Pietro Cascella cominciò ad andare sempre più frequentemente in Brianza.
Cascella, all’epoca, era il più noto tra gli scultori “pubblici” italiani, il nostro Henry Moore. Cresciuto in una famiglia pescarese di grandi pittori, scultori e ceramisti, non alieno da una vena surreale che condivideva con l’amico Sebastián Matta, era diventato, con il tempo, monumentale e mitologico nell’uso della pietra e del granito. Sua era l’opera posta all’ingresso del campo di sterminio di Auschwitz, una straziante catastrofe, immagine cosmica dell’arrivo dei deportati in treno, lunga più di cinquanta metri, in masse grandiose di pietra, disperate, cadenti, levigate, corrugate, poste accanto al binario che portava all’ingresso del campo. Suo l’omaggio all’Europa a Strasburgo, l’Arco della Pace a Tel Aviv.
Dalla fine degli anni settanta viveva nel castello della Verrucola di Fivizzano, in Lunigiana, un’imponente costruzione medievale di proprietà del Comune, che aveva riportato all’onor del mondo, e nella quale aveva ricavato il suo studio.
Forse qualche attento lettore avrà alzato le sopracciglia leggendo il nome Fivizzano, e ha proprio ragione: fu precisamente Pietro Cascella che parlò a Silvio Berlusconi di tale Bondi Sandro, il sindaco di Fivizzano che gli aveva dato in comodato il castello della Verrucola.
Gli raccontò la sua amara storia: comunista, aveva perso il comune, e il partito non l’aveva più sostenuto. L’unica possibilità che gli avevano offerto era stata quella di vendere cartelle assicurative dell’Unipol nella Lunigiana, tra Aulla e Pontremoli. Era una brava persona, gli disse Cascella. Non aveva il Cavaliere un lavoro da dargli?
E fu così che Sandro Bondi da Fivizzano andò ad Arcore, dove Berlusconi lo assunse come segretario addetto alla lettura dei giornali e alla preparazione di una rassegna stampa quotidiana. Bondi si trasferì nella grande villa, dove i genitori, a volte, venivano a trovarlo. Poi divenne deputato, coordinatore di Forza Italia e ministro della Cultura. Difese strenuamente Silvio nel momento della sua caduta. Alla morte di sua madre, scrisse questa poesia:
A Rosa Bossi in Berlusconi
Mani dello spirito
Anima trasfusa.
Abbraccio d’amore
Madre di Dio
Ma torniamo a Pietro Cascella e ai suoi viaggi in Brianza. Il fatto è che lo scultore, che pure aveva uno spiccato senso della storia, delle proporzioni e dell’umorismo, aveva accettato la committenza più grottesca della sua carriera. Si era impegnato a realizzare un mausoleo monumentale per la gloria di un selfmade man milanese poco più che quarantenne, diventato improvvisamente popolarissimo come costruttore edile, proprietario di tre canali televisivi, presidente del Milan, editore, mecenate delle arti, del teatro, dello sport.
Ora, questa persona, che era scesa in elicottero sull’Arena di Milano con il sottofondo della Cavalcata delle Valchirie per stringere la mano ai giocatori del Milan schierati, che aveva costruito una cittadina satellite alla periferia di Milano e che aveva comprato per sé la più bella villa della Brianza, chiedeva all’Henry Moore italiano di scavare nel parco secolare un monumento spropositato a gloria della sua dinastia. Lui la chiamava la cappella gentilizia della “gens berlusconiana”, come le stirpi patrizie dell’antica Roma, e aveva ben chiare le dimensioni dell’opera. Non doveva essere quello che i milanesi chiamano “’l tumbùn”, la glorificazione in marmo dei soldi fatti in una sola generazione; no, doveva essere faraonica, nel vero senso della parola; doveva avere come modello la tomba egizia di Tutankhamon, quella che venne scoperta con clamore mondiale nel 1922, con il defunto intatto dopo oltre tremila anni.
Cascella ne parlò, quasi divertito, in un’intervista per un film su Berlusconi, nel 2006. Il committente, disse, gli aveva raccontato che, con la morte di suo padre, era giunto per lui il tempo di pensare alla storia, alla sua famiglia e quindi voleva un monumento degno. “Ma non farmi croci, falci, quelle cose lì,” ricordava Cascella. Non voleva un monumento religioso e men che meno cattolico; voleva una sorta di dimora sotterranea cui si arrivasse attraverso un’imponente scalinata, con un grande portone di ferro e una tomba centrale, posta in mezzo a una sala, e poi – e questa era la novità – un “dormitorium” con trentasei loculi.
Certo, pazzie funerarie gli scultori ne vedono parecchie. E non tutte finiscono bene. Non distante da Fivizzano, alla Henraux di Serravezza (Lu) sono ancora conservati i bozzetti per il più grande mausoleo del mondo commissionato da Juan Domingo Perón per la moglie Evita, e bloccato dal colpo di stato del 1953. Più a sud, sulle colline di Livorno, sepolte sotto le erbacce, troneggiano ancora le rovine del mausoleo fatto costruire per il gerarca Costanzo Ciano (uno degli autori della beffa di Buccari), il cui figlio Galeazzo si era addirittura imparentato con il Duce. Era il 1939, i suoi funerali si erano svolti, secondo la cronaca dell’Eiar, “tra due ali ininterrotte di popolo che virilmente lo rimpiangono, sotto una pioggia di fiori, tripudio degli umili”; il figlio (che non prevedeva di finire fucilato a Verona cinque anni dopo per ordine del suocero) provvide alla costruzione del mito. Il progetto prevedeva, sopra un trionfo di cupole e archi, un faro alto ventotto metri, sul quale sarebbe dovuta svettare la statua (nove metri) del Ciano senior medesimo. Ma tutto finì con la guerra. I tedeschi in ritirata distrussero a cannonate il faro e la statua adesso giace, in tre pezzi, in un magazzino dell’isola della Maddalena. Più fortuna aveva avuto il mausoleo pensato per sé da Gabriele d’Annunzio, nel famoso Vittoriale. Il suo sarcofago stagliato contro il cielo attorniato dalle arche dei legionari di Fiume.
Ma Cascella rimase ancora più stupito quando il committente gli diede le linee direttive dell’opera: una sala centrale con in mezzo una tomba in marmo rosa, e altre quattro allineate alle pareti, e poi trentasei loculi in un locale separato. Era chiaro che la tomba al centro non era per il capostipite della “gens”, Luigi, ma per Silvio. Il committente volle poi fregi di ganci alle pareti a raffigurare il legame dell’amicizia, bassorilievi con frutta, cibo e un telefono portatile, rose a cinque petali di travertino rosso sulla tomba principale e un potentissimo motore Ruggerini a riscaldare e illuminare tutto l’ipogeo. In alto lasciò sbizzarrire l’artista, che innalzò al cielo dodici colonne sovrastate da sfere, mezze sfere, piramidi, cubi, figure che ricordano Guernica di Picasso, e un’imperdibile squadretta massonica. Il tutto per cento tonnellate di pietra e tre anni di lavoro, per un’opera chiamata Volta celeste.
Richiesto di alcuni chiarimenti ulteriori, Cascella sorrise, ricordando che gli scultori pubblici sono come dei sarti, seguono le indicazioni del cliente e quello era esattamente ciò che il suo cliente voleva. E richiesto di qualche anticipazione su chi avrebbe avuto l’onore di essere seppellito nel “dormitorium”, vicino al Capo, o al padre del Capo, Cascella finse di inalberarsi e, con un sorriso, rispose: “Io faccio lo scultore, non il becchino!”.
Il padrone della villa amava accompagnare gli ospiti nel suo mausoleo, lasciando balenare la possibilità di una sepoltura nella grande casa sotterranea. “Vicino al Capo”, come se dicesse “vista mare”, ai tempi in cui vendeva villette sulla parola. Vendeva dei “futures”, delle quote. E tutto il gioco era così grottesco, ma vero: i posti accanto al Capo riservati a Previti, Dell’Utri, Confalonieri; gli aspiranti come Emilio Fede, coloro che rifiutarono (“Domine, non sum dignus”), come Indro Montanelli.
Visto quello che poi successe dopo, nella villa e nel paese, la domanda è legittima. Aveva già qualche rotella fuori posto a quarant’anni Silvio Berlusconi?
(C) Giangiacomo Feltrinelli editore Milano