Ma le sanzioni funzionano?
La risposta migliore è "dipende". La crisi in Ucraina ha riaperto un dibattito ricco di precedenti: qual è il modo migliore per applicarle e quali sono le controindicazioni?
di Elena Zacchetti – @elenazacchetti
La crisi internazionale che si è sviluppata attorno all’annessione della Crimea alla Russia è arrivata a un punto di conflittualità intermedio: i colloqui per risolvere diplomaticamente la questione sono falliti, mentre l’intervento militare occidentale rimane ancora un’ipotesi molto lontana. Circa una settimana fa, però, Stati Uniti e Unione Europea hanno adottato delle sanzioni internazionali contro diverse persone appartenenti al mondo politico ed economico russo, che secondo alcuni osservatori sono le più dure imposte alla Russia dalla fine della Guerra fredda: specialmente quelle americane hanno colpito la cerchia ristretta degli alleati del presidente russo Vladimir Putin, indicato dall’Occidente come il principale responsabile della crisi in Crimea.
I giornalisti e gli esperti si sono divisi nel giudicare l’efficacia delle sanzioni, tornando a discutere sui molti punti che da anni sono al centro del dibattito internazionale su questo tema. Fino a oggi le sanzioni sono state uno dei pochi strumenti che la comunità internazionale ha saputo trovare per fare pressione su un altro governo e costringerlo a mettere fine a una guerra, a fermare un programma di sviluppo di armi vietate, a imporre il rispetto dei diritti umani, o a danneggiare un’élite politica ed economica che si è resa responsabile di atti riconosciuti come illeciti nel diritto internazionale. Sull’utilità e sull’efficacia delle sanzioni rimangono però ancora diversi dubbi: negli ultimi vent’anni gli stati hanno cominciato ad applicarle in maniera diversa, per cercare di limitarne le controindicazioni – tra le altre, la violazione di diritti umani – e intensificarne gli effetti. Ma i risultati non sono sempre stati facili da vedere, e spesso le sanzioni sono sembrate strumenti insufficienti se confrontate con i loro obiettivi.
Cosa sono e chi può adottare le sanzioni
Secondo Jeremy Greenstock, ambasciatore britannico alle Nazioni Unite tra il 1998 e il 2003, la ragione fondamentale del frequente uso delle sanzioni è «che non c’è nient’altro tra le parole e l’azione militare, se vuoi fare pressione su un governo». Il regime delle sanzioni previsto dalle Nazioni Unite è stato pensato proprio per evitare che controversie tra Stati si risolvano con l’uso della forza (per l’ONU ci sono solo due casi in cui uno Stato può fare la guerra: in caso di aggressione – quindi per reagire a un attacco diretto esterno – e se lo decide il Consiglio di Sicurezza. Contrariamente a quanto si pensa spesso, tra queste opzioni non c’è la “guerra preventiva” né la “guerra umanitaria”).
Nella pratica le sanzioni possono essere decise dalle Nazioni Unite – tramite una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, anche se poi l’applicazione è rimandata ai singoli Stati – dai singoli paesi e dell’Unione Europea. Nella crisi ucraina, per esempio, le sanzioni contro la Russia non sono state approvate dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU: sarebbe servito anche il voto favorevole del governo russo, perché la Russia ha il potere di veto e può bloccare quando vuole le risoluzioni che vanno contro i suoi interessi (e non si è mai visto uno Stato che vota per farsi sanzionare dagli altri). Le sanzioni sono state approvate invece dall’Unione Europea, i cui membri hanno votato all’unanimità, e dagli altri paesi del G7, come Stati Uniti, Canada e Giappone.
Le sanzioni che non prevedono l’uso della forza possono essere di tipi diversi: diplomatiche (per esempio l’interruzione dei rapporti diplomatici); economiche (normalmente si tratta di limitazioni commerciali su alcuni settori “strategici”, come la vendita di armi o di petrolio, ma in passato hanno colpito intere economie); sportive (cioè il boicottaggio di grandi eventi internazionali come le Olimpiadi). C’è poi un’ulteriore divisione trasversale tra sanzioni “generali” e sanzioni “mirate”. Le seconde, che vengono usate più frequentemente da almeno vent’anni, a differenza delle prime non colpiscono in maniera indiscriminata: possono essere sanzioni mirate contro individui (per esempio congelare i loro beni e i loro conti all’estero), contro specifici settori economici, oppure contro singole regioni di un paese. Tutte le sanzioni comunque devono rispettare due obblighi: non possono violare i diritti umani e non possono andare contro le norme imperative del diritto internazionale, quelle non derogabili in nessun caso, nemmeno dai trattati internazionali. Si tratta per esempio del diritto di autodeterminazione dei popoli, del divieto di aggressione e della violazione dei diritti umani fondamentali (genocidio, schiavitù, tortura, apartheid).
Le sanzioni funzionano? Non sempre da sole
Secondo Adam Roberts, professore britannico dell’Università di Harvard e uno dei più importanti studiosi delle relazioni internazionali, ci sono pochi casi in cui si può dire che le sanzioni abbiano effettivamente avuto successo, anche perché spesso sono state accompagnate da altri fattori che ne hanno influenzato l’efficacia. In Rhodesia, per esempio, furono imposte sanzioni economiche molto dure dal 1965 al 1979, negli anni di governo della minoranza bianca, che si affiancarono alla guerriglia interna anti-governativa molto violenta portata avanti dai militanti marxisti dello ZANU (dell’attuale presidente Robert Mugabe) e dello ZAPU (allora finanziati dall’Unione Sovietica). Successivi studi [pdf] mostrarono però come le sanzioni sulla Rhodesia ebbero in realtà effetti molto limitati e non furono centrali nel raggiungimento dell’indipendenza dello Zimbabwe e dell’esclusione dei bianchi dal potere (anzi, furono considerate anche “controproducenti”): influirono molto di più la guerriglia armata e le pressioni degli stati confinanti.
Un altro caso di questo tipo sono le sanzioni imposte dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU contro l’Iraq a partire dal 6 agosto 1990, quattro giorni dopo l’invasione irachena del Kuwait. L’ONU decise per un embargo commerciale e finanziario praticamente totale che in buona parte rimase in vigore fino al maggio 2003, dopo che l’allora presidente Saddam Hussein perse il potere. L’embargo – a cui poi negli anni seguenti si aggiunsero anche sanzioni finalizzate alla rimozione delle armi di distruzione di massa – vietava qualsiasi rapporto commerciale con l’Iraq, a eccezione di medicine e, se richiesto da “circostanze umanitarie”, rifornimenti di cibo. Gli effetti delle sanzioni – che furono durissime e colpirono indiscriminatamente la popolazione – si aggiunsero ai danni provocati dai bombardamenti statunitensi finalizzati a costringere i militari iracheni a ritirarsi dal Kuwait (e per la popolazione irachena furono un’ulteriore fonte di sofferenza).
Nel 2010 Joy Gordon, docente del Programma di Giustizia Globale dell’Università di Yale, ha commentato così la situazione irachena: «L’Iraq aveva la forza di ricostruirsi, ma la devastazione delle infrastrutture e la quasi totale interruzione delle importazioni ed esportazioni ha fatto sì che l’Iraq – come disse un inviato dell’ONU – fosse ridotto a uno stato pre-industriale che sarebbe durato per circa un decennio». Paul Bremmer III, funzionario statunitense che si occupò di Iraq dopo la guerra, disse di Saddam Hussein: «Mentre la sua popolazione era affamata – letteralmente, in molti casi, affamata – e mentre lui uccideva decine di migliaia di persone, Saddam e i suoi amici rubavano soldi alla popolazione, li rubavano per davvero». Di nuovo, non è possibile verificare l’impatto delle sanzioni sulla risoluzione della crisi in Kuwait, visto l’intervento armato americano. Le conseguenze dell’embargo quasi totale contro l’Iraq aprirono però un grande dibattito a livello internazionale sull’opportunità di usare in maniera diversa lo strumento delle sanzioni, preferendo quelle mirate a quelle generali e indiscriminate. L’obiettivo era eliminare, dove possibile, i cosiddetti “effetti collaterali”: evitare che uno strumento pensato per difendere le persone finisca per ritorcersi contro quelle stesse persone.
Il problema dell’isolamento: il caso dell’Iran
Una delle condizioni affinché le sanzioni funzionino è che vengano applicate universalmente, perché solo in questo caso si produce uno degli effetti desiderati, cioè l’isolamento internazionale del paese colpito. Nel caso dell’Iran, tuttavia, le cose non sono proprio andate così. L’economia iraniana è stata sottoposta a sanzioni internazionali – prima dagli Stati Uniti e poi successivamente dall’ONU e dall’Unione Europea – dal 1979, cioè da quando la rivoluzione islamista guidata dall’ayatollah Khomeini ha portato l’Iran a modificare le sue alleanze internazionali, schierandosi sempre più nettamente contro l’Occidente. Le sanzioni contro l’Iran sono state adottate soprattutto per fermare il suo programma di arricchimento dell’uranio, necessario per la costruzione dell’arma nucleare (l’Iran nega di averne uno finalizzato al nucleare a uso militare): nel corso degli anni le sanzioni hanno riguardato diverse aree – tra cui il congelamento di beni e conti di iraniani all’estero – ma il bersaglio principale è stato il settore petrolifero, fonte di una grossa quantità delle entrate nazionali.
Il problema è che per molto tempo diversi stati, tra cui Cina e India, hanno continuato a importare il petrolio iraniano a dispetto delle pressioni internazionali. La Cina ha anche fatto massicci e importanti investimenti nel settore petrolifero iraniano, ammodernando gli impianti di estrazione del greggio e adeguando alcune delle proprie raffinerie sulla costa cinese alle caratteristiche del petrolio iraniano. Il risultato è stato che l’economia iraniana si è legata sempre di più a quella cinese (la Cina è diventata il partner commerciale più importante dell’Iran dopo l’entrata in vigore delle sanzioni dell’ONU) e che la leadership iraniana si è affidata sempre più al governo di Pechino per ricevere protezione al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, dove la Cina, come la Russia, può esercitare il diritto di veto.
In pratica, le sanzioni contro l’Iran non hanno raggiunto uno degli obiettivi principali, cioè l’isolamento internazionale. D’altro canto hanno messo in grande difficoltà l’economia iraniana – anche per questa ragione il presidente Hassan Rouhani ha avviato i colloqui sul nucleare che finora hanno portato al raggiungimento di un accordo internazionale parziale e temporaneo – e hanno reso molto più complicato per l’Iran importare materiali e tecnologia necessari per lo sviluppo del suo programma nucleare. I problemi comunque restano molti: un accordo definitivo con l’Iran sul nucleare sembra ancora lontano, e la rinforzata partnership con la Cina rende meno urgente per il governo iraniano scendere a patti con l’Occidente. La situazione, dicono in diversi, potrebbe complicarsi ancora di più dopo le sanzioni imposte nell’ultima settimana contro la Russia: Putin potrebbe “punire” l’Occidente smettendo di collaborare sul nucleare iraniano, e rendendo praticamente impossibile il raggiungimento di un nuovo accordo. Il caso iraniano in pratica dimostra che le sanzioni mirate possono funzionare (sicuramente di più di quelle indiscriminate), anche se hanno bisogno di tempi molto lunghi e rischiano di provocare effetti indesiderati a livello politico in caso di mancato accordo tra le grandi potenze.
L’uso progressivo delle sanzioni: il caso della Russia
Dalla fine della Guerra fredda le sanzioni mirate, a differenza di quelle indiscriminate, si sono sviluppate come strumenti sempre meno “punitivi” e sempre più di “pressione” per convincere leadership e governi avversari a cambiare una determinata politica. Il loro obiettivo è diventato principalmente minacciare e dare una specie di avvertimento agli avversari: per esempio indebolendo il loro potere economico – come la capacità di fare investimenti – o incrinando le loro alleanze con i più stretti collaboratori. In genere chi ha applicato le sanzioni mirate negli ultimi anni lo ha fatto in maniera progressiva, cioè adottando diversi round sanzionatori di intensità sempre maggiore, mantenendo aperta la possibilità di trovare una soluzione alla crisi con la diplomazia.
Questo è quello che è successo per esempio con le sanzioni applicate dagli Stati Uniti a esponenti del mondo politico ed economico della Russia tra il 17 marzo – giorno in cui Putin ha firmato un decreto per riconoscere la Crimea “stato indipendente e sovrano” – e il 21 marzo – giorno della firma del trattato di annessione della Crimea alla Russia. Con il primo giro di sanzioni, considerato piuttosto blando, il governo americano sperava probabilmente di spingere Putin a fare un passo indietro in Crimea e a rinunciare all’annessione; o in alternativa aveva capito che Putin non avrebbe rinunciato ma non aveva altri strumenti per rispondere (l’intervento armato per la Crimea è sempre stato fuori discussione dall’inizio). Nei giorni successivi il segretario di stato americano, John Kerry, ha continuato a sentire a cadenza giornaliera il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, minacciando di intensificare le sanzioni se non ci fosse stato un cambio di atteggiamento da parte della Russia. Di fronte al rifiuto russo di accordarsi ai termini degli Stati Uniti, Obama ha approvato un secondo giro di sanzioni – questa volta molto più duro e potenzialmente più efficace – che ha colpito la “cerchia ristretta” degli alleati di Putin, ma senza colpire direttamente Putin o Lavrov.
In pratica gli americani hanno dimostrato che le loro minacce devono essere prese sul serio, ma di nuovo non hanno chiuso la porta alla diplomazia: ora, per esempio, stanno usando la minaccia di estendere le sanzioni ad alcuni settori dell’economia russa nel caso in cui Putin ordinasse un’azione militare in Ucraina. Come è successo anche in passato, è troppo presto per dire se le sanzioni americane ed europee contro la Russia funzioneranno o meno: i precedenti ci dicono però che in entrambi i casi sarà una faccenda tutt’altro che lineare e di facile lettura, in cui incideranno svariati fattori, diversi tra loro e a volte imprevedibili, oltre alle sanzioni stesse.