Perché gli innocenti confessano
La storia incredibile di una tecnica di interrogatorio – la più usata negli Stati Uniti – che in certi casi spinge i sospettati a confessare reati che non hanno commesso
di Stefano Vizio – @stefanovizio
Il 14 dicembre 1955 Darrell Parker, una guardia forestale del Nebraska, negli Stati Uniti, tornò a casa dal lavoro e trovò sua moglie Nancy morta in camera da letto, legata al letto e con segni di percosse. Parker chiamò la polizia, il medico legale disse successivamente che la donna era stata violentata prima di essere uccisa. Gli agenti interrogarono Parker ma lo rilasciarono subito. Dopo alcuni giorni gli investigatori lo chiamarono al telefono per dirgli che c’erano nuove informazioni, e che era richiesto il suo aiuto con le indagini. Parker andò alla stazione di polizia, fu condotto in una stanza senza finestre e fu presentato a un signore anziano e robusto di nome John Reid.
Fu sottoposto alla “macchina della verità”, un congegno che misura e registra le risposte fisiologiche di una persona mentre parla. Reid iniziò a fargli delle domande. Parker non poteva vedere il movimento degli aghi del macchinario ma ogni volta che rispondeva a una domanda sull’omicidio, Reid gli diceva: stai mentendo. Col passare delle ore, Reid cominciò a proporre a Parker una sua versione dei fatti: il matrimonio tra Parker e la moglie non era felice, perché lei si rifiutava di avere rapporti sessuali con lui, e intanto flirtava con un altro uomo. Reid suggerì quindi che Parker in un raptus l’aveva violentata e uccisa. Dopo nove ore di interrogatorio, nove ore a sentirsi dire che mentiva, Parker crollò e confessò. Il giorno seguente ritrattò, ma durante il processo la giuria decise che era comunque colpevole – basandosi sulla sua confessione – e fu condannato all’ergastolo.
Alla fine degli anni Sessanta, Parker contestò il modo in cui la confessione gli era stata estorta da Reid e la Corte Suprema decise che il processo doveva essere rifatto. Lo stato del Nebraska gli propose la libertà condizionata al posto di un nuovo processo e lui accettò: tornò nell’Iowa e si risposò. Molti anni dopo, nel 1988, un detenuto di nome Wesley Peery morì per attacco di cuore nel penitenziario statale del Nebraska: dopo la morte i suoi avvocati dissero che dieci anni prima aveva confessato l’omicidio di Nancy Parker. Peery era stato sospettato dell’assassinio per un breve periodo, perché la sua macchina era stata vista vicino alla casa della vittima nei giorni precedenti all’omicidio. La polizia lo aveva anche interrogato ma poi lo aveva lasciato andare. Negli anni seguenti Peery era stato condannato per rapina a mano armata, stupro e omicidio, e prima di morire si trovava nel braccio della morte. Aveva consegnato ai suoi legali un manoscritto con la confessione nel 1978, ma per il segreto professionale questi poterono renderlo noto solo dopo la morte del loro cliente. Parker chiese la grazia nel 1991 e la ottenne, ma rimaneva sempre formalmente colpevole dell’omicidio di sua moglie. Nel 2012, infine, ottenne un risarcimento di mezzo milione di dollari dallo stato del Nebraska. Il procuratore generale Jon Bruning disse nella conferenza stampa: «Oggi stiamo riparando il torto fatto a Darrell Parker più di 50 anni fa: in circostanze coercitive, confessò un crimine che non aveva commesso».
Darrell Parker, al centro, parla alla conferenza stampa con il procuratore generale Bruning (a destra)
(AP Photo/Lincoln Journal Star, Robert Becker)
Douglas Starr, un professore di giornalismo all’Università di Boston specializzato in giornalismo scientifico, ha raccontato sul New Yorker la storia della “Reid Technique”, la particolare tecnica di interrogatorio sviluppata tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta da quel John Reid che interrogò Darrell Parker, e che ha influenzato – e influenza tuttora – ogni aspetto degli interrogatori condotti dalla polizia americana. Nonostante la sua diffusione e il suo successo, la “tecnica Reid” è stata descritta più volte come coercitiva: in molti sostengono che sia la causa principale del fenomeno delle “false confessioni“, ossia le confessioni fornite da persone che non hanno realmente commesso il crimine di cui sono accusate (esattamente come accadde per Parker). Questi episodi sono relativamente frequenti negli Stati Uniti, ma ci arriviamo.
L’articolo di Starr racconta come andarono alcuni casi in cui, come per Parker, la tecnica di interrogatorio Reid fu adottata con persone innocenti, e di come queste furono ingiustamente condannate. La storia e il funzionamento della tecnica Reid spiegano una cosa strana e apparentemente impensabile: la possibilità che qualcuno arrivi a confessare un reato che non ha commesso, addirittura un omicidio, semplicemente perché interrogato in una certa maniera.
Come nasce la “tecnica Reid”
John E. Reid era un ex poliziotto di Chicago che era diventato esperto nell’uso del poligrafo, cioè la cosiddetta “macchina della verità”, uno strumento inventato nel 1921 che misura le reazioni fisiologiche (come pressione sanguigna, battito cardiaco e respirazione) delle persone a cui vengono poste delle domande, per scoprire se queste stanno mentendo o dicendo la verità.
Un modello di poligrafo è testato dal suo sviluppatore, Leonarde Keeler, nel 1948 (AP Photo/Edward Kitch)
La validità scientifica del poligrafo è stata più volte messa in discussione, ma nonostante ciò è ancora utilizzato dalla polizia americana in alcuni interrogatori. Con l’esperienza accumulata negli anni, e con l’aiuto di un altro esperto nel settore di nome Fred Inbau, Reid sviluppò negli anni Quaranta un metodo personale che sembrava all’epoca particolarmente innovativo e “civile”, dato che non prevedeva l’uso della violenza, all’epoca molto diffuso. Reid non trattava i sospetti in maniera brutale, ma sfruttava una sua naturale conoscenza della psicologia umana; ben presto si guadagnò la fama di uno che sapeva come far confessare i criminali. Nel 1947 aveva fondato una società privata che conduceva interrogatori per conto delle forze di polizia e di privati, e iniziò ad avere sempre più clienti, ad assumere nuovi dipendenti e a sviluppare metodi di interrogatorio più sofisticati, che facevano a meno dell’uso del poligrafo. La società si chiamava John E. Reid & Associates, Inc.: esiste ancora e conduce più interrogatori di qualsiasi altra compagnia del mondo. La società sostiene che le persone che addestra riescono a far confessare i sospettati l’80 per cento delle volte. Gli interrogatori condotti con la tecnica Reid sono aumentati notevolmente dopo che nel 1988 gli Stati Uniti hanno approvato una legge che vieta ai datori di lavoro di utilizzare il poligrafo sui propri dipendenti (salvo alcune eccezioni, come nel caso delle società di sicurezza privata). La tecnica Reid fa confessare senza poligrafo.
Come funziona la tecnica Reid
Un interrogatorio condotto con la tecnica Reid si divide in tre parti: l’analisi dei dati, il colloquio e l’interrogatorio.
L’analisi dei dati serve a facilitare e indirizzare il colloquio e l’interrogatorio. Questa fase non arriva all’identità del potenziale colpevole partendo dalle prove, ma procede nella direzione opposta, per induzione: valuta uno per uno le persone sospette per stabilire la probabilità che essi siano o meno colpevoli, confrontando le caratteristiche del reato in questione con la storia e il profilo psicologico dei sospettati. Questo processo serve dichiaratamente per cercare di capire se una persona sia colpevole prima che la stessa sia interrogata.
La fase successiva, il colloquio, viene definito colloquio di analisi corportamentale: al sospettato vengono poste domande non accusatorie e viene registrato il modo in cui questo risponde. Si cerca di capire come la persona reagisce a livello verbale e non verbale alle domande dell’investigatore. Queste hanno lo scopo di ottenere semplici informazioni personali, per verificare come si comporta l’interrogato quando risponde sinceramente. Successivamente le domande diventano più provocatorie, per esempio riguardo l’alibi, per osservare la reazione a questo tipo di stress. In questa fase vengono interrogate sia le persone credute innocenti sia quelle ritenute possibili colpevoli, sulla base dell’analisi dei dati. Le risposte dei primi aiutano gli investigatori a raccogliere informazioni: chi è innocente tende a voler collaborare e può rivelare dettagli e ipotesi utili.
Il principio fondamentale della tecnica Reid è che in questa fase si può capire chi sta mentendo e chi sta dicendo la verità, osservando semplicemente il comportamento non verbale. Chi la insegna sostiene addirittura che il video senza audio di un interrogatorio sia più utile di uno con l’audio, per capire se il sospettato sta mentendo: l’importanza di quello che la persona dice per difendersi è molto marginale. L’investigatore deve decidere dopo il colloquio se la persona sta dicendo la verità o no. I risultati di quest’osservazione vengono confrontati con quelli dell’analisi dei dati, per verificare se corrispondono: se una persona il cui profilo lo rendeva un possibile colpevole dà l’impressione di aver mentito durante il colloquio, stando alla tecnica Reid vuol dire che molto probabilmente è colpevole. In questo caso si procede con l’interrogatorio vero e proprio.
Questo video fa parte di un DVD che illustra la tecnica Reid e spiega nel dettaglio come capire dai segnali non verbali se il sospettato sta mentendo. Il video è prodotto dalla John Reid Associates, Inc. e a spiegare la tecnica è il presidente della società Joseph P. Buckley III. È interessante che lo scopo dei filmati sia mostrare come decifrare i segnali nascosti nel comportamento delle persone sotto interrogatorio, ma tutti gli esempi che compaiono sono recitati da attori (peraltro non troppo capaci).
Il momento più importante della tecnica Reid è l’interrogatorio. È diviso in nove parti, l’obiettivo è far confessare il sospettato (l’idea di base è: l’obiettivo è sempre far confessare il sospettato, e non scoprire se è innocente o colpevole, poiché a quello servirà eventualmente il processo). Funziona così. Quando l’investigatore si convince che la persona sta mentendo, esce per qualche minuto dalla stanza. Poi rientra e con fermezza dice al sospettato che le indagini provano chiaramente che è colpevole, quindi ora devono cercare di risolvere la cosa insieme. Se prima l’investigatore ascoltava, in questa fase è solo lui a parlare. Se il sospettato nega le accuse, viene zittito.
Per cercare di farlo confessare si usano diversi metodi. Uno dei più efficaci è la minimizzazione. L’investigatore fa credere al sospettato che il reato di cui è accusato è giustificato da varie attenuanti, e sottostima le conseguenze morali del crimini, senza parlare di quelle legali. Nei manuali Reid è prevista una “razionalizzazione” praticamente per ogni tipo di reato. Nella prima edizione, uscita nel 1962, questo era il suggerimento agli investigatori su cosa dire al sospettato di uno stupro.
«Joe, nessuna donna così attraente dovrebbe girare per strada da sola di notte, come ha fatto lei. Perfino oggi ha una scollatura che le fa vedere le tette. È sbagliato! È una tentazione troppo forte, per qualsiasi uomo normale. Se lei non fosse andata in giro vestita così, non saresti in questa stanza adesso»
Nel caso di un furto sul posto di lavoro, le giustificazioni morali proposte dall’investigatore possono essere la paga bassa o le scarse misure di sicurezza presenti in ufficio. Il compito dell’investigatore è anche prevenire ogni possibile obiezione che possa muovere il sospettato, tipo (in questo caso): «Non ruberei mai in ufficio, tengo troppo al mio lavoro!», obiezione cui viene consigliata come risposta: «Andy, io ti credo, e quello che dici non fa che rafforzare quello che penso. So che sei una persona onesta, un gran lavoratore che ha semplicemente commesso un errore. Sicuramente ci sono dei motivi particolari se hai agito così».
Per indurre il sospettato a crollare e confessare, vengono poste domande che danno per scontata la sua colpevolezza: non si chiede «l’hai fatto o non l’hai fatto?» bensì «hai pianificato questo furto, oppure ci hai pensato sul momento?». Nel caso dello stupro, viene consigliato di chiedere: «È la prima volta che capita oppure è successo altre volte?», in modo da porre al sospettato come alternativa a un episodio eccezionale – verso il quale chi conduce l’interrogatorio si pone in maniera empatica – l’accusa iperbolica di essere uno stupratore seriale.
Se la persona interrogata – durante una di queste “trappole” – ammette la propria colpevolezza, l’investigatore cerca prima di ottenere una confessione completa verbale e poi una scritta. In quella scritta, che viene preparata dall’investigatore, viene suggerito di inserire qualche errore che il colpevole correggerà, in modo da dimostrare nel processo che era cosciente di quello che stava firmando.
Controversie e polemiche
Saul Kassin è un docente di psicologia al Williams College, una delle università più prestigiose degli Stati Uniti, e ha dedicato molto tempo allo studio delle false confessioni. Questo fenomeno è molto meno raro di quanto normalmente si pensi: delle 312 persone condannate e poi scagionate dalla prova del DNA nella storia degli Stati Uniti, più di un quarto aveva confessato. Se ci si limita ai 104 casi di omicidio, la percentuale di false confessioni sale al 62 per cento. Negli Stati Uniti le giurie dei tribunali ritengono una confessione una prova schiacciante: quando un sospettato ha confessato, tutte le altre prove – test del DNA, alibi, altre testimonianze — vengono praticamente ignorate. Dal 75 all’85 per cento di chi fornisce una falsa confessione sotto interrogatorio viene successivamente condannato. Almeno in quattro casi una persona che aveva fornito una falsa confessione è stata condannata a morte.
Una delle leggi fondamentali che regola i diritti di chi viene arrestato e interrogato, negli Stati Uniti, è la “Miranda decision“, del 1966. Nel 1963 un ragazzo di nome Ernesto Miranda fu arrestato e accusato di stupro, rapimento e rapina; aveva un passato di instabilità mentale, e fu interrogato senza avvocato. Confessò e la giuria lo condannò a più di vent’anni, basandosi unicamente sulla sua confessione. Miranda si appellò prima alla Corte Suprema dell’Arizona, che gli diede torto, e in seguito alla Corte Suprema degli Stati Uniti, che invece annullò la condanna, perché la confessione era stata estorta illegalmente. Nel secondo processo Miranda fu nuovamente condannato, ma la decisione della Corte Suprema fu importantissima: stabilì che le persone fermate dalla polizia, prima di essere interrogate, devono essere informate dei propri diritti. Il risultato pratico è la celebre formula «ha il diritto di rimanere in silenzio, tutto quello che dirà sarà usato contro di lei in tribunale». Il testo della “Miranda decision” cita ripetutamente il manuale della tecnica Reid del 1962 come la fonte più autorevole sulle tecniche di interrogatorio in America. È da qui che Kassin apprese dell’esistenza e dell’importanza degli interrogatori Reid.
La prima volta che Kassin lesse il manuale, come ha spiegato in un’intervista a Starr inclusa nell’articolo del New Yorker, pensò: «Mio Dio, questa roba è tipo un pessimo manuale di psicologia! È pieno di asserzioni infondate». Approfondendo gli studi, Kassin si è convinto che la tecnica Reid sia un sistema intrinsecamente coercitivo, perché il rifiuto di chi conduce l’interrogatorio di ascoltare il sospetto cancella in lui le speranze di riuscire a provare la propria innocenza. Nell’interrogato subentrano i ragionamenti a breve termine e la confessione appare come una via di fuga. Per Kassin i motivi che possono spingere una persona a fornire una falsa confessione sono sostanzialmente due: una predisposizione naturale del sospetto, come la giovane età (un problema molto diffuso) o problemi mentali, oppure le pressioni e gli stress subiti durante la detenzione e l’interrogatorio.
Saul Kassin ideò un esperimento per studiare il fenomeno delle false confessioni. Radunò 79 studenti che si disposero (a turno) a coppie a un computer: uno doveva dettare all’altro una serie di lettere da trascrivere. L’esaminatore avvertì chi batteva alla tastiera di non premere assolutamente il tasto Alt, poiché il computer sarebbe andato in crash e si sarebbe dovuta rifare tutta la prova. Il computer però era programmato per bloccarsi automaticamente dopo 60 secondi. Kassin aveva disposto due fattori variabili nell’esperimento: la velocità con cui venivano dettate le lettere (veloce o lenta) e la presenza o meno di un complice che avrebbe accusato il compagno di aver premuto il tasto Alt. Dopo il crash del computer, l’esaminatore chiese infuriato se lo studente avesse premuto il tasto. Gli studenti, secondo Kassin, potevano ammettere la propria colpevolezza in tre gradi diversi: prendendosi la responsabilità, interiorizzando la colpa, costruendo dettagli attorno alla propria infrazione. Nella combinazione dettatura lenta/nessun testimone, il 34,78 per cento degli studenti si prese la responsabilità, ma nessuno interiorizzò la colpa né aggiunse dettagli. Con la combinazione dettatura veloce/finto testimone il 100 per cento firmò la confessione, il 65 per cento interiorizzò la colpa e 35 per cento creò una storia sul come aveva schiacciato il tasto Alt senza farlo apposta. In realtà, solo uno studente lo aveva veramente premuto, involontariamente. Quando Kassin spiegò dopo la verità agli studenti, qualcuno non ci credette e disse che era solo un modo per farli sentire meglio.
Nella prossima pagina, altri esperimenti, e tre storie di false confessioni.
E poi: cosa c’entra True Detective?
In molti, tuttavia, hanno criticato l’esperimento di Kassin: dicevano che non imitava affatto la realtà, perché gli studenti potevano facilmente pensare di aver premuto il tasto senza essersene accorti, e inoltre in ogni caso non c’erano gravi conseguenze per la loro infrazione. Alcuni colleghi di Kassin, come Melissa Russano della Florida International University, hanno provato a replicare l’esperimento con alcune modifiche. Russano organizzò una finta prova scritta all’università e indusse gli studenti – con la complicità di alcuni di loro – ad aiutarsi l’un l’altro. Diversamente dal premere il tasto Alt, questo non poteva essere fatto accidentalmente; inoltre le confessioni avrebbero portato reali conseguenze, perché imbrogliare durante un esame violava il regolarmento dell’università. Dopo la prova alcuni esaminatori adottarono alcuni metodi della tecnica Reid per interrogare gli studenti sul fatto che avessero o no copiato e collaborato. Gli esaminatori ottennero confessioni anche dai ragazzi innocenti, oltre che da quelli realmente colpevoli: utilizzando le tecniche della minimizzazione e dell’accordo (proporre all’interrogato un modo per venirsi incontro, a patto che lui ammetta la copa), il 43 per cento dei ragazzi innocenti disse di aver imbrogliato (e lo stesso fece l’87 per cento degli studenti realmente colpevoli). La tecnica Reid si confermò molto efficace per estorcere confessioni, ma molto poco per distinguere chi era sincero da chi mentiva.
Kassin condusse un altro esperimento per approfondire questa questione: fece ascoltare o vedere a un campione di poliziotti e studenti le registrazioni audio o video di 10 confessioni, per metà false e per metà vere. L’esperimento produsse due risultati inquietanti: gli studenti si dimostrarono più bravi dei poliziotti a riconoscere le confessioni autentiche; i poliziotti si dimostrarono più sicuri di sé nel dare le risposte. Inoltre il ricercatore scoprì che chi si sottoponeva al test riconosceva più facilmente le false confessioni da quelle vere ascoltando solamente l’audio dell’intervista. Questo va esattamente contro uno dei principi fondamentali della tecnica Reid, e cioè che il comportamento non verbale dell’interrogato è molto più importante di ciò che dice. Aldert Vrij, docente di psicologia sociale all’Università di Portsmouth, ha condotto degli altri esperimenti arrivando invece alla conclusione che i poliziotti sono più bravi delle persone normali nel riconoscere le menzogne, ma sono meno capaci di riconoscere quando una persona dice la verità: secondo Vrij ciò dipende da un naturale pregiudizio dei poliziotti a considerare colpevole chi viene interrogato.
Molti sostengono che il metodo più efficace e semplice per arginare il problema delle persone ingiustamente condannate dopo aver fornito una falsa confessione sarebbe rendere obbligatorio per la polizia registrare gli interrogatori. In questo modo la giuria potrebbe vedere anche come la confessione è stata ottenuta, prima di condannare l’imputato.
La versione di Reid e dei suoi
Il giornalista del New Yorker ha intervistato tra gli altri Joseph Buckley, il presidente della John Reid Associates, Inc., nel quartier generale della società, a Chicago. Alla domanda se qualcosa della tecnica Reid fu sviluppato con l’aiuto di psicologi, Buckley ha risposto: «No, neanche un po’. È interamente basato sulla nostra esperienza». Buckley sostiene che i critici della tecnica distorcano la realtà: per lui la tecnica ha come unico scopo la ricerca della verità, e le tecniche manipolatorie vengono impiegate solo quando si è sicuri che un sospettato sta mentendo; dice che se una persona interrogata crede alla finta indulgenza del poliziotto sono problemi suoi (i detrattori della tecnica Reid criticano il fatto che la polizia menta ai sospetti sulle prove in loro possesso, ma una decisione della Corte Suprema nel 1969 ha deciso che possono farlo). Ed è convinto che i vari esperimenti fatti sul tema delle false confessioni non riproducano la realtà degli interrogatori condotti dalla polizia, perché mancano totalmente di contesto. Dice che una persona innocente può essere spinta a confessare solo quando chi interroga non rispetta le regole della tecnica: ciononostante, uno dei casi più eclatanti di falsa confessione fu quello di Juan Rivera, il cui interrogatorio fu condotto anche da un insegnante della tecnica, nel quartier generale della Reid & Associates. Darrel Parker poi, come abbiamo visto, fu interrogato addirittura da John Reid in persona.
Cosa c’entra True Detective (niente spoiler, tranquilli)
Nella serie televisiva americana True Detective Rust Cohle, il personaggio interpretato da Matthew McConaughey, è un poliziotto che tra le altre cose è molto abile nel condurre gli interrogatori. A un certo punto il suo partner Martin Hart (Woody Harrelson) dice che tra i due lui era il “box man”, cioè chi sta nella stanza degli interrogatori (“the box”), e che era molto bravo. Hart dice che da tutta la Louisiana lo chiamavano per far confessare la gente. Cohle spiega così la sua tecnica di interrogatorio:
«Vedete, tutti sanno che c’è qualcosa che non va in loro, solo non sanno che cosa. Tutti vogliono le confessioni, le vogliono catartiche, romanzate, specialmente i colpevoli. Ma tutti sono colpevoli.»
Nel corso della serie, il detective Cohle utilizza più volte una tecnica che di fatto è la tecnica Reid (attenzione, nel secondo video ci sono spoiler).
Tre storie di false confessioni
James Trainum è un detective della squadra omicidi in pensione. Dopo aver usato per anni la tecnica Reid, nel 1994 indagò su un caso di assassinio che gli fece cambiare totalmente opinione sulla sua efficacia. In una lettera al Los Angeles Times, Trainum ha spiegato come lui e i suoi colleghi avessero trovato una donna sospettata per l’omicidio di un dipendente della Voice of America, il servizio radiotelevisivo ufficiale del Governo federale degli Stati Uniti. Dopo un interrogatorio standard, durato 16 ore, ottennero una confessione scritta. All’inizio, dice Trainum, la donna diceva di non sapere nulla dell’omicidio. Pian piano, però, iniziò a diventare più collaborativa e a fornire maggiori dettagli, fino a confessare. Disse di aver picchiato a morte l’uomo e di aver gettato il corpo nel fiume. Anche l’avvocato della donna in seguito disse che era convinto della sua colpevolezza. Saltò poi fuori però che la donna aveva un alibi fortissimo, che fu confermato da nuove indagini, e fu rilasciata. Per caso l’interrogatorio era stato registrato: rivedendo il video anni dopo, Trainum dice di essersi reso conto degli errori commessi. La polizia aveva completamente ignorato le prove fornite dalla donna a sostegno della sua innocenza, e le avevano progressivamente spiegato i dettagli del crimine che lei aveva semplicemente poi ripetuto, sperando di ottenere l’approvazione degli agenti. Per esempio, Trainum chiese alla donna cosa avesse comprato con la carta di credito della vittima; lei tirò a indovinare una ventina di volte, finché disse “gamberi”, che era effettivamente uno degli articoli acquistati dal vero colpevole. Trainum ha spiegato come avessero dato importanza solo a quelle due o tre cose giuste che il sospetto aveva detto, senza tenere conto di tutte le risposte che non corrispondevano alla verità. Trainum si interessò al tema delle false confessioni e ha anche collaborato con Saul Kassin.
Nel 1992 in Illinois una ragazzina di 11 anni che faceva la baby-sitter fu violentata e pugnalata a morte. La polizia fermò Juan Rivera, un ragazzo di 19 anni con un quoziente intellettivo molto basso, un passato di problemi mentali e piccoli guai con la giustizia (aveva rubato un’autoradio). Diceva di essere stato a casa la sera dell’omicidio e i tabulati telefonici e il braccialetto elettronico che indossava lo confermavano. Fu comunque interrogato per quattro giorni, durante i quali non dormì più di quattro ore, e per almeno due volte fu portato alla sede della Reid. Rivera fu sottoposto al poligrafo, ottenendo risultati contrastanti: gli venne detto però che il test provava che era colpevole, ma lui continuava a negare. In seguito crollò e confessò. Fu condannato all’ergastolo ma nel 2005 saltò fuori, con la prova del DNA, che lo sperma trovato sulla scena del crimine apparteneva a un’altra persona. I pubblici ministeri provarono a spiegarlo in due modi: o la ragazzina di 11 anni era sessualmente attiva e il seme era di un altro partner, oppure Rivera non aveva compiuto il reato da solo. Rivera fu nuovamente condannato, ma vinse in appello e fu rilasciato nel gennaio 2012, dopo quasi 20 anni di carcere. Ora ha fatto causa alla Reid e ai poliziotti che lo interrogarono.
Juan Rivera mentre esce dal carcere con il nipote, la madre e la sorella (AP Photo/ Bev Horne)
Il caso di falsa confessione più famoso della storia recente degli Stati Uniti è però, probabilmente, quello dei “Central Park Five“. La notte del 19 aprile 1989 Trisha Meili, una donna bianca di 28 anni che lavorava per una grossa banca d’affari, fu aggredita, violentata e picchiata mentre faceva jogging a Central Park. In quel periodo a New York c’era un alto tasso di criminalità e la tensione razziale era molto elevata. Quella stessa notte furono riportati altri episodi di aggressioni a Central Park e la polizia aveva fermato alcuni ragazzi sospetti. Il corpo di Meili, che era in fin di vita, fu scoperto solo ore dopo da alcuni operai. Al suo risveglio la donna non ricordava niente dell’accaduto. I ragazzi fermati dalla polizia fecero i nomi di una trentina di altri giovani che erano nel parco quella notte. Cinque di questi, dopo un interrogatorio durato due giorni durante i quali praticamente non dormirono, confessarono – non assistiti da un avvocato – di aver stuprato e picchiato Meili. Quattro erano afroamericani, uno era ispanico, avevano tra i 14 e i 16 anni.
Yusef Salaam e Raymond Santana, due dei “Central Park Five”, dopo il loro arresto (AP Photo/David Burns)
I media statunitensi diedero molto risalto a questo episodio, e il caso divenne il simbolo dell’emergenza che secondo molti affliggeva New York in quel periodo. Fu addirittura coniato il termine “wilding”, per descrivere la pratica diffusa tra molti giovani di picchiare e derubare persone a caso.
Nel caso di Trisha Meili, però, non c’erano altre prove a incolpare i cinque ragazzi, eccetto le loro confessioni, di cui quattro erano state filmate. I test del DNA non combaciavano e nessuna delle altre sette persone che avevano subito attacchi quella notte identificò i cinque ragazzi. I racconti dei cinque giovani contenevano numerose incongruenze: alcuni di loro dicevano di aver pugnalato la donna, nonostante non fossero stati trovati tagli sul suo corpo; altri sbagliavano e cambiavano i nomi dei ragazzi che dicevano essere stati loro complici. Il punto indicato come luogo dell’aggressione dai cinque, poi, non corrispondeva. Si capì in seguito che i dettagli del crimine che ricostruirono erano stati appresi durante l’interrogatorio, suggeriti dalle stesse domande degli investigatori. Tutto ciò che avvenne prima della confessione, però, non venne filmato. I giovani ritrattarono la loro confessione nei giorni seguenti ma furono comunque condannati a pene comprese tra i 10 e i 15 anni.
Nel 2002 Matias Reyes, uno stupratore seriale che stava scontando la sua pena in un penitenziario al confine col Canada, confessò di aver violentato da solo Trisha Meili: la prova del DNA confermò la sua confessione e le condanne ai cinque ragazzi furono annullate. Quattro di loro erano usciti dal carcere con la condizionale dopo sei anni; uno stava ancora scontando la pena, e fu rilasciato, dopo 12 anni di prigione.
Raymond Santana e Kevin Richardson alzano il pugno ad alcuni sostenitori, assieme a Yusef Salaam (destra) , il 17 gennaio 2013 a New York (AP Photo/Frank Franklin II)