«Come fossi solo»
Il primo capitolo di un libro che racconta la strage di Srebrenica dal punto di vista di un giudice del processo, un casco blu olandese e un soldato serbo-croato che partecipò al massacro
La casa editrice Giunti ha pubblicato Come fossi solo, dello scrittore Marco Magini. Racconta la strage di Srebrenica del 1995, durante la guerra della ex-Jugoslavia, attraverso la storia di tre personaggi: il magistrato spagnolo Romeo González, che ricorda lo svolgimento del processo; Dirk, uno dei soldati olandesi dell’ONU colpevoli di non aver impedito il massacro, e il soldato serbo-croato Dražen Erdemović, che si era arruolato volontario nell’esercito serbo e fu l’unico a confessare di avere partecipato al massacro, e l’unico processato e condannato.
Marco Magini è nato ad Arezzo nel 1985. Si è laureato alla London School of Economics e ha vissuto in Canada, Stati Uniti, Belgio, Turchia e India. Vive a Zurigo dove si occupa di cambiamento climatico ed economia sostenibile. Di seguito, il primo capitolo del libro.
***
Dirk
Vorrei non dovermi ancora una volta svegliare in mia compagnia.
Mi alzo e mi faccio la barba.
Sono passate le undici e anche stamani non ho salutato i bambini prima che andassero all’asilo. Mi gira la testa, avanzo incerto verso il bagno che ha un odore chimico di lavanda.
Christine.
Ha affogato nel deodorante l’odore di vomito di ieri sera. Potesse, darebbe una spruzzatina anche sul resto della nostra vita. Più la vedo e più mi fa schifo. Le canzoncine della buonanotte cantate ai bambini, il suo aggiungere caro, tesoro, alla fine di ogni frase, fanno sembrare tutto ancora più sfacciatamente patetico.
Mi gira la testa. Mi siedo sulla tazza per pisciare in modo da non perdere di nuovo l’equilibrio. Lo spazzolino, il dopobarba, la crema per il viso: ogni singolo oggetto si trova esattamente dove si è sempre trovato e dove sempre si troverà. Mi tiro su: è solo l’immagine riflessa nello specchio a essere fuori posto in questo cazzo di bagno.
Esco per allontanare i pensieri.
Afferro la prima maglietta che trovo nell’armadio e vado verso la cucina. Immancabile un biglietto mi aspetta sopra il tavolo.
Buongiorno tesoro,
c’è della frutta in frigo, mangiala insieme allo yogurt.
Ho fatto anche del polpettone, mangialo per pranzo che ti piace.
Ti amo,
Chris.
Apro il freezer e prendo del ghiaccio per farmi un gin tonic. Fuori il vicino taglia l’erba del prato. Da quando si sono trasferiti sembra che non abbiano altro a cui pensare. Avrà più o meno settant’anni, è grasso, suda, la gora ormai scura sulla schiena e sotto le ascelle. Mi stanco ben presto di quello spettacolo, mi faccio un altro gin tonic e entro incerto nel salone.
È solo in quel momento che la vedo.
Come cazzo le è venuto in mente?
Le mensole ai lati del televisore, quelle dove tenevamo i souvenir dei nostri viaggi, sono adesso riempite di foto, foto ben inquadrate in cornici d’argento. Foto di quando eravamo fidanzati, foto del nostro matrimonio, foto dei bambini, foto di me in divisa il giorno del diploma all’accademia militare.
Ha stravolto la disposizione del nostro soggiorno. Accendo e mi metto in poltrona.
I programmi della mattina ti fanno sentire solo al mondo, oppresso tra repliche e serie per casalinghe. Bevo a piccoli sorsi, giocherellando con il ghiaccio. La foto mi fissa alla sinistra del televisore, un giovane me sorridente in divisa, in posa davanti alla bandiera sullo sfondo.
Bell’idea, Christine.
Torno in cucina, riempio un cestello di ghiaccio e prendo la bottiglia del gin. Passo da un canale all’altro, come se stessi cercando davvero qualcosa. Finalmente mi imbatto in una corsa ciclistica. È ancora troppo lontana dall’arrivo per poter offrire un qualche tipo di interesse, ma alzo lo stesso il volume al massimo nella speranza che la voce del commentatore colmi il silenzio che ho in testa.
Mi sbaglio.
Immobile accanto allo schermo, quel me di tanti anni fa mi guarda, sorridente.
Bevo e cerco di ignorarlo, ma lui continua a fissarmi. Cosa cazzo sorridi?
Mi alzo, bevo un sorso e guardo fuori dalla finestra nella speranza di distrarmi. Il vicino è rientrato e sulla strada regna la calma di una mattina feriale come tante.
Anche se non lo osservo so che mi sta fissando.
E ride.
Mi giro e passo in rassegna le foto.
Io e Christine appena conosciuti, a campeggiare in riva al lago; io e Christine il giorno delle nostre nozze, due ragazzini vestiti a festa, e poi i bambini, i bambini che crescono una cornice dopo l’altra.
Bellissima idea che hai avuto, Christine…
Eccola finalmente. La foto del giorno del diploma, eccomi in divisa sfoggiare quel sorriso imbecille: «Pronto a servire la patria». La prendo tra le mani.
«Cosa ridi? Cosa ridi? Cosa ci sarà mai da ridere?» gli sussurro con odio.
Voglio stringerla con entrambe le mani. Lascio il bicchiere. Cade in frantumi, i vetri sul parquet tirato a lucido. Non mi interessa, devo parlarci, devo capire.
«Cosa ti eri messo in testa di fare? Cosa cazzo pensavi ti avrebbero mandato a fare?» mi scopro a dire.
Lo guardo dritto negli occhi ma lui pare non curarsene, continua a fissarmi. E ride.
Quello non sono io, quello non sono mai stato io. Stringo la cornice fra le mani, le dita conficcate nel vetro, sempre più forte, più forte, finché non scricchiola. Sotto la pressione dei miei polpastrelli si spacca. Getto la cornice. Ho le mani che sanguinano, afferro la foto, la strappo in tanti pezzi e me li butto alle spalle come una manciata di coriandoli.
«Cosa cazzo pensavi di fare, Christine?» dico, pianissimo, quasi sussurrando, come se quelli della televisione potessero sentirmi.
Mi dirigo in cucina, apro i cassetti, niente, apro la credenza, niente. Afferro una sedia per le gambe con entrambe le mani e la sbatto contro il televisore acceso, la sbatto ancora e ancora, sempre più forte.
«Non le voglio vedere, non le voglio vedere.» Non è la mia voce quella che sento, ma non importa.
Afferro la gamba della sedia, voglio fracassare una a una queste cazzo di mensole, con ferocia, nessuno deve avere il sospetto che l’abbia fatto per errore. Mi sposto verso l’angolo della sala e rompo la vetrina con tutti i suoi squallidi soprammobili, prendo un fermacarte di metallo e lo lancio contro il tavolino di vetro in mezzo al soggiorno. Provo piacere fisico nel vederlo in frantumi. Ho sempre odiato quel tavolo, coperto di riviste che nessuno ha mai letto. Ficco le dita nel divano fino a strapparne la fodera.
Mi fermo in mezzo alla sala a contemplare i risultati della mia furia e urlo, finalmente urlo, finalmente faccio l’unica cosa che sentivo davvero il bisogno di fare.
Digrigno i denti, corro in bagno e scaravento tutto per terra. Tutto, tutto, spazzolini, creme, mensole, mobiletti, mi libero di tutto il tuo stramaledetto ordine, Christine! Tiro un pugno allo specchio, poi un altro, un altro ancora, finché non ne rimangono che pochi frammenti.
Mi fermo, ansimo, mi guardo le nocche insanguinate. Finalmente sento qualcosa, finalmente sento almeno dolore.
«Bell’idea del cazzo, Christine!»
Annaspo, cerco di calmarmi, mi tolgo le schegge di vetro conficcate nella carne. Mi guardo intorno e mi vedo, guardo il bagno, le boccette rotte che versano sul pavimento e mi riconosco.
Mi trascino fino al soggiorno senza nemmeno un pensiero in testa.
Mi inginocchio, guardo le mie mani coperte di sangue e piango.
Foto: Uno striscione fatto con le foto delle persone morte a Srebrenica, e mostrato a una manifestazione a Visok, in Bosnia, nel luglio del 2013.
(ELVIS BARUKCIC/AFP/Getty Images)