La crisi della democrazia
C'è eccome, spiega uno speciale dell'Economist: dove è appena nata e dove è anziana. Per superarla bisogna pensare in modo nuovo
La “crisi della democrazia” è un tema che negli ultimi tempi è sempre più frequente nelle discussioni sullo stato del mondo e dei suoi paesi, ma anche sempre più banalizzato: una specie di modo di dire che spiega ogni cosa senza spiegare niente. L’Economist di questa settimana invece le dedica la copertina e un lungo articolo che cerca di ricostruire e mettere in ordine di cosa si tratti davvero, quale sia la sua sostanza reale e quali le soluzioni auspicabili, secondo l’Economist stesso.
Cos’è una democrazia
Benché ci capiti di abusare del termine “democratico”, riferendolo ai processi e ai tratti più vari delle nostre società, una democrazia è tecnicamente un sistema di governo in cui a tutti i cittadini è concesso di votare per determinare le decisioni della comunità. Ma poiché questo da solo non garantisce un sistema efficace e corretto di funzionamento delle democrazie, associamo loro come imprescindibili anche una serie di garanzie e libertà: controlli e limiti sui poteri di chi governa, libertà di parola e associazione, tutela delle minoranze e delle loro scelte.
Se fino a oggi la democrazia è stata un’aspirazione di milioni di persone e molti popoli che non ne godono, è perché i dati e la storia dicono che le democrazie sono in media più ricche, sono meno impegnate in guerre e sono più in grado di combattere la corruzione, e offrono ai loro cittadini libertà e opportunità per se stessi e per i propri figli.
Le vittorie del Novecento
La seconda metà del secolo scorso ha celebrato una impressionante serie di successi da parte della democrazia: tra le tantissime cose, ha sconfitto il peggior regime dittatoriale di sempre, la Germania nazista; si è insediata in India, lo stato più popoloso del mondo; ha battuto ed eliminato il sistema discriminatorio più simbolico, l’apartheid sudafricano. Con la fine del colonialismo, la democrazia ha raggiunto molti paesi in Africa e Asia; ha rimpiazzato dittature in Italia, Spagna, Grecia e diversi paesi sudamericani, creando in Europa occidentale una pace stabile e duratura come quasi non si era mai vista. E infine, con la caduta dell’Unione Sovietica, ha sostituito i regimi comunisti in quasi tutta l’Europa dell’Est. Nel 2000 il think tank Freedom House classificò come democrazie 120 paesi, il 63 per cento del totale mondiale.
Qualcosa è cambiato
In questi mesi però “uno schema preoccupante si sta ripetendo capitale dopo capitale”, scrive l’Economist. La gente si riunisce a protestare nelle piazze. I regimi dittatoriali o comunque non pienamente democratici reagiscono con violenza, ma perdono il controllo di fronte alla fermezza popolare e alle proteste del mondo generate dalla copertura mediatica. Il mondo applaude il crollo del regime e offre aiuto per costruire una democrazia. Ma questa è un’impresa più ardua che quella di cacciare un dittatore. Il nuovo governo barcolla, l’economia traballa e il paese si trova rapidamente in condizioni uguali o peggiori a quelle precedenti. È quello che è successo in molti paesi della “primavera araba” e in Ucraina dopo la “rivoluzione arancione” del 2004: cacciò Viktor Yanukovych, non fu in grado di governare il paese, e ottenne il ritorno di Yanukovych nel 2010, dopo elezioni e pressioni russe.
Chi si batte contro le dittature e vuole creare nuove democrazie ha dimostrato in questi anni di non essere in grado di costruire delle alternative funzionanti.
Non è una novità, che la democrazia fatichi, spiega l’Economist. Il sistema la cui nascita leghiamo all’antica Grecia dovette aspettare duemila anni per ritrovare concretezza, da allora all’Illuminismo. Nel Diciassettesimo secolo il suo unico modello funzionante fu quello degli Stati Uniti. Nel Diciannovesimo le monarchie seppero reprimere e contenere largamente le proposte democratiche. Ancora nella prima metà del Novecento le nuove democrazie in Spagna, Italia e Germania furono rimpiazzate da regimi autoritari. Nel 1941 le democrazie nel mondo erano appena undici.
E nel Ventunesimo secolo, dopo i successi del mezzo secolo precedente, crescita e successi della democrazia sono di nuovo in crisi – e Freedom House dice che nel 2013 le “libertà globali” sono diminuite per l’ottavo anno consecutivo. Non sono solo nate meno democrazie, ma alcune di quelle esistenti hanno diminuito le loro libertà e le loro garanzie e diritti, pur mantenendo un'”apparenza democratica”.
E infine, c’è un grosso problema non solo con le nuove e giovani democrazie: una nuova e imprevista difficoltà riguarda il funzionamento e i risultati della democrazia nei paesi in cui è più solida e longeva, nell’Occidente dove la democrazia viene oggi spesso associata a fallimenti economici, malfunzionamenti e inefficienze interni, e prepotenze e fallimenti all’estero.
Due cause del problema: la crisi e la Cina
Se “la democrazia ha perso la sua forza progressiva” le ragioni sono due, secondo la ricostruzione dell’Economist: la crisi finanziaria del 2007-2008 e la crescita della Cina.
Il danno provocato dalla crisi è stato sia psicologico che finanziario. Ha rivelato sostanziose debolezze dei sistemi politici dell’Occidente, minando uno dei loro grandi asset, la sicurezza di sé.
Agli occhi dei propri cittadini e di quelli del resto del mondo, le democrazie occidentali si sono rivelate fragili – illuse di poter accumulare debiti e ignorare i cicli economici – e poi indegne di fiducia quando hanno appoggiato e aiutato i responsabili dei fallimenti finanziari.
Contemporaneamente, “il Partito Comunista cinese ha rotto il monopolio del mondo democratico sulla crescita economica”, superando i tassi di sviluppo degli Stati Uniti nei tempi migliori. E sostenendo così che il modello cinese – rigido controllo da parte del Partito associato a un impegno incessante nell’arruolare dirigenti di talento – sia più efficiente della democrazia e meno soggetto ai rischi di impotenza. Se è vero che tutto questo è pagato con le limitazioni della libertà personale, il controllo sul diritto di opinione, la censura, la repressione del dissenso, è anche vero che questo paradossalmente vincola il potere a una maggiore attenzione verso opinione e dissenso, e che la leadership cinese è riuscita in pochi anni a superare problemi che le democrazie non riescono ad affrontare in decenni: per esempio nell’estendere il suo sistema pensionistico a 240 milioni di cittadini in più, abitanti delle zone rurali del paese. E questo genera una crescita di consenso molto estesa, come mostrano dati e ricerche e i pareri di diversi esperti accademici locali: due di loro, riferisce l’articolo dell’Economist, dicono per esempio che “la democrazia sta distruggendo l’Occidente, perché istituzionalizza l’impasse decisionale, impoverisce i processi di decisione e promuove leader mediocri come George W. Bush” e che “la democrazia complica cose semplici e permette ai politici di ingannare la gente”. Per questo, molti paesi emergenti – come il Ruanda, gli Emirati Arabi Uniti, il Vietnam – sono più tentati da rapporti con il modello cinese che con quello dei paesi democratici, che chiedono loro garanzie sui diritti e la crescita democratica e offrono prospettive di minor successo.
I tre fallimenti della democrazia nel Duemila
Nel nuovo millennio tre grandi insuccessi mostrano i limiti del progetto di democratizzazione del mondo.
1. La Russia, che dalla caduta del comunismo è uscita con un percorso che ha portato al regime di Putin, “zar postmoderno che ha distrutto la sostanza della democrazia mantenendone l’apparenza: tutti possono votare, basta che vinca lui”. Questo modello è stato imitato in Venezuela, Ucraina, Argentina e altrove: la “conservazione di un simulacro di democrazia piuttosto che la sua eliminazione completa, che finisce per screditarla ancora di più”.
2. La guerra in Iraq, legittimata in buona o cattiva fede col progetto di promozione della democrazia, ha avuto il risultato di convincere il mondo o che la democrazia sia solo un alibi per le ambizioni imperialiste statunitensi, o che la costruzione della democrazia generi solo maggiori instabilità, o che la democrazia non possa funzionare in determinati contesti.
3. L’Egitto, con i catastrofici sviluppi e le tremende delusioni seguiti alla deposizione di Mubarak e giunti a un nuovo regime autoritario e a una repressione violentissima. Insieme alla guerra in Siria e all’anarchia libica, l’Egitto ha demolito le speranze sulla nascita della democrazia nei paesi nordafricani e mediorientali.
In aggiunta: il modello sudafricano si è trasformato nel potere di un solo partito autoconservativo per vent’anni, lontano dal risolvere molti problemi del paese; il modello turco di islamismo democratico è alle prese con grossi problemi di corruzione e autoritarismo; e in Bangladesh, Thailandia e Cambogia le opposizioni hanno contestato le elezioni “democratiche”.
Tutto questo ha dimostrato che costruire le istituzioni necessarie a sostenere la democrazia è un lavoro molto lento, e ha demolito l’idea un tempo popolare che la democrazia fiorisca rapidamente e spontaneamente quando i suoi semi siano gettati. Per quanto essa possa essere una “aspirazione universale”, come insistevano Bush e Blair, è una pratica che deve avere radici culturali.
Ma un altro problema è che anche dove queste radici esistono, le cose non vanno bene per niente. Nel caso esemplare degli Stati Uniti, la democrazia è diventata sinonimo di ingorgo decisionale, bloccato dai reciproci sforzi delle parti per ottenere dei punti fino a rischiare il default per due volte in due anni. Per non dire degli abusi con la costruzione dei collegi elettorali (il gerrymandering, un’antica battaglia dell’Economist) in modo da conservare i seggi sempre agli stessi eletti. Col risultato di polarizzare le posizioni degli elettori e incoraggiare gli estremismi, e di aumentare la disillusione e la critica dei cittadini, mentre cresce il potere economico e delle lobby sulla politica. Il tutto sia all’interno che all’estero dà una crescente impressione che la democrazia sia una cosa in vendita a chi ha i soldi per comprarla.
Non vanno meglio le cose per l’altra grande federazione di stati democratici, l’Unione Europea. L’introduzione dell’euro è stata presa da tecnocrati, senza consultazione dei cittadini (negli unici due paesi che hanno tenuto dei referendum, Danimarca e Svezia, hanno vinto i no), che quando sono stati sentiti sul trattato di Lisbona si sono detti soprattutto contrari. Il Parlamento europeo è insieme ignorato e disprezzato. I populismi e gli estremismi locali, che l’UE voleva combattere, ne sono invece rafforzati ogni anno. E “nei giorni più neri della crisi dell’euro, le euro-élites hanno costretto Italia e Grecia a sostituire leader eletti democraticamente con tecnocrati”.
Cosa è cambiato: attaccati da tre lati
L’espressione maggiore della democrazia negli ultimi due secoli è stata la forma delle nazioni e dei parlamenti nazionali. Ma qualcosa è cambiato, e questo sistema oggi è attaccato “da sopra, sotto e dentro”.
Sopra. La globalizzazione ha reso più deboli e meno indipendenti le politiche nazionali: molto potere è stato consegnato a istituzioni sopranazionali e mercati, e i politici sono oggi meno in grado di mantenere le molte promesse che continuano a fare su temi che non dipendono da loro.
Sotto. Comunità locali, regioni autonomiste, enti e poteri minori come ONG e lobbisti, riducono a loro volta i poteri politici nazionali. E Internet ha consegnato a gruppi ancora più piccoli e agli stessi individui la possibilità di organizzarsi, protestare e avanzare più visibilmente e insistentemente le loro richieste. In società in cui i cittadini votano ogni sera per eliminare i concorrenti di un programma televisivo, e ogni mattina firmano petizioni online, il processo elettorale parlamentare suona anacronistico e rigido. Per un parlamentare britannico citato dall’Economist, le democrazie rischiano di fare la fine dei negozi di dischi ai tempi di Spotify e iTunes.
Dentro. Ma l’assedio maggiore le democrazie lo stanno subendo dai propri cittadini, dagli elettori. La pratica poco lungimirante della politica di creare grandi quantità di debito per mantenere le promesse di oggi, senza costruire investimenti per saldare quel debito domani, si è rivelata nella sua sventatezza in questi anni di crisi finanziaria. Ma adesso è diventato difficilissimo per i politici convincere i cittadini che le promesse non si possono mantenere più e che bisogna pensare nuove austerità economiche. Ancora di più in paesi in cui la popolazione invecchia e le proteste sono più difficili da ignorare rispetto a quelle, più tradizionali, dei giovani. E questo aumenta le difficoltà di pensare al domani sacrificando sull’oggi.
Per queste ragioni di incapacità di risultati, e non solo, il cinismo e il distacco verso la politica è in grande aumento in tutte le democrazie. Nel Regno Unito, gli iscritti ai partiti sono passati all’1 per cento dei cittadini, dal 20 per cento che erano nel 1950. Le percentuali dei votanti in 49 democrazie oggetto di uno studio sono scese complessivamente del 10 per cento negli ultimi trent’anni. E se una volta questo distacco si sarebbe tradotto solo in distacco, o conversazioni risentite al bar, oggi diventa parte della politica e del suo blocco, spiega l’Economist citando i casi del partito satirico che ha vinto le elezioni a Reykjavik e del movimento di Beppe Grillo.
Il risultato simultaneo è che i cittadini vogliono dai loro governi sempre di più, al crescere dei problemi, ma insieme li disprezzano sempre di più, togliendo loro legittimità ed efficacia.
Cosa fare: con le nuove democrazie
Il processo di costruzione di nuove democrazie nei paesi emergenti non è sconfitto e non è impossibile, secondo l’Economist. È già successo in altri momenti della Storia, e d’altra parte la democrazia non è proprietà dell’Occidente: ma ci vogliono pazienza, tempo, e assiduità.
James Madison e John Stuart Mill ritenevano che la democrazia fosse un meccanismo potente ma imperfetto: che deve essere costruito con attenzione, per sfruttare la creatività degli uomini ma anche per sorvegliare le loro perversioni, e tenuto costantemente in ordine e al lavoro, oliato, aggiustato e assestato.
E con le nuove democrazie lo sbaglio commesso troppo spesso è stato di investire troppo sulle elezioni e troppo poco sugli altri tratti essenziali della democrazia. Soprattutto guardandosi dalla “dittatura della maggioranza”, l’idea che la vittoria elettorale dia ai vincitori il diritto di fare quello che vogliono. Le democrazie più riuscite sono quelle che hanno saputo tenere a bada questa tentazione e costruire sistemi di garanzie e tutele per evitarla, a cominciare dalle Costituzioni: gli esempi più riusciti sono India e Brasile, mentre il primo sintomo del rischio di fallimento di una democrazia è il tentativo di chi la governa di darsi maggiori poteri.
Questo approccio dovrebbe essere sostenuto dai leader degli altri paesi, che non dovrebbero accontentarsi della “legittimazione popolare”. E paradossalmente, scrive l’Economist, gli stessi leader autoritari – visto com’è andata a Morsi e Yanukoyvich – avrebbero da imparare da quello che è successo in Egitto e Ucraina.
Cosa fare: con le vecchie democrazie
La crisi della democrazia nei sistemi democratici più longevi e navigati esiste, come abbiamo visto. E ha dei tratti nuovi e contemporanei: che richiedono approcci nuovi, e che si tenga conto del fatto che alcuni meccanismi suonano oggi datati.
Le democrazie consolidate hanno bisogno di aggiornare i propri sistemi politici per affrontare i problemi interni, e per rilanciare l’immagine della democrazia all’estero. Ci sono paesi che hanno già avviato questo processo. Il Senato americano ha reso più difficile l’ostruzionismo. Alcuni stati hanno introdotto primarie aperte e creato commissioni per il ridisegno dei collegi elettorali. Altre facili modifiche migliorerebbero le cose. Riformare il sistema di finanziamento dei partiti per rendere pubblici i nomi di tutti i contribuenti ridurrebbe l’influenza di interessi particolari. Il Parlamento europeo potrebbe chiedere ai suoi membri di presentare le ricevute di ogni spesa. Il Parlamento italiano ha troppi membri che sono pagati troppo, e due camere con uguali poteri, cosa che rende difficile concludere qualunque cosa.
Ma i riformatori devono essere molto più ambiziosi. Il modo migliore per limitare il potere degli interessi particolari è limitare il numero di cose di cui lo Stato può occuparsi. E il modo migliore per affrontare il disincanto popolare verso i politici è ridurre le promesse che questi possono fare. In più, per l’analisi dell’Economist l’espansione inarrestata dei ruoli e impegni dei governi sta riducendo le libertà e consegnando maggiori poteri agli interessi particolari. La chiave per una democrazia più sana, in breve, è uno Stato più leggero: “le democrazie mature, come quelle nascenti, richiedono adeguati interventi di limitazioni e garanzie sui poteri dei governi eletti”.
L’Economist fa alcuni esempi di quello che i governi dovrebbero fare per autolmitare i propri poteri e i propri eccessi di promesse non mantenute: norme fiscali rigide, come quelle della Svezia che si è impegnata a riequilibrare il bilancio nei termini di un ciclo economico; “sunset clauses”, ovvero clausole che diano una scadenza ad alcune leggi ogni dieci anni, per esempio, e un obbligo alla loro revisione; commissioni indipendenti che progettino riforme a lungo termine (la Svezia ha salvato il proprio sistema pensionistico grazie alle riforme pragmatiche e concrete suggerite da una commissione terza; in Cile ha avuto successo un’iniziativa politica per la gestione dei prezzi e della produzione del rame, seguita da una simile commissione di esperti). Avendo cura di delegare potere con parsimonia e oculatezza, senza consegnarlo alle tecnocrazie in assenza di adeguata misura e controllo.
Simmetricamente, maggior potere di decisione va consegnato in basso, agli elettori, attivando consultazioni, coinvolgimento e innovazione. Anche qui con l’attenzione necessaria a evitare che un eccesso di democrazia diretta favorisca gli interessi di gruppi e poteri particolari: costi e attuabilità di possibili referendum dovrebbero essere valutati da commissioni superiori, per esempio, e le due forze possono equilibrarsi a vicenda: “il trucco è trattare con le due forze del localismo e della globalizzazione, invece che ignorarle o opporvisi: e così renderle partecipi del rafforzamento della democrazia invece che della sua demolizione”.
L’Economist fa gli esempi della California e della Finlandia, dove simili approcci sono stati concretizzati con successo in questi anni: in Finlandia il Parlamento deve prendere in considerazione le proposte popolari che abbiano almeno 50 mila firme; in California un ricorso eccessivo a referendum di ogni tipo aveva messo in grande difficoltà i bilanci dello stato ma una serie di recenti interventi ha dato buoni risultati, favorendo quesiti e decisioni con conseguenze sul medio-lungo periodo, invece che con conseguenze sul breve periodo e spesso contraddittorie.
La democrazia è stata la vincitrice degli scontri ideologici del XX Secolo: se vuole rimanere vittoriosa anche ne XXI, deve essere allevata con costanza quando è giovane e premurosamente curata quando è matura.
foto: PEDRO ARMESTRE/AFP/Getty Images