Guida alle proteste in Venezuela
Perché sono le più importanti degli ultimi anni, dove sono nate (non a Caracas), cosa c'entra Chávez e quali risultati possono realisticamente raggiungere
Nelle ultime due settimane in Venezuela sono morte almeno 14 persone per le violente proteste contro il presidente socialista Nicolás Maduro. Le manifestazioni – le più grandi tenute nel paese dalla morte dell’ex presidente Hugo Chávez, il 5 marzo 2013 – sono iniziate a San Cristóbal, la capitale dello stato di Táchira, e si sono poi diffuse in tutto il paese, anche a Caracas: stanno mettendo in luce i fallimenti delle politiche adottate dal partito socialista venezuelano (PSUV) negli ultimi 15 anni, rimasti nascosti almeno in parte grazie alla popolarità e al carisma di Chávez e alle entrate del settore petrolifero, e stanno contribuendo all’ascesa di un nuovo importante leader dell’opposizione, Leopoldo López. Sui giornali di tutto il mondo se ne sta parlando relativametne poco, anche per la concomitanza con gli ultimi importanti eventi in Ucraina, ma ci sono diversi motivi per cui vale la pena capire che sta succedendo e superare l’idea che siano le “solite proteste in Venezuela”.
La guerriglia urbana a San Cristóbal
Nonostante la stampa internazionale abbia seguito le proteste venezuelane principalmente da Caracas, la capitale del paese, le prime manifestazioni contro Maduro sono iniziate a San Cristóbal, la capitale dello stato di Táchira, vicino al confine con la Colombia. Qui, racconta il New York Times, da giorni anche i quartieri più tranquilli si sono trasformati in un campo di battaglia, con la polizia locale e la Guardia Nazionale inviata dal governo centrale: all’alba, invece che andare al lavoro e portare i figli a scuola, gli abitanti di alcuni quartieri borghesi hanno preso l’abitudine di accatastare massi da lanciare contro la polizia, costruire barricate e assistere alla fabbricazione di bombe molotov da parte degli studenti.
Il sindaco di San Cristóbal si chiama Daniel Ceballos, è stato eletto a dicembre ed è membro del partito di opposizione “Voluntad Popular” guidato da Leopoldo López, il leader emergente nelle file dell’opposizione delle recenti proteste venezuelane. Come il capo del suo partito, nelle ultime settimane Ceballos ha sfidato più di una volta il presidente Maduro, parlando apertamente di «repressione» governativa nello stato di Táchira. La rottura definitiva è arrivata mercoledì 19 febbraio, quando il ministro degli Interni e della Giustizia venezuelano, Miguel Rodríguez Torres, ha annunciato la militarizzazione dello stato di Táchira a causa delle proteste, che intanto si erano diffuse in diverse città della zona. Rodríguez Torres, tra le altre cose, ha sospeso tutte le licenze per la concessione del porto d’armi e ha inviato a Táchira la Guardia Nazionale per ristabilire l’ordine. Il presidente Maduro ha anche detto che non avrebbe esitato a imporre lo stato di emergenza nella città nel caso in cui le misure adottate non fossero state sufficienti a fermare le violenze.
Alfredo Meza, giornalista di El País esperto di cose venezuelane, ha commentato cosí l’annuncio di Maduro:
«Una dichiarazione di questo tipo non era mai stata fatta nei 15 anni di governo Chávez. Nemmeno nei momenti peggiori – tra cui un breve colpo di stato nel 2002 e uno sciopero di due mesi nel settore petrolifero del Venezuela, da cui provengono le maggiori rendite per lo Stato – Chávez accennò a questa possibilità. […] Ad ogni modo, secondo la ricostruzione dei fatti realizzata da Maduro, ciò che sta succedendo a San Cristóbal segue la logica delle operazioni del paramilitarismo colombiano, il cui responsabile – sempre secondo la sua versione – sarebbe il sindaco di opposizione Daniel Ceballos»
I quattro problemi del Venezuela, più uno
I problemi del Venezuela, sintetizzando, sono principalmente quattro. Primo, la mancanza di sicurezza: la violenza in Venezuela ha raggiunto livelli altissimi – secondo l’ONG Osservatorio Nacional de Violencia nel 2013 ci sono stati 79 omicidi ogni 100mila abitanti, a Caracas si muore in media più che a Baghdad – e la fiducia verso la polizia livelli bassissimi. Secondo, la scarsità di molti beni di prima necessità (tra cui il latte per i bambini, l’insulina per i diabetici, la carta igienica, la farina di mais precotta necessaria per fare le arepas, pannolini, caffè..) e un’inflazione che supera il 50 per cento: tutto questo nonostante il fatto che il Venezuela sia uno dei più grandi esportatori di petrolio al mondo. Terzo, i continui blackout durante i quali si ferma un po’ tutto e che possono durare anche più di 24 ore: il sistema elettrico nazionale è gestito infatti da una sola società, la Corpoelec, che però usa strutture per la produzione e la trasmissione dell’energia fatiscenti e spesso non funzionanti.
Quarto, le politiche illiberali del governo: incarcerazione dei leader delle opposizioni, chiusura di canali televisivi e controllo sui giornali locali, a cui si è aggiunta lo scorso novembre la decisione del parlamento di conferire poteri straordinari a Maduro, che gli permettessero di governare per decreto per 12 mesi. A tutto questo va aggiunto un altro elemento di grande discontinuità rispetto al passato: Maduro non è Chávez, né per carisma né per popolarità. Il messaggio politico che l’ex presidente usava per alimentare il suo consenso si basava sulla denuncia del passato e sulla promessa di un futuro migliore per tutti. Per i venezuelani con meno di 30 anni – la maggior parte della popolazione – la politica è sempre stata identificata nel “chavismo”: con la morte di Chávez questo modello è stato considerato in qualche modo superato, senza però che portasse i benefici che erano stati promessi. Anche la retorica anti-americana e anti-imperialista ha perso la sua efficacia nel discorso politico venezuelano, diventando spesso oggetto di prese in giro e parodie da parte delle opposizioni.
Le proteste sulla stampa locale e straniera, e qualche inaccuratezza
Fin dall’inizio la stampa venezuelana ha minimizzato le proteste e ha descritto i membri delle opposizioni come dei “fascisti”. Il racconto delle manifestazioni e degli scontri con la polizia è rimasto per lo più nelle mani dei giornali stranieri – accusati da Maduro di fare propaganda politica contro il suo governo: tra i più criticati ci sono la CNN e la rete colombiana NTN24 – e degli stessi venezuelani, grazie soprattutto all’uso dei social network (su Twitter l’hashtag usato per organizzare le proteste è #24GranBarricadaNacional).
Come ha scritto sull’Atlantic Moisés Naím, ex ministro dell’Industria e del Commercio venezuelano negli anni pre-Chávez ed ex direttore del mensile Foreign Policy, c’è stata una certa inaccuratezza sui media stranieri nel descrivere le proteste in Venezuela, viste per lo più come ennesimo confronto politico tra un governo anti-americano schierato dalla parte dei poveri e un’opposizione identificata nella classe media troppo goffa e impopolare per vincere le elezioni. Secondo Naím la realtà non è proprio così, per diverse ragioni: anzitutto perché alle ultime elezioni presidenziali del 14 aprile 2013 Maduro ha battuto il suo avversario, Henrique Capriles, solo per l’1,5 per cento dei voti, un margine così ristretto che è difficile continuare a sostenere l’inconsistenza delle opposizioni. Inoltre perché le opposizioni non sono più rappresentanti solo della cosiddetta “classe media” venezuelana (che è molto ristretta, e se fosse così non tornerebbero i conti sulle preferenze ottenute da Capriles alle ultime elezioni), ma anche di buona parte di quei poveri di cui Maduro dice di essere unico rappresentante.
Il dualismo Capriles-López nell’opposizione venezuelana
Nonostante i problemi per Maduro e i passi avanti dell’opposizione a livello di consenso, molti esperti credono sia improbabile una caduta del presidente in tempi brevi: Maduro gode ancora dell’appoggio di parte delle fasce più povere del paese – quelle che negli anni passati hanno beneficiato della cosiddetta “rivoluzione bolivariana” condotta da Chávez – e dell’esercito. Ma soprattutto alcune situazioni interne alle opposizioni hanno indebolito l’azione di coloro che vogliono cambiare le cose. Lo sfidante di Maduro alle ultime elezioni presidenziali è stato Henrique Capriles, governatore dello stato di Miranda e leader della Mesa de la Unidad Democrática (MUD). Da diverse settimane Capriles ha adottato un atteggiamento piuttosto moderato e pragmatico nei confronti delle proteste, molto diverso da quello espresso da Leopoldo López, figura emergente dell’opposizione venezuelana.
Leopoldo López sta raccogliendo molto interesse anche nella stampa straniera, per il suo particolare profilo: 42 anni, di bell’aspetto, è stato sindaco di una municipalità di Caracas e soprattutto è laureato a Harvard. La sua retorica è appassionata e decisa, come ha dimostrato in un videomessaggio diffuso poco dopo il suo arresto il 19 febbraio scorso: «Siamo dalla parte giusta della storia. Dalla parte della giustizia», ha detto López, invitando tutti i venezuelani a continuare la campagna di “resistenza” per forzare alle dimissioni Maduro. Lui e Capriles, come spiega El País, hanno mostrato di avere una visione strategica diversa in queste ultime settimane: mentre López sta costruendo il suo consenso attorno alla fermezza e allo slogan “Salida” (“Uscita”, nel senso di rinuncia al potere di Maduro), Capriles ha ricordato ripetutamente alla stampa della necessità di rinunciare agli atti di violenza nelle manifestazioni e di affiancare alle proteste un programma sociale specifico. Il risultato per ora è una scarsa unità strategica e di intenti, e un indebolimento relativo del fronte di opposizione.