Steven Bradbury, l’ultimo rimasto in piedi
Nel 2002 un incredibile minuto e mezzo rese famoso in tutto il mondo un pattinatore olimpico australiano, generò un'espressione gergale e una specie di culto
di Luca Misculin – @LMisculin
Il 13 febbraio alle Olimpiadi di Sochi una brava atleta italiana, Arianna Fontana, ha vinto la medaglia d’argento nei 500 metri del pattinaggio short track, nonostante sia caduta e sia arrivata terza: e questo perché gli arbitri hanno squalificato l’atleta arrivata seconda, considerandola responsabile della caduta di Fontana e di un’altra finalista. Cinque giorni dopo, il 18 febbraio, Arianna Fontana è tornata in pista con la staffetta italiana dello short track. Nei giri finali della gara Fontana è caduta e l’Italia ha concluso all’ultimo posto: successivamente i giudici hanno squalificato la squadra cinese, arrivata seconda, e l’Italia ha vinto così la medaglia di bronzo.
Storie del genere non sono insolite nello short track, una disciplina dove l’alta velocità degli atleti e le ridotte dimensioni della pista (110 metri) rendono facilissimo scontrarsi e in cui, oltre al valore tecnico e atletico di chi gareggia, il caso finisce per giocare spesso un ruolo non indifferente nel determinare i risultati. Ogni volta che accade qualcosa dal genere, da dieci anni a tutti viene in mente la stessa storia: la vicenda recente più clamorosa e spettacolare del pattinaggio short track. E dicono tutti lo stesso nome, lo avrete sentito pronunciare più volte dai telecronisti se state seguendo le Olimpiadi di Sochi: Steven Bradbury.
Steven Bradbury oggi ha 40 anni, è australiano ed è stato un atleta professionista di pattinaggio short track. Nel corso della sua carriera ha vinto tre medaglie ai campionati mondiali di short track e due alle Olimpiadi, la maggior parte delle quali fra il 1991 e il 1994. Ma è diventato celebre improvvisamente grazie alla vittoria nei 500 metri alle Olimpiadi Invernali di Salt Lake City, nel 2002. Fu la prima medaglia d’oro nella storia dell’Australia alle Olimpiadi Invernali e la vinse in modo pazzesco e fortunoso. Qualcuno, negli anni, si è addirittura chiesto se quella di Bradbury sia stata «la vittoria più fortunata alle Olimpiadi» – ma ci arriviamo.
Dall’inizio
All’inizio della sua carriera, Bradbury era considerato un pattinatore piuttosto promettente. Nel 1994, a 21 anni, aveva già ottenuto tre medaglie ai Mondiali di short track – sebbene tutte in gare di staffetta – e un terzo posto alle Olimpiadi Invernali di Lillehammer, in Norvegia. Poi, nel 1994, durante una gara di Coppa del Mondo, ebbe un gravissimo incidente con altri pattinatori durante la gara: come raccontò lui stesso, «uno dei loro pattini mi trapassò il quadricipite da parte a parte. Mi dovettero mettere 111 punti, e persi quattro litri di sangue».
Si riprese, tornò a buoni livelli e gareggiò alle Olimpiadi del 1998. Andò male: fu coinvolto in scontri con altri pattinatori nelle batterie dei 500 e 1000 metri individuali e uscì subito; la staffetta, i cui componenti erano per tre quarti quelli che vinsero il bronzo quattro anni prima, arrivò ultima nella finale B, quella che serve a determinare le posizioni dalla quarta in poi. Due anni dopo, nel settembre del 2000, Bradbury ebbe un altro incidente, stavolta in allenamento: batté la testa contro il bordo della pista, si ruppe il collo e due vertebre.
Alle Olimpiadi di Salt Lake City, nel 2002, Bradbury arrivò da atleta praticamente finito, con due gravissimi infortuni alle spalle e anni di risultati mediocri. Si iscrisse comunque a tutte e quattro le gare per atleti di short track: staffetta a squadre, 500, 1000 e 1500 metri individuale. Partecipò alla gara dei 1000 metri e vinse la propria batteria: ai quarti di finale, però, arrivò terzo e sulle prime venne eliminato: nello short track, infatti, passano sempre i primi due classificati (si corre al massimo in cinque, data la limitata larghezza del tracciato). Ma il giapponese Naoya Tamura, che era arrivato sette decimi avanti a lui, fu squalificato: Bradbury fu così ripescato in semifinale.
Nella semifinale, che si disputò lo stesso giorno dei quarti, Bradbury partì malissimo. L’allora commentatore della RAI Franco Bragagna, dopo appena una curva della gara commentò: «fuori dalla lotta, quasi certamente [c’è] solo Steve Bradbury». Bradbury racconta che la sua strategia era stare dietro e «aspettare che qualcuno facesse un errore o che ci fosse uno scontro». Accaddero entrambe le cose: il coreano Kim Dong-Sung, che era secondo, durante l’ultimo giro perse l’equilibrio in seguito a un contatto e finì a bordo pista. Nel rettilineo finale, quando Bradbury era ancora al quarto posto, il giapponese Satoru Terao scivolò e si tirò dietro il canadese Mathieu Turcotte. Da ultimo che era, Bradbury si ritrovò a entrare in semifinale come secondo.
Bradbury, comprensibilmente, entrò in finale senza grandi speranze di ottenere una medaglia. Lui stesso, in un’intervista all’edizione australiana del Daily Telegraph, ha raccontato cosa pensò prima e durante la finale:
«Speravo soltanto di trovare un’energia inaspettata nelle mie gambe, ma ero piuttosto scettico a riguardo: ero il più vecchio di tutta la competizione. Devi correre quattro gare in due ore e ti fanno fare solo mezz’ora di pausa. Non era realistico, per me, fare quattro gare in quel lasso di tempo. Non ero più nel fiore degli anni. Non avevo più le capacità di recupero di un tempo»
Bradbury ha raccontato che anche in finale adottò la stessa strategia della gara precedente: «me ne stavo fuori dal gruppo, aspettando che gli altri facessero degli errori. Speravo di ottenere una medaglia».
La finale
Bradbury restò dietro, ultimo, fin dall’inizio della gara. Ma anche stavolta all’ultima curva dell’ultimo giro successe qualcosa: Bradbury era indietro di qualche metro rispetto ai primi quattro quando il cinese Li Jiajun, che era terzo, inciampò dopo un contatto con l’americano Apolo Anton Ohno. Jiajun, quello con il numero 324 sul casco, andò a sbattere contro il bordo della pista.
Cadendo, però, Li toccò con la mano sinistra il pattino destro del coreano Ahn Hyun-Soo, quello con la tuta gialla, che rimase in piedi per una frazione di secondo prima di andare a sbattere contro Ohno, che gli stava davanti. Il canadese e numero 319 Mathieu Turcotte, che stava arrivando poco dietro, se lo ritrovò fra i piedi. Cadde anche lui.
Bradbury era così indietro che quando passò nel tratto dello scontro i suoi avversarsi erano già scivolati a bordo pista. Negli ultimi metri, quando capì di aver vinto, sembrò persino rallentare. Era l’unico rimasto in piedi, di nuovo: vinse la medaglia d’oro.
Ohno e Turcotte riuscirono in qualche modo a rialzarsi e arrivarono rispettivamente secondo e terzo. Ricorda Bradbury: «Non ero sicuro se avessi dovuto festeggiare oppure andare a nascondermi in un angolo». Nelle interviste date poco dopo alla gara, Bradbury insistette sul fatto di considerarsi «l’uomo più fortunato del pianeta» e di «avere sentimenti contrastanti riguardo l’aver vinto in questo modo». Moltissimi media internazionali parlarono di lui e della sua storia.
Il video integrale della finale vinta da Bradbury
Nel corso delle stesse Olimpiadi, Bradbury partecipò ad altre tre gare: fu eliminato in batteria nei 1500 metri e nei quarti di finale dei 500. Nella gara di staffetta, la squadra australiana arrivò sesta su sette squadre partecipanti. Quattro giorni dopo la vittoria nei 1000 metri, le poste australiane dedicarono a Bradbury un francobollo in cui posava con la medaglia. Alla fine delle Olimpiadi, Bradbury si ritirò dall’attività agonistica.
Dopo Salt Lake City
Dal 2002 a oggi Bradbury ha fatto un sacco di cose: ha commentato le Olimpiadi Invernali del 2006 per la tv australiana, ha pubblicato un’autobiografia intitolata Last Man Standing (“L’ultimo uomo rimasto in piedi”), ha partecipato alla versione australiana di “Ballando con le stelle” e ha corso diverse gare automobilistiche dei circuiti australiani. Come racconta lui stesso, divenne così popolare che quando nel 2004 fece un viaggio a Oslo, in Norvegia, veniva fermato «in continuazione, per una foto o un autografo».
Oggi ha un account Twitter ed è diventato uno speaker di discorsi motivazionali nei quali descrive la Never-Give-Up-Attitude (“L’atteggiamento di chi non molla mai”): quando si accede al suo sito ufficiale, Bradbury appare in un video di quattordici secondi nel quale con il suo buffo accento australiano sostiene di poter «aiutarvi a migliorare il vostro atteggiamento mentale, e quindi a puntare all’oro [mostrando sorridente la sua medaglia]».
Nel frattempo “doing a Bradbury” è diventata un’espressione gergale, in Australia e nel linguaggio sportivo più esteso: secondo Urban Dictionary significa «vincere in seguito a circostanze miracolose». Più in generale, Bradbury è diventato oggetto di una strana ammirazione e popolarità, sia fra quelli che credono sia stato una sorta di “vincitore per caso” sia fra quelli che lo ammirano per “non avere mollato mai” (ma anche questo è controverso: si potrebbe dire invece che Bradbury ha “mollato subito”, e ha sperato che le cose per lui funzionassero comunque).
Ancora nell’intervista al Telegraph, Bradbury ha raccontato che spiegazione si sia dato nel corso degli anni per la propria vittoria a Salt Lake City.
«Tra chi ha successo nel suo campo, nessuno appare un paio di settimane prima di ottenere un grande risultato. Non esiste. Vale anche per me. L’ho già detto in passato: non ho accettato la medaglia d’oro per quel minuto e mezzo di gara, ma per i dodici anni di carriera che mi hanno portato fino a quel minuto e mezzo»
prima foto: TIMOTHY A. CLARY/AFP/Getty Images
seconda foto: Mike Hewitt/Getty Images
terza foto: Steve Munday/Getty Images