Nove belle canzoni di Rufus Wainwright
E un po' di cose da sapere sul teatrale cantautore canadese che stasera canta a Sanremo
Rufus Wainwright è un cantautore canadese, nato a New York nel 1973, che ha guadagnato popolarità negli Stati Uniti presso una nicchia di pubblico sempre più estesa nei primi anni del Millennio, mescolando testi sentimentali e melodrammatici, arrangiamenti barocchi e teatrali, una voce notevole e una rivendicazione di temi romantici gay. Negli stessi anni Wainwright ha ottenuto discrete notorietà anche in molti altri paesi del mondo, e attenzioni e ammirazioni da parte di critici e appassionati di musica indipendente e originale (e stime e collaborazioni con diversi suoi colleghi musicisti), pur non raggiungendo mai le posizioni visibili delle classifiche di vendita o notorietà mainstream.
Nel suo libro Playlist, la musica è cambiata, il peraltro direttore del Post Luca Sofri lo presentava così, scegliendo nove delle sue canzoni.
Rufus Wainwright
(1973, Rhinebeck, NewYork)
Per raccontare Rufus Wainwright ci vorrebbero almeno tre pagine. Figlio di un celebrato cantautore folk, Loudon, e di una madre cantante anche lei (come Martha, sua sorella). Nato nello stato di New York, ma vissuto a lungo in Canada prima di tornare a Manhattan. Dichiaratamente gay e piuttosto fiero di esserlo da quando era ragazzino (e fu violentato a Londra a 14 anni). Gran musicista, soprattutto al pianoforte, e inventore di uno stile tutto suo, fatto di canzoni pop con un debole per l’opera e l’enfasi melodrammatica (una via di mezzo tra Billy Joel e Sarah Vaughan), adorato da molti suoi colleghi senza aver mai svoltato con le vendite, innamorato di citazioni colte e riferimenti religiosi. In estrema sintesi.
One man guy
(Poses, 2001)
Era una canzone di suo padre Loudon, scritta come inno alla solitudine maschile. Nella versione di Rufus divenne anche un proclama fiero della propria omosessualità: “people will know when they see this show the kind of a guy I am”. Il coro del refrain è spettacolare, e lo canta anche sua sorella Martha.
Vicious world
(Want one, 2003)
“È una di quelle canzoni che suonano allegre, ma il cui testo è triste e per questo funzionano: il mio papà le chiamava ‘happy blues’”.
14th street
(Want one, 2003)
Un supercoro teatrale per annunciare che lui torna a casa, e di voialtri che gli avete spezzato il cuore chissenefrega.
Go or go ahead
(Want one, 2003)
Prima di questo disco Wainwright era stato malissimo, incasinato terribilmente in una tossicodipendenza durante la quale scrisse “Go or go ahead” (e gli venne un refrain sensazionale, supremo) proprio sull’affrontare se stesso e quella condizione: «ci sono molte metafore e nomi mitologici, fu un momento molto Rimbaud».
I don’t know what it is
(Want one, 2003)
L’idea del verso “non so cosa sia, ma devi farlo; non so dove sia ma devi andarci” gli venne a una festa a New York in onore dell’improvviso successo degli Strokes, dove “tutti sentivano che c’era qualcosa in giro, ma senza sapere cosa, o cosa fosse figo”. «C’è una certa confusione nel music business» commentò ancora a proposito di quella serata. Poi la canzone diventò una cosa più personale.
Hometown waltz
(Want two, 2004)
Sul tornare a casa, a Montreal, con tutto quel che significa in termini di regressione.
Gay messiah
(Want two, 2004)
“Risorgerà dal porno degli anni Settanta e porterà dei calzettoni tubolari, con stile, e un sorriso innocente. Pregate per i vostri peccati perché il messia gay sta arrivando” Ha spiegato l’autore che «questa canzone è per i gay quello che è stata La passione di Cristo per i cristiani, una canzone di protesta». L’espressione “give head” che qui sembra alludere al porgere la testa alla decapitazione – “io sarò Rufus il Battista: chiederanno la mia testa e io mi inginocchierò e gliela porgerò” – significa anche fare un pompino.
King of the road
(Brokeback mountain, 2005)
Una vecchia e famosa canzone di Roger Miller, sulla vita per la strada. La incise per la colonna sonora di Brokeback Mountain, assieme a Teddy Thompson, altro figlio d’arte, inglese.
Going to a town
(Release the stars, 2007)
“I’m so tired of America”: probabilmente nessuna presidenza ha arricchito e insieme impoverito tanto i testi del rock americano come quella dei George W. Bush. A forza di lamentarsi – più che legittimamente – gli artisti sono spesso diventati noiosi, oltre a rivelare la loro totale inefficacia politica: Bush ha fatto due mandati, solidi. Tra le eccezioni, la sincerità di Rufus Wainwright, che si augura di andare in un posto migliore: “ho una vita da vivere, America”.