La fatwa contro Salman Rushdie
Che vive ancora sotto protezione dopo 25 anni: venne condannato a morte dall'ayatollah Khomeini per aver scritto un romanzo
Il 14 febbraio del 1989, 25 anni fa ieri, l’ayatollah Ruhollah Khomeini, il leader politico e religioso dell’Iran, annunciò alla radio la condanna a morte dello scrittore di origine indiana Salman Rushdie. La colpa di Rushdie, che in quel momento si trovava a Londra, era aver scritto I versi satanici (The Satanic Verses), un romanzo in cui – secondo Khomeini – Rushdie insultava la religione islamica e il suo profeta. Quella di Khomeini era una fatwa, cioè la sentenza emessa da un’autorità religiosa e teoricamente vincolante per tutti i musulmani. Venticinque anni dopo quella sentenza è ancora in vigore: fino ad oggi ha causato la morte del traduttore giapponese del libro, il ferimento del traduttore italiano e dell’editore norvegese, la distruzione di diverse librerie in tutto il mondo e continua a costringere Rushdie a vivere nascosto, sotto la protezione del governo britannico.
La fatwa
Nel mondo dell’editoria ci si aspettava che l’ultimo libro di uno dei più celebri scrittori in lingua inglese avrebbe portato a qualche controversia. Christopher Hitchens, lo scrittore e giornalista morto nel 2011 e amico di Rushdie, scrisse nella sua biografia, Hitch 22, che Rushdie aveva inviato una copia del manoscritto ad un amico con un biglietto che diceva più o meno: «Vorrei che ci dessi un’occhiata perché potrebbe turbare qualche credente».
Rushdie all’epoca aveva 42 anni ed era già uno scrittore molto affermato, arrivato al suo quarto romanzo. Quello che avrebbe “turbato” una parte del mondo islamico, nella previsione di Rushdie, era l’aneddotto che dava il nome al libro, la storia dei “versi satanici”. Si tratta di un racconto apocrifo e molto antico che riguarda la vita di Maometto e che Rushdie romanzò in un capitolo del suo libro. Nel racconto Maometto viene ingannato dal diavolo che gli suggerisce un passo del Corano (ci torneremo dopo).
In Occidente, almeno all’inizio, furono pochi i lettori che capirono a cosa Rushdie si stesse riferendo in quell’aneddoto. I nomi dei luoghi e dei personaggi infatti erano stati cambiati: Maometto era diventato Manhoud e la città della Mecca era stata cambiata in Jaihilia. Fuori dall’Europa e dagli Stati Uniti, invece, i riferimenti vennero colti molto in fretta. I versi satanici venne pubblicato il 5 ottobre del 1988. Nove giorni dopo il parlamento indiano – il paese dove Rushdie era nato – ne vietò l’importazione in tutto il paese.
Inizialmente la cosa non fece molto rumore, ma alla fine di novembre quasi tutti i paesi a maggioranza musulmana del mondo, insieme a Sudafrica e Thailandia, avevano vietato la vendita del libro. Alla fine di ottobre l’editore del libro, la Viking Penguin, aveva già ricevuto decine di migliaia di lettere di proteste, mentre Rushdie cominciò ad annullare i viaggi e a farsi accompagnare da alcune guardie del corpo. Ma le cose stavano peggiorando rapidamente.
Nel dicembre del 1988, nel Regno Unito, 7 mila musulmani si riunirono nella città di Bolton, nella zona di Manchester, per bruciare in piazza alcune copie del libro. A gennaio una folla ancora più grande organizzò un secondo rogo, mentre numerose associazioni musulmane chiesero al governo britannico di utilizzare una vecchia legge mai applicata, il Blasphemy Act, per bloccare la stampa e la vendita dei Versi satanici. In poco più di tre mesi la controversia era sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo.
Gli episodi più gravi, però, dovevano ancora avvenire. Il 12 febbraio, a Islamabad, in Pakistan, 10 mila persone si riunirono per protestare contro il libro di Rushdie. Durante la manifestazione un gruppo di loro cercò di assaltare il Centro culturale americano. La polizia sparò sulla folla; sei persone vennero uccise e almeno altre cento rimasero ferite. Il giorno dopo, il 13 febbraio, ci fu un altro morto e altre decine di feriti durante una manifestazione a Srinagar, in India. Il giorno successivo, il 14 febbraio, l’ayatollah Khomeini, malato e oramai vicino alla morte, si rivolse a tutti i musulmani del mondo con un messaggio alla radio di stato iraniana:
Informo tutti i buoni musulmani del mondo che l’autore dei Versi satanici, un testo scritto e pubblicato contro la religione islamica, contro il profeta dell’Islam e contro il Corano, insieme a tutti gli editori e coloro che hanno partecipato con consapevolezza alla sua pubblicazione, sono condannati a morte. Chiedo a tutti i coraggiosi musulmani, ovunque si trovino, di ucciderli immediatamente, cosicché nessuno osi mai più insultare la sacra fede dei musulmani. Chiunque sarà ucciso per questa causa sarà un martire per il volere di Allah.
Nel suo ultimo romanzo biografico, Joseph Anton, Rushdie racconta che venne a sapere della sua condanna a morte da un giornalista della BBC. Poco dopo venne contattato dal governo britannico ed entrò in un programma di protezione che cambiò per sempre la sua vita e che non è ancora terminato. Come ha scritto Hitchens, da quel giorno «Rushdie scomparve in una bolla nera di sicurezza totale». Per i primi mesi cambiò residenza ogni tre giorni, non poteva chiamare né incontrare i suoi amici, tranne in occasioni particolari. Dopo poco tempo questa situazione portò alla fine del suo matrimonio.
Da un certo punto di vista, Rushdie fu fortunato: il suo programma di protezione funzionò e non venne mai coinvolto in un attentato. Proteggere un solo uomo, però, era facile. Quello che era impossibile era garantire protezione a tutti “gli editori e a chiunque altro avesse partecipato alla pubblicazione del libro”. Furono loro che vennero colpiti più gravemente. Due anni dopo la fatwa, l’11 luglio 1991, Itoshi Sagurashi, che aveva lavorato alla traduzione del libro in giapponese, venne ucciso nel suo ufficio all’università di Tokyo. Una settimana prima, a Milano, il traduttore italiano Ettore Capriolo era stato accoltellato e picchiato da uno sconosciuto assalitore. Due anni dopo, l’11 ottobre 1993 l’editore norvegese del libro, William Nygaard, venne ferito con tre colpi di pistola fuori dalla sua casa ad Oslo. Anche se in nessuno dei tre casi sono stati individuati i responsabili, gli episodi sono universalmente considerati collegati con la fatwa che riguarda il libro.
I versi satanici
Alla fine degli anni Ottanta Salman Rushdie, nato nel 1947 a Bombay ed emigrato da giovane nel Regno Unito, era già uno dei più celebri scrittori del mondo anglosassone. Il suo secondo romanzo, I figli della mezzanotte, aveva vinto nel 1981 uno dei più importanti premi della letteratura in lingua inglese, il Booker Prize, oltre ad aver venduto centinaia di migliaia di copie in tutto il mondo.
I versi satanici non è un romanzo semplice e in molti, tra cui lo stesso Rushdie, dubitano che la gran parte dei suoi critici lo abbiano mai letto – anche perché non è mai stato tradotto in arabo, urdu o farsi, le lingue dei principali paesi musulmani. Il libro è lungo più di 600 pagine, è pieno di riferimenti culturali e linguistici difficili da capire per chi non conosca bene la letteratura inglese, ma anche per coloro che non sono cresciuti o non conoscono molto bene l’India e l’Asia orientale.
Il romanzo, in sostanza, è una storia tipica della produzione di Rushdie, il racconto della vita di due emigrati indiani nell’Inghilterra contemporanea. I due protagonisti sono due attori indiani di origine musulmana; uno ha un grande successo a Bollywood, mentre l’altro ha rinunciato alle sue radici e lavora come doppiatore nel Regno Unito. All’inizio del romanzo i due protagonisti sopravvivono in modo soprannaturale a un attentato che distrugge l’aereo su cui stanno viaggiando.
Nel resto della storia, che prosegue in maniera sempre più onirica e magica, i due cominciano a trasformarsi. Il primo diviene simile a un angelo, mentre il secondo comincia a assomigliare ad un demone. Mentre all’inizio i ruoli di bene e male sembrano chiari, con l’avanzare del racconto la trasformazione angelica si rivela una sorta di schizofrenia, mentre l’altro personaggio, il demone, sembra riuscire a redimersi. Alla fine il doppiatore si riconcilia con le sue radici indiane, mentre la star di Bollywood, sempre più alienata dal suo passato, si suicida.
La parte più controversa del libro non occupa più di 70 pagine ed è la descrizione di un lungo sogno di uno dei protagonisti, la star di Bollywood. In questa scena onirica, Rushdie rielabora un episodio della tradizione islamica – l’episodio dei versi satanici, appunto. Si tratta di un racconto molto antico della tradizione islamica che però non è mai stato inserito nel “canone” ufficiale.
In modo simile ad alcuni passi dei vangeli apocrifi, dove è descritta l’infanzia di Gesù e i dispetti e le piccole cattiverie che commetteva, l’episodio dei versi satanici racconta un momento di debolezza di Maometto. Nella storia il profeta dell’Islam viene ingannato dal diavolo che lo spinge ad annunciare ai suoi concittadini che le tre figlie di Allah (cioè tre antiche divinità pagane del pantheon arabico) erano degne di essere venerate.
Nel libro, Rushdie aggiunge altri dettagli al racconto tradizionale. Quando Maometto rinsavisce, diversi personaggi del sogno (un suo ex seguace, un poeta ubriacone, alcune prostitute) si riuniscono in un bordello e, tra di loro, criticano il profeta, accusandolo di essere uno di loro, un uomo dissoluto, un ubriacone ed un imbroglione. Come forma di disprezzo, alcune prostitute assumono i nomi delle moglie del profeta.
Dopo la fatwa
I versi Satanici è stato il più grande successo della Viking Penguins. Nel maggio del 1989 aveva già venduto 750 mila copie, che negli anni successivi diventarono diversi milioni. Mentre le vendite aumentavano e il caso attirava un’attenzione crescente in tutto il mondo, aumentavano anche le minacce da parte dell’Iran. Diverse istituzioni religiose misero una taglia sulla testa di Rushdie, aumentandola poi diverse volte, e alcuni uomini d’affari iraniani arrivarono ad offrire personalmente ulteriori ricompense.
Movimenti terroristici legati all’Iran, come il gruppo libanese Hezbollah, risposero all’appello di Khomeini promettendo di farsi carico dell’assassinio. Nel maggio del 1989, ad esempio, alcuni cittadini britannici vennero presi in ostaggio in Libano: vennero liberati dopo alcuni mesi di trattative, ma i rapitori promisero che ci sarebbero state altre rappresaglie contro Rushdie e chi lo proteggeva. Nonostante la retorica fiammeggiante, nel corso degli anni, le autorità iraniane hanno più volte lasciato intendere la possibilità di perdonare Rushdie, anche se hanno sempre finito col rimangiarsela.
L’attuale guida suprema dell’Iran Alì Khamenei, all’epoca braccio destro di Khomeini, già il 17 febbraio del 1989 (pochi giorni dopo la fatwa) disse che in caso di scuse la condanna a morte avrebbe potuto essere ritirata. Rushdie si scusò due giorni dopo, ma non servì a nulla: il 19 febbraio Khomeini disse che non avrebbe mai potuto essere perdonato. Nonostante questo Rushdie provò diverse altre volte a scusarsi e nel 1990 arrivò a professare pubblicamente in un articolo la sua fede musulmana e a chiedere alla sua casa editrice di smettere di vendere il libro.
Non servì a molto nemmeno questo. Nel 1998 il governo iraniano dichiarò che non avrebbe mai appoggiato un tentativo di assassinio nei confronti di Rushdie, ma la fatwa non venne comunque ritirata. Nel 2005 Khamenei ripetè che la fatwa era ancora in vigore, poiché soltanto l’autore ha l’autorità per ritirare una fatwa che lui stesso ha emesso. Khomeini morì nel giurno del 1989, senza ritirare la sua sentenza.
Venticinque anni dopo la sua condanna a morte, Rushdie e gli addetti alla sua sorveglianza ritengono che le minacce nei suoi confronti siano diventate molto meno pressanti. La sua vita è divenuta più facile, anche se è sottoposto ancora a molti controlli (nel marzo 2013 ha partecipato in Italia ad una puntata della trasmissione Che tempo che fa, dove è stato intervistato da Roberto Saviano). Nonostante le minacce di morte siano diventate meno pericolose, Rushdie racconta che tuttora, ogni anno, il 14 febbraio, riceve una “specie di cartolina di San Valentino” in cui il regime iraniano gli ricorda che ha ancora intenzione di ucciderlo, ma, dice Rushdie: «Siamo arrivati al punto in cui più che una minaccia reale, è uno sfoggio di retorica».
Davanti all’intransigenza iraniana, Rushdie ha ritirato le sue scuse e la sua professione di fede musulmana. Un giorno, racconta Hitchens, prese una raccolta di saggi in cui era contenuto il suo articolo del 1990, quello in cui dichiarava la sua fede religiosa e chiedeva ancora una volta scusa per il suo libro. Meticolosamente tirò una riga su ogni pagina, aggiungendo la sua firma per certificare il “ripudio” del suo pezzo. Sopra il titolo, “Perché ho abbracciato l’Islam”, aggiunse a penna: “No! Argh!”.