Wondy, la storia di Francesca del Rosso
Una storia di superoismo quotidiano, amici, famiglia e chemioterapie
“Wondy” è il titolo del libro di Francesca del Rosso – giornalista e scrittrice, titolare di un blog sul sito di Vanity Fair – racconta la sua vita familiare complicata da un tumore e dalle chemioterapie. Il sottotitolo del libro, pubblicato da Rizzoli, è “Ovvero come si diventa supereroi per guarire dal cancro”, Wondy sta per Wonder Woman: «Di Wondy mamme, Wondy amiche, Wondy colleghe ne esistono migliaia: lavorano con passione, gestiscono la casa e l’agenda di tutta la famiglia, coltivano le amicizie e hanno cento interessi. Supereroine multitasking che si muovono a velocità supersonica e, nelle avversità, sanno come prendere in mano la situazione senza abbattersi e mantenendo il sorriso».
Questo è il primo capitolo del libro, “Giornata perfetta”.
«Sei una disordinata cronica.» Me lo ripete rassegnato mio marito Ken tutte le volte che non trova nemmeno un piccolo spazio, sul mobile nell’ingresso, per appoggiare le chiavi e il portafogli. Ma se è vero che lo sono in casa – dove spargo pezzetti di carta volanti, vestiti miei e dei bambini, tazze vuote di caffè – sono brava a controllarmi quando si tratta di pensieri, programmi e desideri. Per inseguire le mille idee che partorisco ogni giorno e non so dove mi porteranno, ho imparato sin da bambina a pianificare e a prendere nota di tutto. Nel tempo ho perfezionato questa abitudine e ora tendo a stilare piccole o grandi liste per la mia vita: le cose da fare, le frasi da dire, i viaggi che immagino o i cibi che non ho ancora provato… Se mi guardo intorno, gli unici oggetti che sono sempre in ordine, oltre ai miei intoccabili libri catalogati per casa editrice, sono alcuni quadernetti dalla copertina nera che contengono i miei famigerati elenchi.
Per il resto, sono il prototipo della classica cittadina stressata e le rare volte che mi appisolo di pomeriggio mi sento quasi in colpa. So che è assurdo, ma è più forte di me.
Ho sempre la sensazione di non avere mai abbastanza tempo e così scalpito tra casa, famiglia, lavoro, amici, libri da scrivere e progetti da realizzare. Giornalista, mamma e ottimista di natura, da buona milanese doc corro sempre come una matta in lungo e in largo e ho la terribile abitudine di riempirmi la vita.
Così, quando d’estate arriva il momento delle meritate vacanze, il mio entusiasmo diventa irrefrenabile. Adoro scappare da Milano, tanto che non mi pesa neanche la preparazione della partenza: faccio i bagagli per quattro, vado ad acquistare le attrezzature che mancano per il trekking, i pattini a rotelle o altre diavolerie simili, stampo tutte le informazioni necessarie su eventi, fiere e ristoranti da testare e riesco addirittura a sistemare la casa. Quando all’ingresso si forma spontaneamente una scultura postmoderna realizzata con sacche, valigie, peluche e zaini posti uno sopra l’altro, in un assoluto e precario equilibrio, è ora di partire!
E il momento in cui spengo le luci di casa e giro la chiave della porta blindata è sempre fonte di estrema felicità. Per qualche anno ha fatto parte delle mie liste un buon proposito: “Fare gite fuori porta, tonificarsi in montagna e all’aria aperta!”. Quindi, ora, nel mio calendario c’è sempre un breve appuntamento con le alture sopra a Lecco. Una casetta in affitto che ci aspetta paziente e un panorama mozzafiato che si regala alla finestra del soggiorno.
Inizi di agosto
Oggi abbiamo deciso di fare una lunga passeggiata. C’è una strada sterrata che porta da casa nostra a una baita isolata e vogliamo arrivarci per l’ora di pranzo.
Mentre la Iena e Attila cercano di comporre un puzzle gigante di Pinocchio sul tappeto, Ken e io prepariamo gli zaini. Il mio è pieno di cose: la borraccia con l’acqua fresca, fazzoletti di carta, «Corriere della Sera» e «la Repubblica», occhiali da sole per tutti, cellulari, pacchetti di crackers, due cerotti e chiavi di casa. Ken invece si mette sulle spalle lo zaino porta enfant. Attilino ha quasi due anni e cammina volentieri, ma non conosciamo il sentiero né sappiamo quanto ci metteremo, quindi è meglio essere previdenti.
Ricevo un sms.
“Ciao Wondy, eccoci! Siamo pronti, ci troviamo in cima alla salita fra cinque minuti.”
Digito “Ok”. Vengono con noi anche Roberta, Carlo e i loro due figli della stessa età dei nostri.
«Ragazzi, siamo pronti. Fare pipì e tutti fuori.»
Aiuto i cuccioli ad allacciare gli scarponcini da montagna e vengo assalita da un’ondata di orgoglio. Siamo tutti e quattro in calzoncini, con i calzettoni lunghi e delle magliette trucide, quelle che a Milano non indosseresti mai. Siamo proprio una bella famiglia.
Anche se è il più piccolo, Attila con la palla in mano chiama a rapporto la sorella e gli altri due amichetti, intanto Roby e io ci baciamo ancora mezze addormentate mentre Carlo e Ken danno un’occhiata veloce alla mappa che segna il sentiero da prendere. Non perdiamo tempo e la truppa si incammina a passo lesto. I bimbi giocano a rincorrersi e noi adulti chiacchieriamo senza sosta. Siamo finalmente in vacanza e ci godiamo il fresco delle prime ore del mattino.
I miei cuccioli hanno già trascorso due settimane al mare con i nonni Tati, come chiamano loro mia mamma e suo marito, lasciandoci liberi e permettendoci di assaggiare il sapore delle quasi-ferie in città. Siamo riusciti ad andare al cinema all’aperto in un piccolo chiostro di fianco al tribunale, abbiamo assaporato senza fretta granite siciliane al pistacchio e al caffè, una sera Ken mi ha preparato un’enorme impepata di cozze e abbiamo trascorso meravigliose serate sul divano con il condizionatore acceso, tutte le luci spente, un film thriller davanti, un piatto di sushi sulle gambe e una birra per terra.
Ma bisognava attendere questo momento, in mezzo ai boschi e lontani dal lavoro, per sentirsi davvero in vacanza.
Entrambi giornalisti, siamo reduci da un’annata molto faticosa. Mio marito si alza alle cinque dal lunedì al venerdì e io faccio turni in redazione spalmati su sette giorni. Ho due giornate di riposo ma sono sempre diverse e spesso non ho il weekend libero. Cambio orario di continuo, così a volte mi tocca il primo turno, dalle sei e trenta, a volte l’ultimo, che termina alle ventidue. Non so cosa significhi “bioritmo”, cosa voglia dire fare colazione alle sette e mezzo ogni mattina o cenare tutte le sere in famiglia. Non so cosa voglia dire mettere sempre a letto i bimbi né essere sempre io a svegliarli. Questo succede da moltissimi anni. Quando non avevo figli era meno impegnativo, adesso è molto più complicato. Se non avessi una fantastica tata disposta a fare orari assurdi come me e Ken, non potrei lavorare. Ma ogni cosa che faccio mi è indispensabile, mi dà uno sguardo e un respiro più aperti, tiene in vita progetti e sogni.
Quest’anno poi è più duro degli altri non solo perché i bimbi sono ancora piccoli, ma anche perché sono riuscita a laurearmi di nuovo. Quando ero incinta della Iena avevo deciso di studiare ancora. Avevo scoperto un corso di laurea biennale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche e potevo accedervi con la mia laurea in Filosofia. Mi ero appassionata all’idea e il piano di studi era affascinante: antropologia dello sviluppo, storia del pensiero islamico, antropologia delle religioni… Si trattava di corsi che, speravo, avrebbero colmato i numerosi buchi neri della mia formazione. Ogni giorno si parla di sunniti, sciiti, Corano, jihad e guerre di religione ma anche tra noi giornalisti regna sovrana tanta ignoranza. Volevo saperne un po’ di più. Quando viene a trovarci, mio padre ci ripete sempre che noi giornalisti siamo dei tuttologi che parlano di tutto ma non sanno niente. Devo ammettere che in parte l’egregio-professore-ingegnere ha ragione.
«Sono stanca, quando arriviamo?»
La litania è cominciata. La Iena inizia ad arrancare e a trascinare le suole sullo sterrato, ma la strada è ancora lunga.
«Forza piccoli, che fra poco ci facciamo una super mangiata.» Anche Attilino, che si è appisolato nello zaino cullato dai passi del papà, si è risvegliato e inizia a mugugnare.
Inventiamo giochi, ci mettiamo a cantare tutti e otto e, dopo aver superato un ultimo e faticoso falsopiano, vediamo una deviazione e un’asse di legno con il nome della baita scritto in rosso. «Arrivati al traguardo!» urlano gli uomini e come d’incanto tutti cominciamo ad affrettare il passo.
Ai lati del sentiero ci sono dei cavalli, i bimbi si distraggono e percorrono veloci gli ultimi duecento metri che ci dividono da panche e tavoli in legno. Ken e Carlo vanno dritti dal proprietario e ordinano salumi e formaggi in gran quantità, Roberta e io buttiamo gli zaini per terra e ci sediamo.
Siamo tutti un po’ stanchi, ma è una stanchezza voluta, completamente diversa da quella che ti attanaglia alla fine di una giornata lavorativa. Sento le gambe pesanti, il sudore lungo la schiena ma anche il cuore che pompa e il profumo dell’erba.
Non appena arrivano i vassoi con salame, bresaola e formaggi freschi con il miele sbraniamo tutto.
Il cielo è azzurro, il verde del bosco è luminosissimo, i sorrisi e le risate dei bambini ci aprono il cuore mentre noi grandi sfogliamo con calma i quotidiani del giorno.
Ci stendiamo sul prato. Sbottono la camicetta e mi faccio scaldare dal sole.
I fili d’erba mi fanno il solletico dietro le orecchie e sento formarsi un sorriso sulle mie labbra.
Quando il sole inizia a scendere ci facciamo una serie di fotografie. Il contesto, le pelli leggermente abbronzate, la scenografia, i colori della natura sono spettacolari e nell’obiettivo risaltano la luce degli occhi e i denti bianchi dei nostri sorrisi.
Al ritorno non affrontiamo la passeggiata per la seconda volta, ma raggiungiamo una fermata dell’autobus locale ognuno verso casa propria. Doccia uno dietro l’altro e ci prepariamo una cena leggera a base di carne rossa, insalata e frutta fresca di stagione.
Dopo, tutti in branda.
I piccoli crollano nel loro letto a castello e io e Ken ci facciamo due coccole in attesa di gettarci tra le braccia di Morfeo.
Una giornata d’estate. Perfetta.