Le atlete donne andranno mai forte come gli atleti uomini?
Probabilmente no, ma in certi sport accade già: e questo fa parlare ancora di pregiudizi, discriminazioni e idee "pseudoscientifiche"
David Epstein – giornalista e autore del libro “The Sports Gene” – ha scritto un lungo articolo sul Washington Post su come funzionano le differenze sessuali nello sport e soprattutto alle Olimpiadi, dove le atlete hanno dovuto combattere per decenni contro paternalismo, discriminazioni e disprezzo per ottenere attenzione e riconoscimento. Epstein spiega che intorno al binomio donne-sport ci sono molti “ridicoli” pregiudizi, ma anche che negare l’esistenza di una effettiva differenza biologica tra maschi e femmine non è una battaglia che andrebbe a vantaggio di femministe e sportive.
«Le donne hanno un altro scopo nella vita»
Epstein parte dalle parole pronunciate lo scorso martedì al quotidiano Izvestia da Alexander Arefyev, allenatore della squadra russa di salto con gli sci, disciplina alla quale alle Olimpiadi di Sochi hanno potuto partecipare per la prima volta anche le saltatrici donne (ci sono voluti 90 anni). Arefyev, commentando il debutto, ha detto:
«Io non sono un fan del salto con gli sci femminile. È uno sport piuttosto difficile, con un elevato rischio di infortuni. Una caduta potrebbe non essere fatale per un uomo ma avere conseguenze molto più serie per una donna. Le donne hanno un altro scopo nella vita: avere dei figli, fare i lavori domestici, prendersi cura del focolare».
Il salto maschile con gli sci è sport olimpico fin dai primi Giochi invernali del 1924, ma le donne ne sono state escluse fino a oggi per vari motivi: era una disciplina troppo pericolosa, si riteneva che l’organismo femminile fosse inadatto, non c’erano abbastanza saltatrici (forse proprio perché non era sport olimpico) e così via. In base a tutti questi argomenti e a molti altri, definiti da Epstein «pseudoscientifici», le donne sono state escluse anche da altre discipline: poiché si riteneva che avrebbero rischiato l’infertilità e l’invecchiamento precoce, la gara femminile di corsa degli 800 metri fu eliminata dopo le Olimpiadi di Amsterdam del 1928 (fu riammessa alle Olimpiadi di Roma, nel 1960).
Ancora: per dissuadere Kathrine Switzer a partecipare alla maratona di Boston del 1967 le fu detto che le sarebbe crollato l’utero. A quel tempo la maratona era vietata alle donne: Switzer inviò comunque la sua iscrizione sotto il nome di K. Switzer, senza specificare nel modulo che era una donna; quando il direttore di gara si accorse che una donna stava correndo, intervenne strattonandola fisicamente per farla uscire: alcuni intervennero per difenderla, ne nacque una rissa, lei si divincolò e proseguì la corsa. Cinque anni dopo, anche grazie alle sue battaglie, le donne vennero ufficialmente ammesse.
Gli argomenti contro le donne nello sport, in realtà, risultano particolarmente infondati proprio in relazione al salto con gli sci, che tra gli sport invernali è probabilmente quello con i divari di performance più piccoli tra uomini e donne. Epstein spiega: «se Arefyev fosse riuscito a guardare oltre il proprio pregiudizio, avrebbe potuto notare che il corpo delle donne può essere un vantaggio in quello sport. L’obiettivo, dopo tutto, è essere un proiettile incredibilmente leggero. Le donne possono essere capaci di volare tanto quanto gli uomini, o in alcuni casi anche più lontano». E cita il caso dell’americana Lindsey Van, che nel 2010 aveva stabilito un record assoluto di salto con gli sci ma non poté poi partecipare alle Olimpiadi di Vancouver.
Le donne raggiungeranno gli uomini?
Epstein spiega che dal momento in cui le donne hanno avuto l’opportunità di partecipare alle discipline olimpiche, hanno ottenuto risultati che le hanno portate ad avvicinarsi molto velocemente ai tempi degli uomini. Nel 1992 la rivista Nature pubblicò un articolo di due fisiologi intitolato: “Le donne correranno più velocemente degli uomini?”. Si sosteneva che i tempi di miglioramento delle donne nella corsa erano molto più rapidi rispetto a quelli degli uomini, che il divario si stava progressivamente riducendo e che proiettando tali dati nel futuro le donne sarebbero riuscite a battere gli uomini in tutte le discipline della corsa entro la prima metà del Ventunesimo secolo. In un nuovo articolo del 2004 Nature si chiese se le Olimpiadi del 2156 sarebbero state il «momento storico» in cui le donne avrebbero superato gli uomini nei 100 metri piani. L’anno dopo, sul British Journal of Sports Medicine, il punto di domanda era stato eliminato: nel titolo si dichiarava che «nel lungo periodo le donne ce l’avrebbero fatta».
Epstein si chiede allora se il dominio maschile nei record del mondo possa essere stato influenzato dalla discriminazione contro le donne. E risponde di no. I dati in base ai quali si sosteneva che le donne avrebbero sorpassato gli uomini consideravano la progressione delle prestazioni femminili dal 1950 al 1980 come una traiettoria stabile e costante, ma in realtà si è trattato di un miglioramento molto rapido seguito da un periodo in cui i tempi si sono invece stabilizzati. Le donne hanno insomma probabilmente raggiunto un tetto di velocità massima, a differenza degli uomini che si stanno ancora progressivamente allontanando. Scrive Epstein: «La media del divario tra le prestazioni maschili e quelle femminili nella gare di corsa tra i 100 e i 10 mila metri è generalmente intorno all’11 per cento. (…) Differenze maggiori si verificano nel salto in lungo, dove le donne sono dietro del 19 per cento, e minori nelle gare di nuoto (meno 6 per cento negli 800 metri stile libero».
Insomma, quello che influisce sulle migliori prestazioni maschili è la conformazione corporea: gli uomini sono generalmente più pesanti e più alti rispetto alle donne, hanno arti più lunghi in relazione all’altezza, cuore e polmoni più grandi, meno grasso, più globuli rossi che trasportano l’ossigeno, scheletri più pesanti che supportano più muscoli, fianchi più stretti: «Ma dal momento che queste differenze in genere non compaiono fino alla pubertà, i tempi di maschi e femmine tendono a essere identici prima dei 10 anni. Non c’è dunque alcuna ragione biologica per separarli nelle gare, fino a quel momento».
Negare l’evidenza
Data la lunga storia di discriminazioni che le donne hanno subito (e continuano a subire) anche nello sport, è semplice capire perché alcune sostenitrici dei diritti delle donne hanno in qualche modo negato («fino a raggiungere estremi ridicoli») i vantaggi e i successi maschili in molte discipline.
In un libro del 2007 intitolato “Giocare con i ragazzi”, per esempio, le autrici Eileen McDonagh e Laura Pappano hanno utilizzato dati statistici in modo fuorviante, nel tentativo di dimostrare che le donne sono più veloci rispetto agli uomini e che nelle competizioni non dovrebbe esserci alcuna separazione tra i sessi. Le autrici avevano analizzato i tempi dei primi 207 classificati della maratona di Boston del 2003, e mostrarono che i tempi delle donne erano in media più bassi di alcuni minuti rispetto quelli degli uomini. Ma questo, precisa Epstein, è perché il via per le donne viene dato dai 15 ai 30 minuti prima di quello per gli uomini: «La ragione per cui nello sport ci sono femmine e maschi separati è perché in molte discipline le migliori atlete non possono competere con i migliori atleti». Nel tennis, per esempio, è opinione comune che una campionessa mondiale come Serena Williams o Maria Sharapova possa essere facilmente battuta dal tennista uomo numero 100 al mondo.
«Dobbiamo essere vigili per assicurare che tutte le donne che vogliono competere abbiano la possibilità di farlo, ma l’idea che le prestazioni delle donne debbano essere equivalenti a quelle degli uomini non fa altro che sminuire i risultati delle atlete», conclude Epstein. Il dato biologico non va dunque negato, ma non può nemmeno essere trasformato in uno strumento di discriminazione. Nei casi poi in cui le donne raggiungono risultati uguali o migliori degli uomini, come può accadere nel salto con gli sci, questo «non dovrebbe essere vissuto come un affronto agli atleti di sesso maschile e come invece hanno dimostrato le parole dell’allenatore russo».
Non discriminazione, ma indifferenza
Riprendendo su Slate l’articolo di David Epstein, Amanda Hess (giornalista che si occupa di temi legati alle donne e alla sessualità) aggiunge un elemento. Hess scrive che dare alle donne semplicemente la possibilità di competere è una cosa, ma è solo raccontando i loro successi e accettando di sedersi a guardarle giocare che si cambiano le cose. «Ci piace guardare le donne in sport che non sono codificati come “maschili”, come il pattinaggio artistico e la ginnastica, che enfatizzano l’estetica (nel frattempo gli uomini che eccellono in questi sport “femminili” devono fare i conti con l’omofobia istituzionalizzata). Ma quando si tratta di donne in competizione in discipline tradizionalmente maschili, opponiamo molta più resistenza nella loro promozione».
Amanda Hess cita una ricerca del 2009 in cui si parla, tra l’altro, della copertura olimpica dei media statunitensi. Ne risulta che la NBC ha dato visibilità alle donne nel pattinaggio di figura o nella ginnastica, ma le ha lasciate «nell’invisibilità in molte altre discipline olimpiche». E questo perché «siamo meno propensi a guardare una donna che fa qualcosa che un uomo può fare meglio». Amanda Hess spiega anche che se alle Olimpiadi una maggiore parità di genere è stata raggiunta, «questa si traduce raramente in un serio supporto professionale dopo che i giochi sono finiti» e spiega anche perché negli Stati Uniti l’abbandono di uno sport a livello agonistico da parte delle adolescenti sia sei volte superiore rispetto all’abbandono da parte dei maschi.
Conclude Hess: «Che piaccia o no ad Alexander Arefyev, le donne salteranno a Sochi quest’anno. E mentre la maggior parte dei commentatori non crede che il posto delle donne sia la casa invece di un campo sportivo, un sacco di appassionati di sport hanno voglia di vederle giocare solo se possono fare meglio di un uomo. Il che significa che oggi il più grande ostacolo per gli sport femminili non è un sessismo da spacconi, ma una tranquilla indifferenza».