L’esecuzione di un poeta in Iran
Hashem Shabaninejad era molto popolare nel Khuzestan e difendeva i diritti della minoranza araba: era stato accusato di essere "nemico di Dio"
Il Centro di Documentazione dei Diritti Umani in Iran – organizzazione no-profit con base nel Connecticut, negli Stati Uniti (IHRDC la sigla in inglese) – ha raccontato le esecuzioni di due attivisti arabi in Iran: secondo l’IHRDC si tratta dei due attivisti Hashem Shabaninejad e Hadi Rashedi, entrambi provenienti da Ramshir, nella provincia occidentale iraniana del Khuzestan, ed entrambi condannati alla pena di morte per essere “nemici di Dio”. Da quando Hassan Rouhani è diventato il nuovo presidente dell’Iran, scrive IHRDC, le esecuzioni compiute dallo stato sono state circa 300, molte ai danni della minoranza araba (gli arabi sono il 2 per cento circa della popolazione, mentre i persiani, il gruppo etnico dominante in Iran, sono oltre il 60 per cento). Dall’inizio del 2014, ha detto invece Amnesty International, le esecuzioni sono state oltre 40.
Hashem Shabaninejad, 32 anni, era un popolare poeta locale e un attivista impegnato nella difesa dei diritti della minoranza araba nel Khuzestan. Aveva fondato Al Hiwar (Il dialogo, in arabo), un centro per la diffusione della cultura araba le cui attività erano state bandite dal governo iraniano nel 2005. Shabaninejad era stato incarcerato nel marzo del 2011 con l’accusa di essere un “mohareb”, una figura giuridica che non ha equivalenti nel diritto internazionale ma che può essere tradotto appunto come “nemico di Dio”. Un anno dopo aveva fatto un’apparizione a Press TV, la televisione di stato iraniana controllata dal regime, in cui aveva confessato di avere partecipato ad attività terroristiche con scopi separatisti. Nel luglio del 2013 un tribunale islamico rivoluzionario lo ha condannato a morte insieme ad altre 13 persone, tra le quali c’era anche Rashedi, per «essere nemico di Dio, diffondere corruzione, fare propaganda contro la Repubblica Islamica e agire contro la sicurezza nazionale». Le esecuzioni delle condanne sono state poi confermate dal ministro dell’Informazione iraniano alle famiglie dei due attivisti, ha scritto BBC Arabic.
Nel 2013 il governo iraniano ha eseguito 624 condanne a morte, circa un centinaio in più rispetto al 2012: l’accusa più frequente è stata il coinvolgimento dei condannati in traffici illegali di droga. Secondo diversi esperti e organizzazioni per la difesa dei diritti umani, tuttavia, le condanne a morte sono state pronunciate per colpire i dissidenti politici, specialmente tra le minoranze etniche del paese: per esempio nel novembre 2013 è stata eseguita la condanna a morte dell’attivista curdo Sherko Moarefi, accusato anch’egli di essere un “mohareb” e di appartenere al gruppo di sinistra Komala, considerato dal regime un movimento terrorista. L’Iran oggi è il paese con il più alto numero di esecuzioni per abitante al mondo.
Finora l’elezione alla presidenza dell’Iran di Rouhani non ha avuto l’effetto di provocare una diminuzione delle esecuzioni capitali. Diverse organizzazioni umanitarie lo speravano: Rouhani è visto infatti come il responsabile del processo di riavvicinamento all’Occidente compiuto dal regime iraniano nel corso degli ultimi mesi ed è considerato su diversi temi molto più moderato del suo predecessore, Mahmud Ahmadinejad.