Contro Putin
Chi fa l'opposizione in Russia? Con quali sacrifici, risultati e conseguenze? Qualche storia, a partire da questa faccia e tre date
di Elena Zacchetti – @elenazacchetti
Ogni anno il magazine statunitense Forbes pubblica una classifica delle 10 persone più potenti al mondo. Nel 2013 al primo posto c’era Vladimir Putin, presidente della Russia in carica, dominatore assoluto della politica russa degli ultimi 15 anni e probabilmente per i prossimi 10. Forbes diede questa motivazione:
«Putin ha consolidato il suo potere in Russia, e chiunque guardi la partita a scacchi che si sta giocando sulla Siria ha una chiara idea dello spostamento di potere a suo favore sullo scenario mondiale. L’uomo forte ex del KGB – che controlla un arsenale nucleare, un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU e alcune delle riserve di greggio e gas più grandi al mondo – sarà presidente per i prossimi sei anni e potrebbe rimanere in carica fino al 2024»
Fare opposizione in un paese come la Russia, con uno come Vladimir Putin alla presidenza, non è stato per niente facile in nessun momento degli ultimi 15 anni. L’eventualità di finire in carcere, o di vedere la propria reputazione screditata con “metodi da KGB”, è sempre stata praticamente una certezza. Recentemente però molti importanti e autorevoli giornali internazionali hanno iniziato a occuparsi della Russia per via di alcuni aspetti nuovi e da un certo punto di vista piuttosto sorprendenti: hanno raccontato la nascita di diverse forme di opposizione a Russia Unita, il grande e potentissimo partito di Putin e dell’attuale primo ministro Dimitri Medvedev, e di qualche “concessione” fatta dal presidente sul piano della liberalizzazione politica. Anche se tutto il potere di Putin non è stato scalfito e molto passa ancora dalle sue mani, dall’esito delle elezioni alla sorte dei suoi oppositori politici e dei mezzi di comunicazione indipendenti, ci sono stati piccoli esperimenti di opposizione che hanno avuto successo.
Ci sono tre date importanti per raccontare l’opposizione in Russia, com’è oggi. 24 settembre 2011: Medvedev annuncia la candidatura di Putin a presidente. 6 maggio 2012: un’enorme protesta anti-governativa a Piazza Bolotnaya diventa il pretesto usato da Putin per reprimere e indebolire le opposizioni. 8 settembre 2013: ci sono le elezioni comunali a Mosca e il più noto leader dell’opposizione, Alexey Navalny, sfiora la possibilità di andare al ballottaggio con il candidato scelto da Putin, dopo aver condotto una compagna elettorale molto “americana”. Molte di queste storie sono state raccontate pochi giorni fa da Julia Ioffe sul New Republic. Ma partiamo dall’inizio.
24 settembre 2011
«Considero giusto sostenere la candidatura a presidente di Vladimir Putin»
Il 24 settembre 2011 si tenne a Mosca la convention di Russia Unita. All’epoca il presidente russo era Dimitri Medvedev, che aveva sostituito Putin che dopo due mandati non poteva ricandidarsi: Putin stesso scelse Medvedev e in quegli anni fece il primo ministro. Dopo avere accettato l’incarico di segretario del suo partito, l’allora presidente Medvedev fece un annuncio atteso ma che avrebbe comunque cambiato molto della vita politica del paese (inizia al minuto 4.18, con sottotitoli in inglese).
La Costituzione russa era appena stata modificata per permettere al futuro presidente di stare in carica sei anni, e non più quattro, mentre era rimasto invariato il limite di due mandati consecutivi: questo significava che, in caso di vittoria delle elezioni, Putin sarebbe potuto rimanere in carica per altri 12 anni, un’enormità.
I mesi che seguirono la candidatura ufficiale di Putin furono tra i più agitati della storia recente russa. Le opposizioni cominciarono a organizzare le prime proteste a Mosca. Il 5 dicembre circa 5.000 persone si radunarono a Chistye Prudy, uno dei quartieri vecchi più belli della capitale, per chiedere elezioni libere. Le persone urlavano “Russia senza Putin!” e “Putin è un ladro!”. Ci furono diversi interventi decisi e appassionati, come quello di Alexey Navalny, che allora era solo uno dei più conosciuti blogger della Russia, impegnato in inchieste contro la corruzione. Cinque giorni dopo 50.000 persone si trovarono a piazza Bolotnaya, nel centro di Mosca, e fecero richieste simili: nessuno fu arrestato e le proteste si diffusero anche in decine di altre città russe. Il 24 dicembre le persone che manifestarono a Mosca furono 100mila.
L’inverno moscovita del 2011 fu caotico, scandito da manifestazioni e proteste, ed entusiasmante per i molti gruppi di opposizione che vi parteciparono. Per diversi giorni né il governo né Russia Unita commentarono quello che stava succedendo. Poi Julia Ioffe, giornalista mezza americana e mezza russa che stava scrivendo un pezzo per Foreign Policy (pubblicato poi il 5 febbraio 2012 con il titolo “Upping the Ante“, “Alzare l’asticella”), contattò Yuri Kotler, un giovane membro di Russia Unita ed ex consigliere di Boris Gryzlov (che tra le altre cose era stato presidente della Duma, il parlamento russo), per chiedergli quale fosse la percezione del Cremlino nei confronti delle proteste. Ioffe raccontò così la conversazione che ebbe con Kotler:
«Mi chiese se avevo un animale. Risposi che sì, avevo un gatto. “Bene, immagina se il tuo gatto venisse da te e iniziasse a parlarti”, mi disse Kotler. “Prima di tutto, è un gatto, e sta parlando. Secondo, in tutti questi anni il governo gli ha dato da mangiare e da bere, lo ha coccolato, e ora sta parlando e sta chiedendo qualcosa. È uno shock. Dobbiamo abituarci»
Il governo non si curò troppo del gatto che aveva iniziato a parlare, ma fece comunque qualche concessione: per esempio liberalizzò in parte il sistema elettorale e reintrodusse l’elezione per i governatori e i sindaci, che era stata sospesa da Putin dieci anni prima. Il 4 marzo i russi andarono a votare per eleggere il nuovo presidente, esattamente tre mesi dopo avere votato per le elezioni parlamentari. Putin ottenne i due terzi dei voti ma a Mosca si fermò al 47 per cento. Come scrissero diversi osservatori, aveva perso parte della propria popolarità e soprattutto a Mosca erano nati diversi gruppi sociali e politici che si opponevano al dominio di Russia Unita. Sembrava che le cose potessero cambiare. Ma poi arrivò il 6 maggio 2012, che sembrò cancellare tutto ciò che le opposizioni erano riuscite a conquistare l’inverno precedente.
6 maggio 2012
Piazza Bolotnaya
Il 6 maggio 2012, a poco meno di due chilometri di distanza dal Gran Palazzo del Cremlino (la residenza ufficiale del presidente) ma dall’altra parte del fiume Moscova, ci fu uno degli scontri più importanti e significativi della storia recente della Russia. Era la vigilia dell’inaugurazione del terzo mandato presidenziale di Vladimir Putin. Circa 50.000 persone stavano sfilando per protestare contro presunti brogli elettorali, che secondo le opposizioni avevano condizionato le elezioni parlamentari del 4 dicembre 2011, vinte in maniera risicata da Russia Unita. La folla stava per raggiungere piazza Bolotnaya, quando la situazione precipitò rapidamente. Attivisti e “cosmonauti” – soprannome dato in Russia ai poliziotti anti-sommossa – iniziarono a scontrarsi con violenza: alcuni manifestanti riuscirono a sfilare gli elmetti dalle teste dei poliziotti e lanciarli nel fiume, raccogliendo anche applausi dalla folla che si era radunata dall’altra parte del ponte. Ci furono molti feriti, da entrambe le parti, e circa 400 persone furono arrestate.
Dopo gli scontri del 6 maggio la risposta di Putin fu molto dura. L’11 giugno le case di Alexey Navalny e di altri leader dell’opposizione furono perquisite, e poi arrivarono gli arresti. Il CEO di VKontrakte (la versione russa di Facebook), piattaforma che aveva avuto un ruolo importante nell’organizzazione delle proteste dei mesi passati, fu interrogato e forzato a lasciare temporaneamente il paese nella primavera del 2013. Diversi media indipendenti cominciarono a vedere i propri inserzionisti sfilarsi pian piano (come successe a Dozhd, l’unico canale indipendente in Russia, ma ci arriviamo). Le proteste si fecero meno numerose e meno frequentate.
Sul “caso Bolotnaya”, come vennero poi definite le vicende giudiziarie legate alle proteste di quel 6 maggio, in Russia nacque un forte interesse. In breve tempo diversi gruppi per la difesa dei diritti umani e dei diritti civili accusarono il governo russo di portare avanti un processo politico: per esempio Ilya Yashin, cofondatore del movimento politico liberal democratico russo Solidarnost, definì quello che stava succedendo «una campagna di repressione politica che non si vedeva dai tempi dell’Unione Sovietica». Nacquero anche diverse iniziative per garantire un giusto processo alle 28 persone formalmente accusate per gli scontri. La versione inglese di una di queste si chiama “Bolotnaya Case Square” (esiste ovviamente anche la versione in russo). Il progetto è stato fondato nell’agosto del 2012 e ancora oggi viene tenuto aggiornato con le novità dei processi in corso. Secondo quanto si apprende da “Bolotnaya Case Square”, alcuni degli accusati sono ancora in attesa di giudizio, altri sono agli arresti domiciliari, altri ancora stanno scontando delle pene superiori a dieci anni. Solo cinque di loro hanno sfruttato l’amnistia recentemente approvata dalla Duma e sono state scarcerate.
L’amnistia per le Pussy Riot e Khodorkovsky, e quella degli altri
L’Occidente non ha accolto con grandi speranze la decisione di Putin di concedere l’amnistia ad alcuni detenuti. La diffidenza generalmente diffusa verso il governo russo ha spinto molti a notare come il provvedimento sia rivolto in realtà a poche persone, specialmente a quelle su cui l’attenzione dei media internazionali era più alta: è stato così per i casi di Mikhail Khodorkovsky, l’ex proprietario dell’unica azienda energetica rivale della statale “Gazprom” ed ex uomo più ricco della Russia, e delle due Pussy Riot rimaste in carcere, Maria Alyokhina e Nadezhda Tolokonnikova. La maggior parte degli accusati del “caso Bolotnaya”, per esempio, non è stata coinvolta nell’amnistia, e anzi gli attivisti hanno accusato il governo di avere usato verso di loro metodi punitivi tipici dell’epoca sovietica, come l’internamento in cliniche psichiatriche (una delle sentenza più discusse è stata quella nei confronti di Mikhail Kosenko, accusato di avere picchiato un poliziotto e forzato a sottoporsi a trattamento psichiatrico per schizofrenia). Decidendo a chi concedere l’amnistia, ha scritto il New York Times, Putin ha dimostrato tra l’altro di poter fare sostanzialmente ciò che vuole, senza badare troppo né alle sentenze della magistratura né alle leggi approvate dalla Duma.
All’interno di ogni foto, le storie di alcuni prigionieri russi interessati all’amnistia.
Secondo molti osservatori, tra cui alcune organizzazioni internazionali che si occupano di difesa dei diritti umani, l’amnistia è stata una specie di mossa di Putin per riavvicinarsi all’Occidente, almeno temporaneamente, in vista dei Giochi olimpici invernali di Sochi iniziati il 6 febbraio. Per esempio John Dalhuisen, direttore del programma relativo all’Europa e all’Asia Centrale di Amnesty International, ha detto: «La scarcerazione dell’uomo d’affari Mikhail Khodorkovsky, delle cantanti delle Pussy Riot Maria Alekhina e Nadezhda Tolokonnikova e di alcuni condannati del “caso Bolotnaya” non dovrebbe essere vista come un atto di clemenza fatto in buona fede, ma una manovra politica studiata in vista delle Olimpiadi di Sochi». La mossa di Putin potrebbe anche essere stata fatta per alleggerire le critiche che da diversi mesi hanno preso di mira la durissima legge anti gay approvata dal parlamento russo, e la più generale omofobia diffusa nel paese e documentata recentemente da un video piuttosto violento e impressionante di Human Rights Watch.
La fine di Dozhd, unico canale televisivo indipendente
Un altro grande problema dell’opposizione russa è il controllo praticamente totale esercitato da Putin sui mezzi di comunicazione. I canali di informazione indipendenti sono pochissimi e uno dei più importanti e diffusi sta passando guai piuttosto grossi. In un articolo pubblicato il 22 ottobre l’inviata del Guardian a Mosca, Miriam Elder, ha descritto così l’opposizione in Russia.
«Hanno i loro media. Leggono il loro magazine settimanale Bolshoi Gorod, guardano il canale TV indipendente Dozhd e ascoltano la stazione radio liberal Ekho Moskvy. Vanno ai loro caffè, frequentano il bistrò in stile francese Jean-Jacques. Il venerdì sera si possono trovare a Mayak, una roccaforte bohémien con l’aria tersa dal fumo, e il sabato vanno a Zavtra per ascoltare musica dai loro iPod»
Lo scorso mese il canale televisivo russo Dozhd ha lanciato un sondaggio online in occasione del 70esimo anniversario della fine dell’assedio di Leningrado (oggi San Pietroburgo), durante il quale morirono circa 800mila persone, tuttora molto celebrato e ricordato in Russia. Il sondaggio chiedeva: invece che resistere per 872 giorni consecutivi all’assedio dei nazisti, i russi non avrebbero fatto meglio ad arrendersi, in modo da risparmiare tutte quelle vite umane? Il canale Dozhd fu attaccato da molte parti, specie dai parlamentari russi pro-Cremlino, che chiesero al procuratore generale di avviare un’indagine per estremismo. Il portavoce di Putin, Dmitry Peskov, disse che si era superata una “linea rossa morale” e diverse piattaforme televisive satellitari cominciarono a parlare di interrompere le trasmissioni di Dozhd.
Dozhd è conosciuto per essere l’unico canale satellitare di news indipendente in Russia, uno dei pochi mezzi di informazione non appartenente all’ampio gruppo dei “media di stato”. È stato lanciato nel 2010 e ha dato ampia copertura ad alcuni avvenimenti poco seguiti dalla stampa nazionale – principalmente per ragioni politiche – come le manifestazioni anti-governative del 2010-2011, il processo alle Pussy Riot e il rilascio dell’oligarca Mikhail Khodorkovsky. Negli ultimi tre anni il suo pubblico è cresciuto in maniera significativa, specialmente tra la classe media russa con un buon livello di istruzione. Poi però è arrivata la vicenda del sondaggio online e le cose sono cambiate: i maggiori inserzionisti di Dozhd hanno cominciato a ritirare i contratti che avevano stipulato con il canale (i due principali inserzionisti, appartenenti allo stesso oligarca, ritirarono i loro contratti a distanza di 10 minuti l’uno dall’altro).
Lunedì 3 febbraio Natalya Sindeyeva, direttore generale di Dozhd, ha spiegato in una conferenza stampa che il canale si trova sull’orlo della bancarotta e molto presto potrebbe essere costretto a chiudere. A causa del guaio del sondaggio, Tricolor TV – una delle piattaforme più importanti che ospita le trasmissioni di Dozhd – ha già detto che ridurrà la diffusione del canale rendendolo visibile a sole 500mila persone (prima erano 17,4 milioni). Il redattore capo Mikhail Zygar ha detto alla stampa: «Tricolor TV è l’operatore più grande. Il suo ritiro è un punto di svolta. È una linea rossa che rende perfettamente chiaro che è iniziata una guerra contro di noi». Secondo Tonia Samsonova, inviata a Londra per la radio Ekho Moskvy e Dozhd, le pressioni nei confronti del canale indipendente sono cresciute con il ritorno di Vladimir Putin alla presidenza del paese nel 2011.
8 settembre 2013
Il miracolo di Alexey Navalny
Nonostante l’irrigidimento di Putin nei confronti delle opposizioni nell’ultimo anno, alcune forme di contestazione e competizione politica sono riuscite a ritagliarsi degli spazi notevoli, sfruttando in particolare una specie di protezione garantita dalla visibilità pubblica. L’esempio più calzante è Alexey Navalny, il più noto oppositore di Putin. Navalny – 37 anni, ex avvocato – si avvicinò alla politica nel 2007, quando iniziò a scrivere su un proprio blog cose legate alla corruzione diffusa tra i membri dell’apparato di potere russo. Col passare dei mesi, delle inchieste, delle proteste pubbliche e dei primi arresti, anche la stampa straniera cominciò a occuparsi di lui: il New York Times lo definì «l’uomo responsabile dell’incredibile attivismo antigovernativo» che aveva invaso Mosca alla fine del 2011, il Wall Street Journal come «l’uomo di cui Putin ha più paura», mentre Time lo accostò a Erin Brockovich.
Di certo da più di un anno Navalny è formalmente il leader del fronte di opposizione anti-Putin. Nell’ottobre del 2012 uscì vincitore da una votazione online a cui parteciparono molti leader dell’opposizione russa, tra cui lo scrittore Dmitry Bykov (arrivò secondo), l’ex campione di scacchi Garry Kasparov (terzo), la cosiddetta “Paris Hilton” russa, la presentatrice televisiva e figlia del mentore politico di Putin Ksenia Sobchak, e il leader del gruppo Solidarnost, Ilya Yashin.
L’8 settembre scorso Navalny è stato uno dei due candidati alle elezioni per il sindaco di Mosca: che non è poca cosa – Masha Lipman del New Yorker lo ha definito un mezzo miracolo – sia perché è stata la prima volta in 10 anni che i moscoviti sono andati a votare per il loro sindaco, sia perché da lì sono passati grandi politici russi, tra cui Boris Eltsin prima di diventare presidente. Navalny arrivò secondo, dietro al sindaco uscente e candidato di Putin, Sergei Sobyanin, che vinse con poco più del 51 per cento al primo turno, senza andare al ballottaggio.
Per Navalny – che è anche un convinto nazionalista e partecipa ogni anno alle celebrazioni della Giornata dell’unità nazionale – quella fu comunque una grande campagna elettorale, come raccontò a Ioffe per New Republic: «Fu la prima campagna elettorale vera nella Russia contemporanea. In molti aspetti copiammo i metodi delle campagne americane». Navalny raccolse finanziamenti di vario tipo, anche online, raggiungendo due volte e mezzo la quantità di denaro che si era prefissato all’inizio. Reclutò volontari molto motivati, incontrò gli abitanti di circa 90 quartieri, prendendo spunto dalle primarie di New York e guardando House of Cards. «È stato il lavoro più duro di tutta la mia vita», disse poi. Alle elezioni dell’8 settembre ottenne il 27 per cento dei voti – pochi se lo aspettavano, le aspettative erano molto più basse – e secondo molti osservatori occidentali i risultati del primo turno furono condizionati da brogli, senza i quali Sobyanin sarebbe stato costretto ad andare al ballottaggio (un’eventualità non accettabile per il governo).
Oggi Navalny è a capo di uno staff di 35 persone, pagate grazie a una serie di donazioni online. Ha un grande ufficio a Mosca, con appesa alla parete un’enorme mappa della capitale divisa per distretti, usata per studiare la strategia migliore in vista delle prossime elezioni del parlamento locale fissate per settembre 2014, a cui parteciperanno alcuni dei componenti del suo staff. Navalny continua a occuparsi anche di inchieste legate alla corruzione: l’ultima, i cui risultati sono visibili dal 2 gennaio su questo sito interattivo, ha riguardato le spese spropositate sostenute dal governo per le Olimpiadi di Sochi. Per il momento, come lui stesso ha ammesso, non c’è nessun altro in grado di competere con lui nello schieramento delle opposizioni. Che ne sarà nei prossimi mesi delle attività di Navalny rimane comunque piuttosto incerto: a marzo lui e il fratello minore dovranno affrontare un procedimento penale legato a delle presunte attività commerciali di famiglia illegali. Lo stesso Navalny ha spiegato che potrebbe finire di nuove in prigione, e se questo succederà o meno dipenderà solo ed esclusivamente dalla volontà delle autorità russe. Cioè di Putin.
Un piccolo e divertente esperimento di opposizione: @KermlinRussia
Il 3 febbraio Katya Romanovskaya ha lasciato il suo appartamento di Mosca per andare al lavoro. Si è avvicinata alla sua macchina, parcheggiata sul lato della strada, e ha visto un pene gigante, lungo dal cofano fin sopra il tettuccio della sua auto, legato con una catena in metallo. Dopo un esame più approfondito Romanovskaya ha scoperto che era fatto di un tronco d’albero, su cui erano state accuratamente intagliate le vene, e pesava oltre 54 chilogrammi. Non sarebbe stato facile rimuoverlo. Romanovskaya gli ha fatto una foto, l’ha pubblicata su Facebook e ha scritto: «Finalmente è arrivato il giorno in cui il mio lavoro è stato notato e apprezzato».
Romanovskaya, 38 anni, è un personaggio piuttosto conosciuto tra le opposizioni russe della capitale: nel 2010 insieme al suo collega Arseny Bobrosky, 29 anni, fondò il popolare account Twitter @KermlinRussia, che New Republic descrive un po’ “alla Stephen Colbert” – comico statunitense molto apprezzato che occupa il suo show satirico “Colbert Report” con versioni caricaturali di politici conservatori. @KermlinRussia, che ha un omologo account anche su Facebook, twitta cose come se le dicesse il presidente in persona e si prende gioco del potere e del governo russo per le sue bugie, i suoi furti, le sue assurdità.
Alcuni dei tweet di @KermlinRussia:
Riguardo alla corruzione e all’aumento degli investimenti per le Olimpiadi invernali a Sochi:
«Allo scopo di risparmiare 327 miliardi di rubli, è stato deciso di spostare la sede dei giochi olimpici da Sochi a Vancouver, dove è già tutto pronto.»
Riguardo al piano di salvataggio adottato dal Cremlino per superare la crisi economica che ha colpito la Russia nel 2008 e 2009:
«È importante non permettere una seconda ondata di crisi economica, visto che il fondo di stabilizzazione è già stato saccheggiato.»
Riguardo la mancanza di elezioni per i governatori:
«Oggi le elezioni dei governatori della Karelia e della Chuvashia si terranno nel mio ufficio.»
Il nome “KermlinRussia” fu pensato nel giugno 2010, dopo che l’allora presidente Medvedev aprì un account – @KremlinRussia – durante una visita agli uffici di Twitter della Silicon Valley. Nel giro di otto mesi l’account alternativo di Romanovskaya e Bobrosky superò i 50mila followers e Medvedev, per evitare confusioni, cambiò il nome da @KremlinRussia a @MedvedevRussia (oggi @KermlinRussia ha circa 713mila followers e ha twittato oltre 3.700 volte). Julia Ioffe, giornalista del New Republic, racconta che nel dicembre 2010, quando intervistò per la prima volta Romanovskaya e Bobrosky, i due rifiutarono di dirle i loro nomi reali o di mostrare le loro facce, anche “off the record”. Solo nell’aprile del 2013, durante un’intervista per QG Russia, mostrarono per la prima volta pubblicamente le loro facce (qui e qui). Nell’estate del 2013 i due attivisti si avvicinarono molto a Navalny e Arseny si offrì come consulente volontario per la sua campagna elettorale per diventare sindaco di Mosca. La collaborazione finì però prima delle elezioni municipali del settembre 2013, a causa di alcuni disaccordi su come promuovere l’immagine pubblica di Navalny (e su altre questioni già discusse in precedenza da Romanovskaya, specialmente riguardo le posizioni eccessivamente nazionaliste di Navalny).
Il pene gigante potrebbe essere stato messo lì dai Nashi, un gruppo di giovani attivisti russi pro-governo fondato dopo la cosiddetta “rivoluzione arancione” in Ucraina nel 2005. Del gruppo Nashi si parlò anche sulla stampa occidentale nell’estate del 2010, dopo che i suoi membri furono accusati di avere orchestrato una serie di “trappole sessuali” ai danni di politici di opposizione e giornalisti liberali, per screditarli di fronte all’opinione pubblica (accusa che Nashi negò sempre). Ad ogni modo il pene gigante ora è di proprietà di Romanovskaya, come ha specificato la pagina Facebook dei due attivisti.