Football americano e commozioni cerebrali
Le brutte storie di quello che succede a moltissimi ex atleti quando smettono di giocare: un grosso problema, negato a lungo ma ormai di dominio pubblico
di Luca Misculin – @LMisculin
Da anni negli Stati Uniti si discute delle conseguenze sulla salute del football americano, uno degli sport più popolari e praticati del paese – nonché uno dei più violenti – e in particolare delle ricadute neurologiche sugli atleti professionisti dovute alle frequenti commozioni cerebrali, uno degli infortuni più comuni. Nel football, infatti, più di metà della squadra titolare (si gioca in 11) ha il compito di bloccare gli avversari e favorire la circolazione della palla: e sono molto frequenti blocchi, scontri, collisioni nei quali si utilizza praticamente ogni parte del corpo (qui una piccola guida alle regole del gioco).
Il 14 gennaio del 2014 il giudice federale Anita Brody ha negato l’approvazione per il patteggiamento di una grossa causa contro la NFL, la federazione che organizza il campionato di football, che avrebbe dovuto risarcire con un totale di 765 milioni di dollari circa 20mila ex atleti professionisti che durante la carriera hanno avuto commozioni cerebrali. Il giudice Brody ha detto di essere molto preoccupata del fatto che «la cifra non riuscirà a coprire tutti gli atleti che hanno ricevuto una diagnosi medica né le loro famiglie».
Il problema è frequentissimo. Nel 2000 uno studio dell’accademia americana di neurologia presentò uno ricarca condotta su 1094 ex giocatori professionisti che aveva dentro dati impressionanti. Lo studio sosteneva che circa il 61 per cento di essi aveva avuto almeno una commozione cerebrale nel corso della propria carriera, e inoltre che “il 49 per cento ha sperimentato perdita della sensibilità e formicolii; il 28 per cento artriti al collo o al nervo cervicale; il 31 per cento ha problemi di memoria; il 16 per cento non è in grado di vestirsi autonomamente; l’11 per cento non è in grado di nutrirsi autonomamente”.
Il rapporto aggiungeva inoltre che «parte della stessa strategia adottata dalla NFL per promuovere il football prevede l’esaltazione della brutalità e della ferocia dello stesso, mitizzando fra le altre cose i giocatori più violenti e gli scontri di gioco più brutali. […] Come risultato di questa strategia, la NFL ha quindi diffuso il mito che ogni tipo di scontro fra giocatori, inclusi quelli più violenti – molti dei quali producono danni neurologici a breve e a lungo termine – sono una normale, accettabile e anzi desiderabile conseguenza dell’azione di gioco, nonché misura del coraggio e dell’eroismo del giocatore coinvolto».
Tre anni prima la NFL aveva già rifiutato di adottare alcune linee guida suggerite dalla stessa accademia riguardo le cure ai giocatori che subiscono una commozione cerebrale durante una partita: un loro consulente disse che «vediamo da sempre giocatori che perdono conoscenza e poi, dopo poco, non mostrano più nessun sintomo». La NFL, più in generale, ha negato per anni che la pratica ad alti livelli del football potesse comportare a lungo termine disturbi neurologici. La prima commissione indipendente creata dalla NFL per occuparsi del problema nacque solo due anni fa. Nel 1993 infatti ne fu creata una presieduta da Elliot Pellman, il medico della squadra dei New York Jets: Pellman però era un reumatologo e già all’epoca si sospettò che non fosse qualificato per guidare la commissione. Negli anni, poi, si scoprì che era anche il medico personale di Paul Tagliabue, un avvocato americano che fu il capo della NFL fino al 2006. Nel 2003 la commissione della NFL stabilì che le commozioni cerebrali non avevano effetti a lungo termine, causando molte polemiche – anche perché questa storia comincia molto prima.
La storia di Big Cat
Il 23 novembre 1969 si giocò Los Angeles Rams-Dallas Cowboys. Rayfield Wright aveva 24 anni e quel giorno esordiva nella NFL: giocava da offensive tackle, cioè nella linea di giocatori che deve proteggere dai giocatori avversari il quarterback – il giocatore più importante della squadra, quello che riceve palla a inizio dell’azione e gestisce le azioni d’attacco. Il giocatore schierato davanti a lui nella linea avversaria, col quale quindi era previsto che si sarebbe scontrato più volte nel corso della partita, era l’esperto 31enne Deacon Jones.
Poco prima dell’inizio della prima azione di gioco, come Wright ha raccontato al New York Times in una recente intervista, Jones gli chiese: «Ehi, ragazzo; tua mamma lo sa che sei qui?». Wright ebbe appena il tempo di pensare a ciò che aveva sentito – «cosa diavolo dovrebbe c’entrare mia mamma con tutto questo?», ricorda di aver pensato – che la palla fu giocata senza che lui se ne accorgesse. Approfittando della sua distrazione, l’esperto Deacon scattò verso di lui e lo colpì con una violenta sberla sul casco. Wright cadde all’indietro e perse conoscenza. Racconta che quando si riprese gli sembrava di vedere «una galassia di stelle» e che era rimasto sdraiato sul campo, senza potersi muovere. Guardò in direzione della linea laterale del campo, in direzione del suo allenatore, Tom Landry, il quale lo guardò per un secondo e poi si girò dall’altra parte. Wright ricorda di aver pensato: «Dio, mi sa che devo cavarmela da solo».
Con tutta probabilità Wright ebbe una commozione cerebrale: un malore causato da un trauma cranico che nel breve termine può comportare perdita di conoscenza e nausea. Racconta che nella sua carriera se ne procurò «così tante che non riuscirei a contarle tutte». Si ritirò nel 1979, dopo più di 180 partite da professionista: nel corso della sua carriera fu poi soprannominato “Big Cat”. Ancora oggi è considerato uno dei migliori componenti della linea d’attacco di tutta la storia del football americano: nel 2006 è stato inserito nella Hall of Fame della NFL, che a oggi comprende 280 giocatori. Dopo divenne una sorta di motivatore professionale: lo invitavano a fare discorsi e firmare autografi, lui recitava The Road Non Taken, una poesia di quattro strofe scritta dal poeta americano Robert Frost che aveva imparato a memoria quando era alle medie.
Ma già dai primi anni successivi al ritiro si accorse che qualcosa non andava. Si licenziò dalla banca in cui aveva trovato lavoro dopo soli due anni, poiché avere a che fare con operazioni matematiche era diventato troppo complicato. Non disse a nessuno che si era ritirato a 34 anni in parte perché non capiva più le tattiche della sua squadra. Negli anni successivi al ritiro perse gran parte dei soldi guadagnati da professionista in operazioni finanziarie discutibili, racconta il Times.
Col passare degli anni le sue condizioni peggiorarono. Divenne lunatico e cominciò a dimenticarsi cose che erano successe il giorno precedente. La sua compagna dell’epoca, Jeannette DeVader, ricorda che spesso Wright la chiamava mentre era in un’altra stanza, incapace di ricordarsi cosa stesse facendo pochi secondi prima; altre volte, invece si scordava il nome delle cose che erano presenti in casa. Lui stesso racconta che ebbe diversi incidenti d’auto a causa di alcune crisi di questo tipo; ora ha smesso di guidare. Si trasferì in un piccolo paese 30 chilometri a ovest di Fort Worth, in Texas, perché secondo il New York Times «in pochi potessero accorgersi del suo declino fisico». Prima dell’intervista con il Times, Wright dice di non aver mai parlato ufficialmente delle sue condizioni perché «troppo orgoglioso»: ha aggiunto che «in questo campo non vuoi che la gente ti guardi diversamente. Sei stato al top della NFL, non vuoi che ora la gente sappia. Dovrei essere tosto e invincibile: se c’è qualcosa che non va in te, tenti di nasconderlo. Ed è esattamente quello che ho fatto io».
Nel tempo gli fu diagnosticata una forma di depressione, ma né Wright né DeVader credevano che la diagnosi fosse completa e contattarono altri medici per avere pareri diversi. Juliet Macur, la giornalista che lo ha intervistato per il Times, ha scritto che in alcuni momenti della loro conversazione Wright perdeva improvvisamente la lucidità: a un certo punto le disse che stava «continuando a lottare, dentro di me, anche in questo momento, mentre sto parlando». Aggiunse: «ho paura. Non voglio che questo accada. Vorrei solo sapere perché mi sta accadendo». DeVader, che non ha più una relazione con lui ma ne è diventata di fatto la badante, in quel momento gli ha ricordato che «abbiamo saputo nel 2012 che cosa ti stava accadendo».
Nel 2012 gli fu diagnosticata una forma di demenza, benché allo stadio iniziale. Continuò a tenere incontri pubblici e discorsi motivazionali – nel frattempo aveva contratto molti debiti dovuti alle spese mediche – finché nel corso di una queste conferenza, nel marzo del 2013, cominciò a recitare The Road Non Taken; ma inciampò al terzo verso, e arrivò affannosamente alla fine dell’intero discorso. Da quel momento non accetta più inviti per tenere conferenze e discorsi motivazionali. Secondo un calcolo del New York Times, nel caso la NFL si accordasse per patteggiare la causa collettiva degli ex giocatori a una cifra vicina a quella attuale, a Wright spetterebbero circa 380mila dollari.
«This is football»
Negli ultimi anni si è tornati a discutere della questione anche grazie a un lungo articolo del sociologo e saggista canadese Malcolm Gladwell pubblicato dal New Yorker nell’ottobre del 2009. Il pezzo comincia con la storia di Kyle Turley, allora 34enne, dal 2007 ex atleta professionista della NFL.
Una sera di agosto, Kyle Turley era in un bar di Nashville, in Tennessee, con sua moglie e alcuni amici. Era uno di quei piccoli locali con la musica dal vivo. Ordinò una birra ma si limitò a sorseggiarla perché doveva guidare. Aveva mangiato circa un’ora prima. Improvvisamente avvertì una vampata di calore, gli vennero le vertigini e cominciò a sudare. Gli era capitato spesso nell’ultimo anno – cose del genere, mal di testa, nausea. Ma questa volta era peggio. Chiese a sua moglie se poteva appoggiare la testa sul suo sgabello per un po’. Stava stava ancora suonando il gruppo spalla, e ricordò di aver detto: «Faccio solo un pisolino prima che arrivi l’altra band».
Turley cadde sul pavimento e perse conoscenza. Cominciò poi a vomitare e fu immediatamente portato in macchina al pronto soccorso. Turley ricorda: «cominciai a perdere il controllo. Tremavo dappertutto, non riuscivo a parlare. Ero cosciente, ma non riuscivo a pronunciare le parole che avevo in testa».
Anche Turley era un offensive tackle e ricorda vari momenti della sua carriera in cui subì delle commozioni cerebrali: «dopo non ricordi molto. Ci sono volte in cui colpisci un tizio e poi sei coinvolto in una mischia dove tutto finisce sottosopra. Sei confuso. E ci sono altre volte in cui parti dalla tua parte di campo, e vai su e giù, quindici, diciotto volte di fila. E ad ogni azione: scontro, scontro, scontro. Davvero, ci sono queste specie di esplosioni bianche – bum, bum, bum – e le luci diventano più fioche e chiare».
Turley racconta anche di una volta che perse conoscenza, fu preso in giro perché appariva intontito e portato di peso nello spogliatoio. Si tolse meccanicamente la divisa e si fece una doccia. Ricorda di essere stato seduto lì nello spogliatoio e poco altro. Giorni dopo però i suoi compagni gli raccontarono che alla fine della partita aveva abbracciato la proprietaria della squadra, Georgia Frontiere, mentre era nudo. Turley non se ne ricorda affatto. Quella volta fu poi portato in ospedale: nonostante gli facesse ancora male la testa dopo alcuni giorni ricevette il via libera per poter giocare, e si presentò agli allenamenti. Racconta: «Questo è il football. Ti dicono che può capitarti sia di farti male che di infortunarti. Non esiste una via di mezzo. Se sei infortunato non puoi giocare, ma se ti sei fatto male puoi giocare eccome. Il discrimine fra queste due cose è la capacità di mettersi in testa un casco e un paraspalle».
Turley e Wright soffrono entrambi di encefalopatia traumatica cronica (abbreviata in CTE), una malattia neurodegenerativa collegata alla cosiddetta “demenza pugilistica”, nota sin dagli anni Trenta, a causa della quale ex pugili soffrono di perdita della memoria a breve termine, difficoltà nei movimenti e diminuzione delle capacità motorie e cognitive.
Cos’è la CTE
Nel 2003, al laboratorio che si occupa delle neuropatologie dell’ospedale di Bedford, in Massachusetts, nel giro di poco tempo capitarono due casi molto simili fra loro.
Sul cranio di due pazienti morti di recente ai quali era stato diagnosticato il morbo di Alzheimer, una nota malattia degenerativa dalle cause ancora poco conosciute, era stata effettuata un’autopsia di routine che evidenziò risultati piuttosto insoliti. Poiché i pazienti soffrivano di una malattia neurologica, gli fu asportata parte del tessuto cerebrale, dal quale furono ricavati dei piccolissimi campioni. I campioni furono poi immersi in una sostanza speciale che evidenziasse la presenza di proteine dannose, le quali venivano acquisiscono colore e diventano così maggiormente visibili. In generale, nel cervello dei pazienti che soffrono del morbo di Alzheimer c’è traccia di due proteine: la betamiloide, visibile in rosso, per la quale è noto che una produzione anomala da parte del corpo “anticipa” una malattia degenerativa, e la tau, visibile in marrone, la quale si presenta di solito nella seconda fase delle malattie neurodegenerative ed è materialmente responsabile della graduale distruzione delle cellule cerebrali.
Nei pazienti a cui viene diagnosticato l’Alzheimer, un campione delle proprie cellule cerebrali si presenta macchiato sia di rosso sia di marrone. Nei due casi “insoliti”, invece, non c’era traccia del betamiloide, mentre era presente una grande concentrazione di proteina tau: una condizione tipica della encefalopatia traumatica cronica, una rara malattia causata da ripetute commozioni cerebrali. Insomma: la diagnosi riguardo il morbo di Alzheimer – nonostante i sintomi fossero simili, e cioè perdita della memoria e delle capacità motorie e cognitive – era sbagliata. Dopo alcune ricerche, inoltre, si scoprì che i due pazienti da giovani avevano entrambi praticato la boxe.
Ann McKee, la direttrice del laboratorio dell’ospedale di Bedford, cominciò a chiedersi quanti casi di Alzheimer erano stati diagnosticati a persone che da giovani avevano praticato sport che prevedevano la possibilità di essere ripetutamente colpiti alla testa, per anni, e che al contrario dei noti pazienti di “demenza pugilistica” (fra i quali i celebri pugili Sugar Ray Robinson e Jimmy Ellis) avevano praticato la boxe per pochi anni oppure altri sport altrettanto violenti. E la cui malattia, insomma, non era dipesa da una qualche predisposizione genetica, ma dalle botte in testa prese durante la propria carriera sportiva – quindi evitabili o in qualche modo prevenibili.
McKee allora contattò Christopher Nowinski, ex giocatore di football e wrestler professionista, che aveva fondato un’associazione per sensibilizzare riguardo le malattie causate da commozioni cerebrali (Nowinski ne aveva avute sei, in carriera, l’ultima delle quali gli lasciò alcuni effetti permanenti). McKee chiese a Nowinski di procurargli alcuni cervelli di ex atleti, sui quali condurre una ricerca più approfondita (McKee disse che ne aveva bisogno di almeno 50, per avere dei dati attendibili). Nowinski quindi cominciò a contattare per telefono i parenti di atleti morti recentemente, per chiedergli di donare il cervello per la ricerca. Ne trovò 16, appartenenti a persone di età diverse, la maggior parte dei quali erano stati giocatori di football americano che avevano giocato nella linea di attacco – proprio come Turley o Wright – o di difesa. Racconta Gladwell che il cranio di uno di loro, che aveva giocato nella NFL per 16 anni come offensive tackle, «mostrava una cicatrice scura sulla superficie del lobo frontale, esattamente dove il cervello aveva ripetutamente sbattuto contro il cranio. Era il tipo di ferita che ci si procura quando si utilizza la propria testa come una sorta di ariete da guerra». Era morto a causa di un incidente con una pistola, ma secondo McKee sarebbe comunque finito presto in un istituto per pazienti affetti da malattie neurologiche.
Un’indagine telefonica condotta dall’Università del Michigan ha indicato che il 6,1 per cento degli ex giocatori con più di 50 anni ha ricevuto una diagnosi di “demenza, morbo di Alzheimer o una malattia collegata alla memoria”: una cifra cinque volte superiore alla media nazionale riguardo lo stesso campione di età. Per quanto riguarda gli ex giocatori di età compresa fra i 30 e i 49 anni, invece, la percentuale era diciannove volte superiore a quella dei loro coetanei che non avevano giocato a football. Ma McKee ha inoltre analizzato il cervello di un ragazzo di 18 anni, morto per cause non chiarite, che ha giocato a football per circa due anni: racconta McKee che «ha tutta questa tau, e nelle regioni vulnerabili del cervello. Non vedresti un livello tau così alto nemmeno in un ottantenne, ma nemmeno in un cinquantenne».
Negli ultimi anni la CTE è stata diagnosticata a numerosi ex giocatori di football. Chris Henry, che quando aveva 26 anni giocava nei Cincinnati Bengals, morì cadendo da un camion in movimento: dall’autopsia si scoprì che aveva la CTE e prima di morire raccontò a sua madre che soffriva di frequenti emicranie e cambi di umore. Il 27 luglio 2012 si suicidò Ray Easterling, che giocava negli Atlanta Falcons, e ancora una volta l’autopsia mostrò i segni della CTE. Molti di essi si sono uniti alla causa intentata nel 2012 alla NFL.
Nel 2011 la commissione della NFL che si occupava di malattie neurologiche degli ex atleti fu rinnovata: i nuovi membri dissero che la precedente commissione aveva un «conflitto di interessi inaccettabile». Negli ultimi tempi la NFL ha appeso poster negli spogliatoi per sensibilizzare i giocatori contro i rischi delle commozioni cerebrali, e ha detto di avere pensato di introdurre multe e penalità per i giocatori che mirano volontariamente alla testa degli avversari durante gli scontri fra le linee. Un recente sondaggio di NBC News ha mostrato che il 40 per cento degli americani preferirebbe che i propri figli non praticassero il football, a causa dei danni permanenti causati dalle frequenti commozioni cerebrali.
Ira Casson, che assieme a Pellman diresse la prima contestata commissione della NFL, nel 2009 disse al New Yorker: «Sappiamo per certo che l’incidenza nella CTE nei pugili si deve alla lunghezza della loro carriera. Se volessimo applicarla al football – e non dico che si possa fare – dovremmo quindi costringere i giocatori a interrompere la propria carriera dopo sei o sette anni. Se venisse adottata questa misura nel pugilato, allora potremmo pensarci anche noi. Ma, d’altra parte, nella boxe non lo fa nessuno. Perché un pugile al top della sua carriera, dopo sei o sette anni, dovrebbe smettere di combattere proprio mentre sta facendo milioni di dollari? Il football è uno sport violento. Se volete, possiamo giocare a flag football [uno sport simile che però non prevede il contatto fisico]. Personalmente sarei d’accordo, ma non credo che i tifosi lo sarebbero altrettanto. Quindi che altro si può fare?».
foto: Andy Lyons/Getty Images